Pubblicato il 05/11/2018 07:58:26
QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA XIV – seconda parte Il linguaggio segreto della tradizione musicale del Giappone. (1)
Secondo Zeami, maestro incontrastato del dramma ‘Noh’, la parola indica la bellezza che si cela nello scatenarsi incontrollato della passione. Solo la ‘bellezza’ è infatti capace di ‘trattenere l’uomo là dove l’orrore e lo sgomento lo farebbero fuggire’, ed è questo uno dei segreti del Noh, l’espressione più completa dell’estetica tradizionale giapponese. Autori celebri quali Artaud e Beckett, Grotowski e Brook vi hanno ravvisato l’unità fondamentale tra parola e gesto che la drammaturgia del nostro secolo persegue. Gian Carlo Calza (2), nel libro “Il fiore del dèmone”, rintraccia nel Noh una via per la conoscenza di sé, per il recupero degli archetipi che la psiche occidentale ha smarrito, dilaniata com’è da infinite scissioni tra spirito e materia, mente e corpo, sentimenti e intelletto.
“Ama-no hara / “La luna che vedo furisake mireba / nel deserto del cielo Kasuga naru / può essere la stessa luna Mikasa no yama ni / che saliva sulla collina Mikasa ideshi tsuki kamo”. / del mio paese Kasuga?” (Abe no Nakamaro)
In “Alcuni nobili drammi del Giappone” che Ezra Pound (3) ha redatti e scelti dai manoscritti tradotti da Ernest Fenellosa, apprendiamo, che “L’Europa è molto vecchia e ha visto sfilare molte arti, ha imparato a conoscere i frutti di ogni fiore, e il sapore di ogni frutto. Ora è tempo di copiare l’Oriente e di vivere risoluti. […] Poesia, rituale, musica e danza, associati all’azione, richiedono che i gesti, costumi, mimica, scenografia, aiutino ad avvicinarsi alle profondità della mente, a ciò che è più umano e più delicato nell’incontenibile spirito che ci appartiene.” Siamo nel 1961, allorché W. B. Yeats (4), nella sua ‘Introduzione’ al testo (sopra citato), riguardo al Noh scrive: “La parola «nô» significa «perfezionamento» - degli attori e di alcune persone colte che capiscono le allusioni mitologiche e letterarie e le antiche liriche citate nei discorsi o nel coro, la loro disciplina – fa parte dell’ammaestramento. Gli attori stessi, al contrario dei disprezzati attori del teatro popolare, hanno tramandato con orgoglio un’arte elaborata, di padre in figlio e ancor oggi un attore renderà noto il suo albero genealogico per provare il proprio talento.”
“Yamakawa ni / “Sul fiume fra le montagne, kaze no kaketaru / la chiusa costruita dal vento shigarami wa / è di foglie rosse cadute nagare mo aenu / che non riuscendo a scorrere momiji nakikeri”. / insieme si radunano”. (Arumici no Tsuraki)
Anche noi lettori, per così dire, volontariamente ‘radunati’, comprendiamo la lezione (forse un po’ snob?) di Yeats per l’arte aulica del Noh e, sebbene con spirito rinnovato, possiamo dire che il ‘teatro popolare’ di ogni popolo, incluso quello giapponese, ha una sua valenza affatto sconsiderata. Soprattutto se consideriamo il fatto che Kimitake Hiraoka, noto con lo pseudonimo di Yukio Mishima (5), uno dei più famosi scrittori giapponesi degli ultimi tempi, ha sentito la necessità di rinnovare l’antica tradizione teatrale; riscrivendo in chiave moderna alcuni dei più famosi Noh facendosene al tempo stesso brillante interprete, per quanto il Noh sia una forma di teatro ben lungi dall’esaurirsi nel suo difficile rituale. Con “Cinque Noh moderni”, rievocati nell’accessibilità drammaturgica contemporanea, Mishima ne ha conservata tutta la ‘drammaticità’ contenuta dei testi più antichi. Un’operazione che oggi definiremmo di ‘restyling’ di drammi più antichi, ripresi dalla tradizione verosimilmente orale e rappresentati per la prima volta negli anni ’50 del Novecento. Nessuno meglio di Mishima avrebbe potuto resuscitare l’antica fama della tradizione e riallacciare con rinnovata sagacia l’interrotto dialogo con il passato e con la raffinata arte drammatica giapponese.
Allo stesso modo che Lafcadio Hearn (6), conosciuto anche come Koizumi Yakumo, giornalista e scrittore irlandese naturalizzato giapponese nel 1904, famoso per i suoi scritti sull’Oriente, in “Kwaidan: storie di spettri giapponesi”, invero ha cristallizzato un Giappone immobile, nel sorriso ineffabile dei suoi dèi, con i propri enigmi, e le proprie usanze e costumi. Un paese ‘saturo della più strana magia’, con tutto quanto concerne le sue fatalistiche e immaginarie storie di spettri e di fate. “Da un punto di vista artistico – egli scrive – questo paese è un immenso museo; da un punto di vista sociale e naturale, un vero regno di esseri magici dotati della più squisita gentilezza, […] qualcosa di infinitamente tenero , commovente, ingenuo, bello”. Il Giappone che vi compare descritto non è l’antica Cipango, né un paese sulla soglia di radicali trasformazioni: è semmai una metafora dell’eterna memoria collettiva, il mitico Reame di Horai, la cui atmosfera è capace di riplasmare le nozioni spazio-temporali e travalicare i limiti della memoria individuale, di duplicare l’esistenza, di fondare il primato del paradosso. Le storie che danno forma al suo libro sono per lo più volte a complicare i paradigmi dell’arte stessa di ‘narrare storie’, a immettersi nell’incoerenza propria dei sogni, a imbastire come in un gioco continue e ironiche simulazioni.
