Postfazione a Notizie dal 72° parallelo di Alfredo Rienzi, Joker Ed. 2015
di Sandro Montalto
Nuova tappa del pacato, riflessivo eppure così popolato e vasto percorso poetico di Alfredo Rienzi, Notizie dal 72°parallelo da una parte conferma alcune fondamenta del discorso fin qui sviluppato e dall’altra introduce importanti novità.
Il vastissimo poema di Rienzi (tale è la serie di testi da lui pubblicati in vari volumi, al di là di ogni luogo comune critico) ci ha abituati a un linguaggio raffinato e vario, e a una attenzione formale tanto esplicita quanto aggraziata.
Una poesia di contenuto che non raramente recupera intenti a loro modo narrativi, o almeno evocativi: brandelli di sapienza antica, ma sempre verificata sotto le sollecitazioni dell’oggi, che assumono volentieri l’aspetto di apologhi di eterna saggezza. Ma questo sfondo di narratività non deve far pensare ad un cedimento verso i territori dell’abbassamento prosastico, della rinuncia alla complessità o del lavoro sulla lingua e sull’immagine: si tratta semmai di un recupero di modelli mediorientali e orientali (si cita addirittura Omar Kayyam), ma anche di certa poesia dell’Europa dell’Est, o all’esperienza di poeti come Borges (con Borges la poesia di Rienzi condivide diverse metafore fondamentali, disseminate lungo il suo percorso poetico: basti citare la rosa, il fiume, la notte, la spada, il viandante).
E proprio riflettendo sull’essenza di questi modelli può risultare chiaro un certo senso di “sacro” che aleggia in questa poesia: il senso di una parola “pesante”, carica di valenze, che concretizza percorsi non di rado per aspera ad astra e nel suo farsi a tratti ieratica significa il suo non voler dimenticare la difficoltà dell’esistere. Una parola che non dimentica la sua piccolezza di fronte alle immensità che vuole esplorare, ma anche consapevole della propria forza e della dignità della propria missione, con rispetto per i misteri ed insieme una radicata necessità di fare per quanto possibile ordine (ricordiamo, nel precedente volume Oltrelinee, lo splendido titolo Corone di cieli intermedi che riassume con efficace eleganza e un gusto quasi pittorico l’attenzione geometrica e la necessità di una misura anche nell’osservazione dei cieli, di ampiezza apparentemente infinita - come gli spazi apparentemente desolati della tundra al 72° parallelo che ispira il titolo di questo volume).
Il percorso è stato piuttosto evidente: basti osservare come se nel volume Simmetrie un ordine di pur poetica ed elastica geometria era una delle mete principali della ricerca, nel seguente Custodi e invasori si accentua l’accettazione del caos (forse quel “Chaos” che Rienzi cita in apertura, colui che nella mitologia classica è la divinità primigenia e che non corrisponde al “caos” come lo intendiamo noi ma rappresenta un immenso spazio aperto, una voragine infinita, un terribile abisso in cui le cose possono originarsi o perdersi) fin dalla forma e dal lessico adottati, in un procedimento di affastellamento che senza perdere la sua eleganza ora accetta più volentieri i crolli; fino a questo Notizie dal 72° parallelo in cui ogni pretesa raziocinante sembra sciogliersi nel trambusto della vita vissuta, rimanendo un punto di riferimento o un ideale, ma evitando ormai di nascondere le ammaccature generate dallo scontro con la quotidianità.
L’autore è sempre naturalmente portato a notare e cercare regolarità e contrasti con spirito geometrico (Antinomie era il titolo della prima sezione del volume Simmetrie, in un dittico di termini dalla valenza evidente); ma non colleziona simmetrie e antinomie per giustificare il suo discorso (avendo peraltro ben presente il rischio che la simmetria diventi uno specchio che replicando spersonalizza): piuttosto le accoglie e le osserva, e fa i conti con esse come con ogni altro difficile aspetto dello stare al mondo, e della perpetua mutazione. Viene anzi chiaramente detto che la geometria, la ricerca della simmetria e della regolarità, non ha probabilmente più senso perché anche se può funzionare come placebo non è un modo fedele di descrivere, e dunque comprendere e abitare, il reale. Si vedano alcuni versi da Aloysius Pagani nel cenacolo di Rue du Milieu, peraltro una delle poesie più delle di questo libro:
«i ragni un poco forse ci somigliano: hanno barattato / la forza con l’arte di tessere il destino: / simmetrico e preciso, però, il loro / mentre il nostro si torce giorno a giorno / sbanda e si veste d’ogni genere di trucco».
