Mena la danza chi tesse l'intrigo:
si risolve in pioggia il mio sortilegio
astratto di endecasillabi sciolti
in un paso doble privo di senso
semplice se vorrò gloriare il giorno
più che nutrire questa serpe in seno.
Carezzo la misura che mi è cara,
derido supponenze evanescenti
nell'ombra di falsate cognizioni
al vaglio d'una manica d'inetti
pregni di invidie e torve gelosie
che scalzano con biechi tentativi
le ruote circolari della luna,
le rose all'orizzonte e la collina
degrada al fondo di nature morte,
di nicchie e conventicole rapprese
giungendo, fiero ponte d'insipienti
che indossano nitori di sepolcro,
ad ignorare il lapis, la conchiglia,
quel fiore chiaro, autentico e impudente
che sfida il vento con la sua corolla.
Se fossero magie quelle botteghe
di cui si favoleggia nottetempo,
se fosse vero slancio che pervade
la torma di parole interessate
ad arraffare il poco che rimane,
nella lagnanza dei numeri primi
o nei cristalli opachi dell'usura,
allora avrebbe un senso di farfalle
ogni cesura e l'uso del potere
che svelle le sue tracce a redenzione.
Mentre si disfa lentamente il logos,
disprezzo questo scampolo di sole,
per non approssimarmi come tanti,
per mantenere l'estro destro desto
e non lasciar la testa nel canestro
di un brivido d'accatto in simil oro.
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