“Okuyama ni / “È triste la stagione dell’autunno momiji fumiwake / quando si cammina cercando sentieri naku shika no / fra le foglie rosse cadute koe kiku toki zo / e si sente la voce del pianto dei cervi aki wa kanashiki”. / nelle montagne profonde.” (Sarumaru Taifu)
È scritto che: “Le azioni dell’uomo diventano opere della sua vera natura solo se egli è in grado di percepirla dentro di sé. La convinzione di essere nella condizione di poter svolgere un determinato compito porta al superamento di qualsiasi ostacolo” (8). Nulla di meglio di così utile a questa ricerca per tornare a parlare di musica, e nel modo migliore. Riprendendo dal lontano passato narrativo del Giappone, uno dei romanzi (monogatari) più fantastici, la: “Storia di Genji il principe splendente” di Murasaki Shikibu (7), scritta da una donna. L’opera, conosciuta fin dall’XI secolo, viene definita come “una delle maggiori saghe dell’umanità, tra i massimi capolavori della letteratura mondiale”. Si tratta di uno dei più delicati racconti d’amore di tutti i tempi, sbocciato da una civiltà raffinata e coltissima sviluppatasi in Giappone intorno all’anno 1000, eppure vicinissimo alla moderna sensibilità. Conteso tra ‘Le mille e una notte’, ‘La Recherche’ di Proust e l’opera di Shakespeare, la ‘Storia di Genji’ narra delle fortune e delle avventure di questo ‘principe splendente’, e della sua favorita, gli intrighi amorosi, le passioni, le sfarzose ceronie, i giochi e le cacce della corte imperiale. Scritto secondo l’arte della grande poesia. La lirica poetica s’avvale qui di una scrittura musicale costruita sulle corrispondenze dei ricordi, in cui il riferimento magico ad alcuni strumenti gioca un suo ruolo importante, come ad esempio nel capitolo IX intitolato “Il flauto”:
“[…] Gli fu data una cetra, ch’egli riconobbe per quella di Kashiwagi. Dopo averne tratto alcuni accordi, disse alla madre Ochiba: - Conosco il timbro di questo strumento, è quello che usava Kashiwagi, o mi sbaglio? Come vorrei che vostra figlia ce la suonasse un poco. Si dice che il tocco di un defunto indugi sugli strumenti ch’egli ha suonato, e vi si possa riconoscere anche dopo la sua scomparsa. – Temo che in questo caso non sarà così, - rispose la madre, - perché dopo la sua morte le corde sono state tolte e sostituite con queste nuove. Negli ultimi tempi, Ochiba ha suonato molto poco e anzi, mi spiace dirlo, rischia di dimenticare tutto quanto le ha insegnato suo padre,[…] e insistette affinché la cetra rimanesse appaggiata accanto alla sedia di lei. […] Si era fatto asssai tardi, egli si preparava ad andarsene . proprio quando era sul punto di uscire, la madre gli porse un flauto - Apparteneva da anni alla famiglia di Kashiwagi, - disse; ma non serve che rimanga ozioso in questa casa deserta. Lui aveva l’abitudine di suonarlo mentre sedeva in carrozza, e la sua musica si mescolava coi gridi degli staffieri. Vorrei sentirlo suonare ancora così, anche se da altri. In un altro passo, è detto: “Yugiri ne trasse alcune volate, ma poi subito smise. […] Ancorché siano immutate le note che il flauto emette, foro per foro, che altro possono evocarne queste dita, se non la soffocata voce del pianto? – […] Quindi cavò dalla tasca il flauto, e ne trasse alcune note. Potesse, come il vento fra le canne, soffiare dove vorrei, allora la voce di questo flauto andrebbe tra le dita di un giusto erede. [… ] Domandò, e per dimostrare il proprio interesse, prese a spargere manciate di riso e a recitare formule di protezione: tutte cose che, se erano di ben poco aiuto,servivano almeno a scacciare da lui il turbamento di quel sogno”.