Spesso nello stretto giro di pochi versi convivono la più antica ricerca di un ordine geometrico e la quasi serena apertura (conquistata però a fatica) a soluzioni più evanescenti, liquide, a volte cariche di riferimenti letterari:
«l’orizzonte non si comprende se sia una linea curva / o un frattale o un muro o una siepe / di quelle giovinezze che sai bene».
D’altra parte «hai conosciuto mai qualcosa vivere / e riuscire a restare immobile?»
Tra le novità più evidenti di questa ultima raccolta è poi da citare il ricorso a personaggi, o meglio “personae”, che popolano i testi con le loro parole e presentano un autentico teatro di voci (tendenza che già si era manifestata, a dire il vero, ma con caratteri di episodicità). Personaggi ora citati con il nome completo ora con l’iniziale, alcuni reali (come il rosacrociano Kristian Rosenkreutz o il “calzolaio di Görlitz” che non compare con il suo nome ma è il filosofo Jakob Böhme, vicino al pensiero mistico e alchemico), altri inventati (come Jazim Alahany, Gregorius Mac Lynch o Alef Ersh – sarebbe molto interessante indagare i giochi etimologici che portano Rienzi a creare questi nomi) e altri ancora dei quali non si saprà mai nulla, probabilmente racchiusi in un cosmo interiore e privato. Un procedere mascherato (cartesianamente, o pirandellianamente, o forse altro) che il poeta sperimenta allo scopo di moltiplicare le visuali e cercare di fuggire i pericoli di una visione e un pensiero unici, nel tentativo di indagare una magmatica pluralità.
Il reale muta continuamente, abbiamo detto. Occorre dunque imparare a vivere, forse reimpararlo continuamente. Con l’esperienza si impara ad esempio a non imporre la propria identità in maniera chiusa all’altro («Imparo a farmi acqua / contro la lama della spada», «Conosco l’inganno e gli ingannatori / la frode e i frodatori / e mi lascio ingannare, e frodare / perché so stare al gioco e compiacere / il bagatto e la sua asta e la giocoleria del suo occhio alboreo»), a contemplare sospendendo almeno momentaneamente il giudizio («Gli alberi erano rossi: / di frutta o di sangue non importa»), a non aggrapparsi alle cose ( «l’impermanenza / ho appreso e il trucco dell’apparire e del mutare»).
Sicuramente con l’esperienza si è radicata nel poeta la convinzione che sia inscindibile «il senso del mio dire, del mio stare», come se le due cose fossero interconnesse e acquisissero senso l’una dall’altra; un dire (saper dire) le coordinate del proprio essere nel mondo (confondere i piani, perdere le proporzioni, può dare esiti catastrofici come suggerisce la poesia Linda W. R. (l’antropofaga)).
E si è confermata l’idea che un interlocutore sia necessario, che sia fondamentale una cura continua della comunicazione, da coltivare e verificare in ogni momento siccome siamo (come poeti ma primariamente come esseri umani) sotto il continuo attacco delle tentazioni del solipsismo: «ho appreso l’arte antica di guardar fisso negli occhi chi ne ha». Similmente, Alef Ersh nella poesia a lui dedicata sceglie di non usare nomi «per chi parla a colui che non ascolta», siccome è un torto sia non ascoltare sia non volersi accorgere che non siamo ascoltati.