“Asaji-fu no / “Come mai pensa il mio cuore ono no shino hara / così intensamente alla persona amata shinoburedo / pur provando ad opprimere amarite nadoka / e di nascondere il mio amore hito no hoishiki”. / da non poter più resistere?” (Sangi Hitoshi)
Ma un altro libro si sporge sfacciatamente dalla scaffale della mia libreria: “I racconti di Ise” (8), scritti in buona parte e secondo la tradizione da un poeta di corte di discendenza imperiale, Ariwara no Narihira (8) attorno al 850-880, definito ‘un romanzo fatto di poesie’, e forse non c’è definizione migliore per delineare i contorni di un’opera che, comparsa anonima tra la fine del IX e l’inizio dell’ XI secolo, rappresenta un momento di estrema importanza per la letteratura giapponese, segnando la fine dell’asservimento della lingua cinese e la creazione di una letteratura autoctona. La narrazione è un susseguirsi di episodi amorosi e di romantiche avventure ambientate sia nella nitida bellezza del paesaggio nipponico, sia nella geografia fantastica delle leggende e del soprannaturale: “..una sorta di canzoniere d’amore dunque, ma che molto di più, il manifesto di un nuovo codice estetico corrispondente alle esigenze di una giovane nobiltà che prende coscienza della propria indipendenza dal peso culturale e che ha il fascino di ‘un fiore morente, il cui colore è svanito ma la cui fragranza rimane inalterata.”
I tre ‘haiku’ (9) meravigliosi qui di seguito trascritti, sono contenuti nei diversi scritti da Aiware no Narihira, in forma di ‘intermezzi’ del testo narrativo:
“Kasuga no no “Oh, campi di Kasuga wakamurasaki no delle cui giovani erbe surigoromo quest’abito è tinto! shinobu no midare Limiti non conosce kagiri shirarezu” l’intrico del mio cuore”.
“Oki mo sezu “La notte è finita ne mo sede yoru o senza poter né vegliare akashite wa né dormire. haru no mono tote Il giorno trascorso con il pensiero vagante nagamekurashitsu nelle lunghe pioggie di primavera”
“Shiratama ka “Ella mi chiese nani zo to hito no se erano perle toishi toki o cosa fossero. Tsuyu to kotaete Oh, se rispondendo ‘Sono gocce di rugiada’, kienamashi mono o” anch’io fossi svanito!”
Per giungere fino ai nostri giorni, anche se datati, appartengono alla letteratura alcuni romanzi di famosi scrittori contemporanei, come Yasunari Kawabata (10) Premio Nobel per la letteratura nel 1968. Uno dei maggiori scrittori del Giappone. Ha pubblicato il suo capolavoro, “Il paese delle nevi” (1937) e, successivamente, “Il suono della montagna” (1949), “La casa delle belle addormentate” (1961), romanzi questi, in cui si fa spesso riferimento alla musica, nell’atmosfera onirica di ‘stanzi’ in cui i suoni e i rumori sono ovattati e lontani. Mentre si deve a Banana Yoshimoto (11), la riproposizione in chiave narrativa di “L'abito di piume”, dall’originale romanzo "Hagoromo" (ricordate?), qui trasformato in un particolare tipo di kimono leggerissimo, con dei lunghi nastri indossato dalle ‘tennyo’, sorta di donne-angelo, che serviva per volare tra il mondo terreno e l'aldilà. È il quindicesimo romanzo della scrittrice giapponese pubblicato nel 2003.
Riprendiamo dunque il discorso avviato in questa ricerca muovendoci sulle note della musica, con “Alle radici del sole” che nel lontano 1983 il Centro di Ricerca per il Teatro (12) nell’ambito dei programmi di Milano Estate, in collaborazione con Japan Foundation, EEA – Extra European Arts Committee e le edizioni ERI-RAI, che produsse l’ampio catalogo della rassegna dedicato alla musica e alla danza col sottotitolo “Forme e figure della scena giapponese”. Come anche affermato da Sisto Dalla Palma in “Della scena, dei segni, dei sensi” l’articolo che squarcia il velo misterioso sull’arte del Giappone: “La quotidianità è il regno dello spirito giapponese. Su questa quotidianità vi è un contagio continuo di alta levatura artistica che spazia dalle convenzioni ai processi di elaborazione stilistica. Il quotidiano giapponese è quanto di più formalizzato ci sia nelle trame della comunicazione umana e tutto tende a inscriversi in una pratica rituale costante. Anche il teatro, dunque, come tecnica dello spirito e forma dello spirito, perché solo sulla scena questa idea così astratta raggiunge il massimo della concretezza. Da questo punto di vista la scena (non solo teatrale) giapponese è il luogo dove il senso ultimo delle cose si rivela non oltrepassandole od occultandole nella loro significazione prima, ma spingendo questa significazione agli estremi limiti delle sue possibilità.”