L’Io e il Tu: un problema che molta, troppa avanguardia ha evitato pavidamente di affrontare. In Rienzi si rintraccia invece un continuo mettere in gioco un Io pur problematico, e frantumato in diversi nomi, in dialogo con una serie di Tu la cui importanza nel meccanismo della comunicazione (residua, eppur fondamentale) non viene mai trascurata dal poeta. Il titolo della precedente raccolta Custodi e invasori metteva da subito in scena un rapporto aperto e autenticamente dialettico tra figure apparentemente inconciliabili (che «hanno indossato forme non sospette»), e non è difficile rintracciare questo desiderio di ascolto in tutta la produzione rienziana (ascolto anche di sé e delle proprie sfaccettature – e torniamo al gioco delle varie personae): basti pensare, in questa silloge, alla poesia Gregorius Mac Lynch e il suo carceriere (poesia che ci rimanda alla sezione centrale di Custodi e invasori, intitolata L’evaso e incentrata sulla caccia spietata che si dà a chi non vuole uniformare il proprio pensiero, dentro e fuori da una prigione dai confini spaventosamente labili). La parola può sciogliere le mura di qualsiasi carcere e, come era scritto nel volume precedente, trasportarci in «un luogo che non sia neppure un luogo»; in questo Notizie dal 72° parallelo viene ribadito: «la sua immagine è la mia, distorta / o capovolta, il suo spazio è il mio / di qua e di là dalle sbarre». Proprio il Tu nella sua interezza, mente e corpo, sembra permettere al soggetto di comprendere ciò che vede, che prova e che dice: «Ora ho compreso – esprimeva con gli occhi / fissi sul bordo delle tue labbra – la fuga e l’attesa». Tanto si fa urgente il discorso sulla comunicazione che, rispetto alle precedenti raccolte, questa appare meno popolata di creature animali (soprattutto uccelli, fino ad oggi presente costanti nella poesia del Nostro), o comunque meno esplicitamente incentrata sulla loro figura, e meno interessata a dipingere affreschi: tutto è piuttosto orientato, in una forma complessivamente più piana del solito e meno ricca di asperità formali (fino alla splendida compostezza di una poesia come La caduta di Jelka Hržić in cui forma e contenuto si sposano con incredibile eleganza), verso l’indagine del linguaggio a volte anche colloquiale («È che siamo fragili»), nel quale i momenti più ieratici o ricercati sono semmai tracce della profondità di sguardo che l’autore sa mantenere in ogni situazione. D’altra parte «lo sai, col tempo s’abbassano i toni», e si rimane attoniti di fronte a poesie come Incipit del ciclo di Yibel in cui dopo la prima lussureggiante parte si precipita nella seconda che tutto spegne: aspirazioni, illusioni, voli pindarici. Poi, qua e là, sporadiche riflessioni sul fare poesia compaiono e si fanno ben notare per l’efficacia letteraria come per la sottesa ironia o comunque il gioco iperletterario: «Di qua scorreva lento il fiume (lo so: / la metafora è come annegata nelle sue stesse acque)»; «Osservava passare nubi / non (ripeto: non) silenziose».
Potremmo infine sottolineare come la riflessione sul tempo si faccia di libro in libro sempre più insistita e dominata da un senso di vuoto, di assenza. Non c’è cupio dissolvi in questa poesia, ma certo Rienzi osserva tanto affascinato quanto rattristato il tempo che passa e porta con sé i detriti della memoria, in massima parte dolorosamente irrecuperabili. E se il verso conclusivo del precedente e bellissimo libro di Rienzi Custodi e invasori diceva «non c’è limite a quanto può esser cancellato», il primo di questa nuova silloge torna sul concetto: «Cento volte ho perso il sentiero». Il poeta cerca di salvarne una manciata, di questa memoria, attingendo alla tradizione e alla propria esperienza come a un unico serbatoio, sapendo che, come dice un vecchio aforisma, “la tradizione è preservare il fuoco, non adorare le ceneri”.
Detto questo, occorrerà però segnalare come la poesia rienziana sia quasi paradossalmente tutto un susseguirsi di scatti, di sorprese, di brusche virate. Una poesia anche visionaria, potremmo dire, se con tale termine indichiamo la capacità di vedere quel che c’è e di solito non si nota, e non quella di confondere la realtà con il poprio mondo interiore di immagini create dal bisogno.
Questo Rienzi, un po’ custode e un po’ invasore, certo esploratore rispettoso e creativo di sempre nuovi paralleli, lo sa bene e lo traduce in una poesia preziosa.
Sandro Montalto
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