Ciò che vale anche per tutte le altre arti che rientrano nell’ambito del teatro, come appunto la musica, sia quella utilizzata per l’accompagnamento negli spettacoli; sia quella cosiddetta ‘classica’ utilizzata per l’intrattenimento delle corti, o per il semplice piacere dell’ascolto privato. Tant’è che la musica in giappone progredì di pari passo con il teatro, nell’uso degli strumenti tipici, come il ‘samisen’ (una sorta di balalaika) suonato con il plettro d’avorio, divenuto lo strumento tipico per l’accompagnamento delle ballate nel teatro delle marionette ‘Jôruri’, oggi detto ‘Bunraku’ (13), la cui diffusione più acclarata avvenne nei quartieri di divertimento di Yedo, e portata alla perfezione dell’arte nella rappresentazione dei drammi storici o legati all’intimità, alte circa la metà di un uomo, cui accudiscono almeno tre operatori altamente specializzati, lavorando all’unisono con abilità incredibile, da far dimenticare d’essere soltanto delle marionette. I drammi rappresentati sono spessi stati scritti appositamente per esse dai maggiori commediografi giapponesi, e spesso adottati nel ‘Kabuki’, derivato sia dal ‘Bunkaro’ che dal ‘Noh’. Di fatto il Kabuki comprende sia drammi che forme di danza popolare che balletti mimati, insistendo soprattutto sulla bellezza del colore e delle figurazioni che vengono ritmate da un piccolo complesso musicale formato da un ‘koto’un’arpa orizzontale con tredici corde, per lo più impiegata nelle cerimonie di corte, e di cui abbiamo avuto occasione di parlare; uno ‘shakuhachi’, un sottile flauo di bambù, un tempo usato dai sacerdoti vaganti e solo successivamente entrato a far parte della scena teatrale, utilizzato d’accompagnamento nelle parti idilliache e nei soliloqui amorosi.
“Kare-eda ni “Un corvo solo Kare asu no tomari keri su un ramo senza foglie aki no kure” . vigila d’autunno”. (Basho)
Sembra incredibile come nella musica tradizionale giapponese, ricolma di tante sottigliezze sonore, sia più importante il ritmo della melodia, benché all’ascolto questa superi di gran lunga l’effetto orecchiabile nel contesto dei suoni, sempre così molteplici, oppure talmente esclusivi, per dire puri, tali da condizionare l’ascolto. Fra gli altri strumenti tradizionali il ‘biwa’, una sorta di mandola a quattro corde che si suona con le dita, occupa un posto tutto suo come solista nella musica d’intrattenimento; lo ‘sho’, una sorta di zufolo pastorale, usato nelle feste e nelle scene campestri; mentre per la parte riservata al ‘ritmo’ vero e prorio esistono diversi tipi di tamburi ‘taiko’ percossi da bacchette ‘bachi’, oltre a vari tipi di gong e tubular bells. Uno spettacolo particolarmente apprezzato è offerto dai “Tamburi ‘Kodo’ dell’Isola di Sado” (*) impegnati in a-solo in diverse tournée nei teatri europei. Attestato al Kabuki è anche “Yoshitsune Senbonzakura” ovvero “I mille ciliegi di Yoshitsune” di Takeda Izumo, Miyoshi Shoraku, Namiri Senryu (14), portato in scena dalla Compagnia di Teatro Kabuki di Ichikawa Ennosuke III, al teatro Lirico di Milano in occasione della rassegna ‘Milano Aperta’ nel 1985, con il patrocinio della Japan Foundation e il CRT Centro di Ricerca per il Teatro – Milano. Dal cui ‘catalogo’ apprendiamo quanto segue:
“Una parte importante nella popolarità del Kabuki è sostenuta dai suoi attori, che hanno un largo seguito di appassionati ammiratori e sono tenuti in grande considerazione nel mondo teatrale giapponese, per la loro capacità di recitazione totale. Il Kabuki è infatti sostanzialmente un teatro d’attore, in cui le funzioni di regista, direttore artistico, capocomico e coreografo ngono svolte tutte dal primo attore, cosiddetto ‘Kabuki-haiyû’, costituiscono una speciale categoria professionale, la cui arte è tramandata di generazione in generazione secondo il tradizionale sistema di insegnamento personale diretto dal maestro ad allievo. […] La carriera di un attore inizia in genere all’età di sei anni, il giorno sei del sesto mese dell’anno. Gli elementi basilari della sua formazione sono costituiti da musica, danza e recitazione. Soltanto chi riesce a padroneggiare perfettamente tutti e tre gli elementi costiotutivi del Kabuki viene riconosciuto come attore e può arrivare ad occupare un posto centrale nel mondo dello spettacolo” (15). Ma veniamo allo spettacolo. Il dramma storico “I mille ciliegi di Yoshitsune” ripreso dall’epopea medievale, è di un genere classico di straordinaria raffinatezza, rappresentato per la prima volta nel 1747, ancora oggi una delle opere più amate e popolari del repertorio Kabuki: la ricchezza dei costumi, i movimenti di massa, gli innumerevoli colpi di scena, ne fanno una delle messinscene più spettacolari di questa elaboratissuima forma di teatro:
“Minamoto-no Yoshitsune è l’eroe giapponese per eccellenza: sulla sua vita avventurosa, sulla sua rivalità con il fratello maggiore Yoritomo, sulle sue vittorie e soprattutto sulle sue sconfitte la tradizione ha intrecciato una sconfinata serie di leggende, offrendo alla letteratura e al teatro un ricchissimo materiale narrativo. […] La leggenda ha amplificato le diversità di carattere dei due fratelli, facendone i due poli di una contrapposizione drammatica: Yoshitsune è gentile, generoso e audace quanto Yoritomo è subdolo, cauto e machiavellico. […] Allorché tra i personaggi che accompagnano il dolente eroe, costretto a fuggire dopo alcune controversie per il potere con il fratello, compare una romantica figura di donna Shizuka Gozen, presentata come la più bella donna del Giappone e la più esperta nell’arte della danza, capace di ammaliare la stessa natura oltre che gli uomini. È l’amante prediletta, la compagna fedele, tenera e appassionata di Yoshitzune che la porta con sé nella fuga, trasferendosi in incognito in Mongolia, dove inizierà una nuova vita con il nome di gengis Khan” (16). Elemento importante di questa rappresentazione è il ‘taiko’ un tamburo celeste dal suono magico; legiamno insieme un passo molto significativo ripreso dall’atto III, scena 1, di questa bella leggenda: “Nella terra di Yamato, al tempo in cui Kammu regnò, mai non cadea la pioggia. Viveva là già da mill’anni, unita una coppia di volpi. Prese e uccise, con le loro pelli si costruì un tamburo. Di faccia al sole, la Dea della pioggia fu con questo chiamata. Il suono del tamburo è suono d’onda, come la volpe, animale sfuggente, è la signora dell’oscurità. Fu quello il primo suono che s’udì, e lo strumento n’ebbe perciò nome Hatsune-no-Tsutsumi: il tamburo del suono primordiale. Questo strumento è mio padre e mia madre, io di questo tamburo sono figlio” (17).
“Mikaki mori / “Come il fuoco che accendono eji no taku hi no / i guardiani notturni della Corte Imperiale yo wa moete / la notte s’accende d’amore il mio cuore hiru wa ktetsutsu / e di giorno si spegne dal dolore mono o koso omoe.” / come si spegne il fuoco alla porta del Palazzo (Onakatomi Yoshinobu)
La musica e gli effetti sonori che accompagnano la rappresentazione: (16)
“Il suono di due tavolette di legno di quercia ‘ki o hyôshigi’ simbolo del Kabuki, avverte gli spettatori dell’inizio della rappresentazione: invito alla concentrazione e segnale di confine tra il mondo reale e il mondo del teatro. La sequenza ritmica inizia con un battito che si intensifica progressivamente fino ad un’acme segnata da due tocchi secchi, seguita da una pausa e quindi da un decrescere del suono, che, all’apertura del sipario, termina con un singolo colpo isolato. Suono che viene ripetuto in senso inverso alla fine dello spettacolo. Un suono più grave di quello dei ‘ki’ è prodotto da altre due tavolette di legno battute su una apposita tavola di legno: sono gli ‘tsuke’, elemento ritmico di fondamentale importanza”. Negli spazi intermedi subentra la musica eseguita dall’orchestra ‘geza’,il cui ruolo, è quello di rafforzare l’azione con un accompagnamento in carattere con l’atmosfera emotiva della scena; la quale inoltre, produce gli effetti sonori che nel Kabuki spstituiscono le suggestioni prodotte in altri tipi di teatro dai giochi di luce. Un tipico esempio del simbolismo sonoro del Kabuki è il suono della neve che cade: non si tratta certo della riproduzione di un suono reale, perché la neve cadendo non produce rumore, ma è piuttosto un’idea di suono, che accresce la suggestione della scena; viene ottenuta con il grande tamburo ‘o-daiko’, capace di produrre una vasta gamma di toni. Nel repertorio più realistico, non mancano gli effetti di rumori naturali: vento, pioggia, canto degli uccelli e degli insetti che vengono però riprodotti non dall’orcherstra ‘geza’, ma da appositi rumoristi che si servono di diversi strumenti e apparecchiature sonore”:
“Yoru no ame ni / “Cede la voce Koe o yazurite / alla pioggia notturna Yu-kaze o / il vento della sera Yo zo ni natatsuru / è celebre nel mondo Karasaki no matsu”. / il pino di Karasaki”. (Hiroshige)
Il volto dell’attuale Teatro Kabuki si delinea nel 1970 quando, in occasione dell’ Expo di Osaka conobbe una spettacolare esplosione di modernità sulla scena dell’Osaka Festival Theatre della prima presentazione pubblica di “The Man fron the East” (*), un’opera rivoluzionaria con la quale il giovane autore Stomu Yamash'ta, creatore insieme ad altri del Red Buddha Theatre, con il quale venivano infranti i sacri canoni del teatro Noh e della musica classica Gagaku, entrambi convogliati nell’espressiva arroganza della Rock-music, a sostegno di espressioni più comunicative dello statico spettacolo tradizionale. Con ciò, il Giappone spalancava definitivamente le porte della tradizione infrangendo la sua riservatezza, rivelando all’Occidente attonito le meraviglie della sua cultura millenaria, nel tentativo riuscito di rendere popolare la sua esperienza musicale e teatrale, così poco valorizzata in ambito internazionale, aprendosi a una nuova esperienza conoscitiva che aspettava di essere ‘vissuta ex-novo’ dalle future generazioni, allo scopo di raggiungere un equilibrio costruttivo tra il vecchio mondo dei pochi ‘cultori nazionali’ e la nascente ‘free-generation’ giapponese. Ma fu “The Man fron the East” del compositore Stomu Yamash’ta, a portare sulla scena quell’esplosione di forze, che altrimenti sarrebbero rimaste inespresse, e creavano un effetto d’insieme illusionistico: “quasi sospeso al di sopra di un’orizzonte d’acqua”. Eppure così realmente ‘vissuto’ da far saltare in aria tutti i canoni fissati dalla passata cultura, nello spriginarsi infuocato di un vulcano in piena attività, e il rumoreggiare del mare di Hokusai, l’onda magnifica che sovrasta tutto e tutti.
“Yo o komete / “Seppure tutta la notte tori no sorane wa / con il falso canto del gallo hakaru tomo / tenti di imbrogliarmi yo ni Osaka no / non te lo permetterò seki wa yurusaji”. / alla porta di Osaka”. (Sei-shonagon)
Ma è questa anche l’immagine che si evince sulla scena di Stomu Yamash’ta, figlio d’arte, suo padre è stato direttore d’orchestra della Philarmonic di Kyoto, egli stesso compositore, ideatore e virtuoso percussionista, nonché mimo e attore nello spettacolo, allorché giunse in Europa per la prima volta all’European Festiva di Avignone e successivamente in tournée a Roma e Milano che gli conferirono un successo strepitoso. Tutta l’antica bellezza ancestrale e un’arcaica maestà di silenzi e di spazi musicali innovativi fanno di “The Man from the East”, un’opera prima senza precedenti nell’ambito del ‘musical’ nostrano inglese e statunitense, proponendosi come la vera novità del momento in una spettacolare esplosione di modernità. I toni talvolta aspri e violenti, la forza sprigionata nelle danze circensi, i fantasmagorici colori dei costumi, la forza espressionistica delle maschere stupendamente orrende, la genialità del gesto ripreso dalle percussioni che Stomu agita fino all’inverosimile, gli effetti fumistici e luminosi, i fuochi accesi, si scontrano sulla scena con il rumoreggiare del mare ora calmo e disteso, ora agitato e sprezzante, che “il sole levatosi nel cielo, disegna e illumina di tanti arcobaleni”. È facile immaginare che lo spettacolo offerto dalla compagnia del Red Buddha (*) è il frutto di una stretta disciplina e di una passione incontrastata per il teatro che viene di lontano, e non solo in senso geografico del termine: “al pari di una fiamma vivificata dai colori e dalle trame di un’esperienza maturata sul campo”. Mi chiedo dove ancora ho visto, o creduto di vedere in un volto, quell’impassibile imperiosa certezza di un uomo quale Stomu Yamash’ta, ricordo, ha assunto durante tutto il tempo dello spettacolo e nel finale della sua prorompente dimostrazione alle percussioni, così racchiuso in una forza che non era fisica, ma interiore. Muovendosi col corpo come sospeso in un fluido che sfiora appena il tatami e disegna nell’aria linee avvolgenti, spirali, ellissi, plasticamente perfette.
“Hitodama de / “Anima senza corpo yuku kisanji ya / va libera natsu no hara”. / nel campo d’estate”. (Zen Hokusai Manji)
Il movimento scenico studiato in un susseguirsi di eventi è dato dagli ‘uké’ dello stesso Stomu proiettati in aria, mentre egli sembra restare immobile davanti al ‘tamburo celeste’ nel respingere ogni attacco di forza esterna (infernale), inesorabilmente. Mentre la Compagnia da dimostrazione delle proprie capacità individuali e coreutiche nella danza rituale, un misto di arti marziali e movenze da combattimento, che si svolge secondo un ritmo sacrale, prestabilito in un tempo al di là del nostre tempo. Sul finire, il silenzio invade la sala come per un possibile tangibile pericolo in cui noi spettatori ci sentiamo prigionieri nel mistico cerchio dell’incantesimo, fin quando, la magia nascosta della nostra illusione evapora nel suono di un a-solo per violino che la grazia ‘poetica’ di Hisako Yamash’ta, co-autrice, compositrice ed esecutrice di alcuni brani per orchestra contenuti nello spettacolo, lascia svanire l’incantesimo sotto i nostri occhi, nel prodigioso effetto della sua musica. Allorché l’applauso irrompe nel silenzio prolungato che scrive la parola fine.
“Koma tomete / “Fermerò il mio cavallo nao mizu kawan / e gli verserò ancora acqua yamabuky no / dove i fiori di yamabuki hana no tsuyu sou / mescolano le loro rugiade Ide no Tamagawa”. / con il fiume del gioiello Ide”. (Fujiwara no Shunzei)
Ma non è ancora tutto. Oltre allo straordinario “The Man from the East” (*) e il successivo “Raindog” (*), due vere perle della lunga discografia seguente, Stomu Yamash’ta ha firmato altre composizioni ascrivibili a campositori giapponesi e non di grande levatura internazionale, come Hans Werner Henze, Peter Maxwell Davies, e Töru Takemitsu inclusi nel disco “Percussion” (*), col quale ha dato sfogo alla sua geniale affermazione virtuosistica nell’arte delle percussioni. Seguito da “Cassiopeia” (*), un’altra composizione di Töru Takemitsu scritta per a-solo di percussioni, concepita nel tentativo di rendere popolare un certo tipo di musica più cerebrale, fuori dei confini del Giappone. Seguito da: “Floating Music” (*) con il gruppo misto non giapponese Come to the Edge; “Freedom is frightening” (*) e la colonna sonora per il film “One by One” (*) in cui si presenta come gruppo Yamash’ta’s East Wind; e i due album “Go” (*) e “Go Too” (*) dove si misura con altri musicisti famosi, come Michael Shrieve, Steve Winwood, Al Di Meola, Linda Lewis e altri. Il suo disco più raro incluso nella sua discografia è indubbiamente “The tedious way to the place of Natascha Ungeheru” (*), introvabile perché da anni fuori catalogo dalla D.G. che lo ha prodotto.
“Chofu ya sarasu / “Le stoffe per il dono sono stese kakine no asatsuyu ni / sulla rugiada mattutina delle siepi tsuranuki tomenu / nel paese del fiume dei gioielli Tamagawa no sato”. / che un filo non ha trattenuto”. (Hiroshige)
Già ideatore del Tokyo’s Experimenal Laboratory, Töru Takemitsu segna un’altra sua affermazione in “Quatrain” (*). L’album del 1980, impone ancor più l’attenzione su Toru Tkemitsu già conosciuto per la sua verve compositiva, la cui versatilità sospinge i suoi interessi nella ricerca tecnologica asservita alla strumentazione orchestrale. L’album contiene inoltre un brano riferito a Marcel Duchamp dal titolo enigmatico “A flock descends into the pentagonal garden”; e successivamente “Arc” (*) entrambi per orchestra diretta da Seiji Ozawa, il noto direttore della Boston Synphony Orchestra e della Yomiuri Nippon Symphony Ochestra, il cui nome ricorre tra i sostenitori culturali dell’odiena musica contemporanea. Risale a quegli anni che la ricerca avanzata nel campo della musica d’avanguardia applicata dalla musica giapponese, invade letteralmente il mercato discografico mondiale, con innovative e sofisticate apparecchiature elettroniche che permettono alla produzione discografica di raggiungere un più alto livello, rappresentato dalla serie denominata “Direct Cutting” (*) la cui incisione avviene in tempo reale con l’esecuzione sonora. Per quanto parlare oggi di fedele riproduzione discografica può sembrare anacronistico, poiché definitivamente superata dalla rivoluzione apportata dal raggio-laser ai nuovi supporti d’ascolto, e, prevedibilmente, degli ulteriori spazi sonori esperienziali della conoscenza.
“Matsukaze no / “Già triste è l’autunno oto dani aki wa / solo per lo stormire del vento sabishiki ni / tra i pini lo è di più koromo utsu nari / perché battono tessuti Tamagawa no sato”. / nel paese di Tamagawa”. (Minamoto no Toshiyori)
In questa raggiunta dimensione la musica giapponese scopriva in Isao Tomita, compositore e fondatore del Plasma Music Center, un nuovo esploratore della musica elettronica d’autore. Fra i suoi lavori più interessanti, gli arrangiamenti di brani appartenenti alla musica classica quali in “Debussy” (*); e in “Firebyrd” (*) ricreato sulla musica di Igor Stravinsky, contenente inoltre una rilettura di “Pictures at an Exibition di Modest Mussorgsky”. Tomita è inoltre autore di una “Preghiera Orchestrale” per il tempio Ohara Susenin di Kyoto, in cui strumenti tradizionali giapponesi mixati elettronicamente risultano di straordinario effetto emotivo: “Ho impiegato una grande gamma di congegni elettronici produttori di suono o verificatori di suono per questa composizione, e ne ho tratto incoraggiamento a credere che i miei sforzi abbiano creato una musica davvero espressiva, tale da evocare emozioni musicali di altissimo livello”; ha affermato il musicista in una documentata intervista. Nel frattempo un altro musicista, compositore e arrangiatore, neutralizzato americano, in quegli anni si affacciava sulla scena: Kitaro, famoso per la serie “Silk Road” (*) e “The Light of the spirit” (*), con il quale siamo entrati definitivamente nella più misurata epoca della New Age.
Ma già il nostro viaggio intorno all’ultima generazione giapponese incontrata sulla mia strada di ricercatore, richiede una sosta. La navicella del musicologo prosegue verso gli altri lidi della musica giapponese che funge da sottofondo nella poetica ‘cerimonia del tè’, nella silenziosa eleganza della scrittura e della grafica pittorica, nonché d’accompagnamento nel cerimoniale preparatorio delle arti marziali, e che fa da soundtrack nelle più famose pellicole di Akira Kurosawa. Ulteriori fantastiche avventure verso gli spazi siderali della musica che aspettano quindi di essere vissute, in quanto terreno inesplorato, fertile per più giovani Argonauti.
“Asu mo komu / “Tornerò anche domani Noji no Tamagawa / al fiume del gioiello sul sentiero hagi koete / camminando tra le piante di trifoglio iro naru nami mi / sulle onde iridescenti tsuki yadorikeri”. / la luna si poserà”. (Minamoto no Toshiyory)
Note: 1)I testi qui racolti in forma letteraria sono il frutto di ricerche svolte per il programma radiofonico “Folkoncerto” e in seguito per “Maschere rituali” entrambi andati in onda negli anni 70/80 sul canale RAI3 diretti da Antonio Tabasso, con la partecipazione della giornalista Landa Ketoff che ringrazio per la loro attenta e favorevole collaborazione, alla cui memoria dedico questa mia più recente riscrittura. I testi poetici che corredano questa ricerca qui di seguito riprodotti sono apparsi nel ‘Catalogo’ della Mostra allestita al Palazzo dell’Accademia di Genova - Museo d’Arte Orientale ‘E. Chiossone’, nel lontano 1974 e dedicata ai “Paesaggi” di Hokusai e Hiroshige.
2) Gian Carlo Calza, “Il fiore del demone”, Editoriale Nova 1983. 3) Ezra Pound , Ernest Fenellosa, “Alcuni Nobili Drammi del Giappone” , All’Insegna del Pesce d’Oro 1961. 4) W. B. Yeats, ‘Introduzione’ a “Alcuni Nobili Drammi del Giappone”, op.cit.. 5) Yukio Mishima, “Cinque Nō moderni”, Quaderni della Fenice, Guanda 1984. 6) Lafcadio Hearn, conosciuto come Koizumi Yakumo, “Kwaidan: storie di spettri giapponesi”, Il Saggiatore 1983. 7) Murasaki Shikibu, “Storia di Genji il principe splendente”, in ‘I Millenni’ - Giulio Einaudi Editore 1957. 8) 9) Ariwara no Narihira, “I racconti di Ise”, - Giulio Einaudi Editore 1985. 10) Yasunari Kawabata, “La casa delle belle addormentate” - Mopndadori 1961. 11) Banana Yoshimoto, “L'abito di piume”, Feltrinelli 2003. 12) Centro di Ricerca per il Teatro Milano, Catalogo Mostra “Alle radici del sole” – CRT Milano – ERI/ Edizioni RAI - Torino 1983. 13) Michael Hardwick, “Alla scoperta del Giappone”, Arnoldo Mondadori Editore 1971. 14) Takeda Izumo, Miyoshi Shoraku, Namiri Senryu, Catalogo del Teatro Kabuki per l’opera “Yoshitsune Senbonzakura” ovvero “I mille ciliegi di Yoshitsune”, CRT Milano 1985. 15) 16) Ibidem
Riferimenti discografici:
(*) Yatai Bayashi, “Best of Kodo”, I Tamburi dell’Isola di Sado, CD Culumbia 1989
(*) Opere di Stomu Yamash’ta – (selezione) “Red Buddha”, CD Spalax Music 1971 “Uzu”, The world of Stomu Yamash’ta, Nippon Columbia 1971 “Percussion”, LP L’Oiseau-Lyre, 1972 Soundtrack “The Man fron the East”, LP Island 1973 Stomu Yamash’ta - Come to the Edge, “Floating Music”, LP Island 1973 Stomu Yamash’ta’s - East Wind, “Freedom is frightening”, LP Island 1973 Stomu Yamash’ta - Gagaku Ensamble, “Cassiopeia”, LP EMI 1974 Stomu Yamash’ta’s - East Wind Soundtrack “One by One”, LP 1974 Soundtrack “Raindog”, LP Island 1975. “Go”, con Michael Shrieve, Steve Winwood, Al Di Meola, Linda Lewis e altri, LP Island 1976 “Go Too”, Michael Quatermain, Paul Buckmaster, Dennis MacCkay, Klaus Schulze, e altri, LP Arista 1977. Soundtrack “The tedious way to the place of Natascha Ungeheru”, LP D.G. (?) “Soundtrack of “tempest”, Music Stack 1982 “Sea and Sky”, CD Victor 1984
Opere di Töru Takemitsuselezione) “Quatrain”, con Seiji Ozawa - Boston Symphony Orchestra, CD D. G. 1980 “Arc”, con Seiji Ozawa – Yomiuri Nippon SymphonyOrchestra, CD Varése Sarabande Rec. 1986
Opere ‘Direct Cuting Series: “Wonderful World Of Nagauta”, EMI Japan 1980 “Fantastic Sounds Of Tsugaru-Jyamisen” , EMI Japan 1980 “Fantastic World of Japanese Music By Koto e Shakuachi”, EMI Japan 1980 “Happy Sounds of Matsuri-Bayashi, EMI Japan 1980
Opere di Isao Tomita: (selezione da opere live e studio albums). “Snowflakes Are Dancing”, trasposizione elettronica di brani del celebre compositore francese Claude Debussy, RCA 1974 “Pictures at an Exibition”, una rilettura di Modest Mussorgsky, RCA 1975 “Firebyrd”, sulla musica di Igor Stravinsky, RCA 1976 “Holst: The Planets”, RCA 1976 “Preghiera Orchestrale” per il tempio Ohara Susenin di Kyoto, (non pervenuto). “Isao Tomita Tezuka Osamu's Work Selection of Music” (compilation CD release in Japan), 2008.
Opere di Kitaro: (selezione) “Silk Road I – II - III”, CD Polidor 1980 “The Light of the Spirit”, CD Domo – New Sound 1997
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