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Davinio, Il nulla ha gli occhi azzurri

Argomento: Letteratura

Saggio di Francesco Muzzioli 

Proposta di Caterina Davinio »

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Pubblicato il 14/10/2018 15:18:05

Davinio, ovvero la narrativa degli opposti

Di Francesco Muzzioli*

 

Romanzo e proiezione

Negli ultimi tempi, in una sorta di corsa al ribasso provocata dalla logica del mercato, il romanzo sta perdendo la capacità di una giusta “proiezione”. Intendo dire che esagera, per un verso o per un altro: per un verso non presenta alcuna proiezione in quanto si vuole memoria diretta del vissuto con quella minima scrittura semplificata che ognuno può avere e che, anzi, dovrebbe dimostrare la sincerità dell’esposizione autobiografica; per l’altro verso si lancia nella proiezione massima, nei generi alla moda con la costruzione di mondi interamente fantastici, dove finalmente le cose possono andare a posto per l’intervento di superpoteri e di supereroi, risanando nel modo più facile (ma decisamente illusorio) le ferite dell’esistenza. Diventa sempre più raro trovare la giusta proiezione; quella cioè che faccia i conti con le questioni reali, proiettandole però su una scena immaginaria proprio allo scopo di coglierne sperimentalmente i risvolti mediante la debita distanza straniante. È proprio questa l’ipotesi che persegue la narrativa di Caterina Davinio: scartare la pretesa narcisistica, secondo la quale la propria vicenda sarebbe emblematica per tutti, e nello stesso tempo la soluzione fantasy della second life in cui immergersi al posto della traumatizzante realtà. Ma tale scelta mediana è più complicata dei due estremi semplificatori, e lo si vedrà addentrandosi nel problematico percorso di questo testo, Il nulla ha gli occhi azzurri.

 

Lo spazio e i suoi margini

Lo spazio del romanzo non è del tutto vero, ma nemmeno tutto inventato: sono inventate le piccole località di provincia dove si svolge l’azione, ma vera è New York, e vera altrettanto è l’America, sullo sfondo. Perché l’America? Ci voleva un altrove e in esso un ulteriore altrove. L’America come luogo dei luoghi, luogo allegorico dell’avanzata della modernità e quindi anche dei suoi limiti e, come vedremo, delle sue disparità, divisioni, doppiezze. Un luogo che comprende il massimo della modernità (l’artificialità del corpo, la costruzione di identità ibride, ecc.) e il minimo di modernità, nei posti lontani dalla ressa e dai traffici, come – a un certo punto del testo – una piccola casa di montagna. Il distributore di benzina in cui lavora il personaggio principale Bernard Olein è, in fondo, un punto intermedio, una sorta di passaggio obbligato che unisce il mondo avanzato con quello in ritardo; come pure un punto intermedio è il Centro di assistenza dove Bernard presta la sua attività volontaria, qui s’incontra il mondo dei rifiuti scartati dall’andamento triturante del sistema produttivo. Tutti questi luoghi, con dall’altra parte la villa meravigliosa del produttore Skodras, disegnano percorsi non tranquilli, che i personaggi compiranno spesso nervosamente o disperatamente, in preda alle contraddizioni.

 

Il narratore esterno/interno e l’andamento a salti

In questo assetto, nemmeno il narratore trova una disposizione stabile: la terza persona slitta facilmente nella prima, con non poca sorpresa per il lettore disabituato a simili spostamenti, che forse avrà qualche problema ad identificarsi. La parola data direttamente al personaggio significa precisamente un entrare e uscire dalla sua prospettiva, non solo per dargli modo di esporre la propria ragione (per il vero, non di ragione si tratta, ma di desiderio, come si vedrà), ma anche per farci vedere quanto in profondità sia entrato il rovello che lo sta rodendo. In fondo, entrambi gli assetti narrativi sono indispensabili: la terza persona garantisce obiettività perché vede le cose dall’esterno, con uno sguardo critico; ma la prima persona garantisce una visuale “soggettiva” che altrimenti sarebbe lasciata nelle mani dell’onniscienza del narratore e che così aumenta la partecipazione all’affezione del personaggio. Dunque ci vogliono tutt’e due. Del resto, in un testo che ha come suo centro la doppiezza, era fatale che la duplicità invadesse anche l’abitacolo del narratore obbligandolo ad aprire/chiudere i propri sportelli, non più a tenuta stagna.

Quanto alla sequenza narrativa, il libro è costruito di capitoletti piuttosto brevi e con scarti tra l’uno e l’altro. Si può quindi porre sotto il segno della frammentarietà e dell’interruzione. Né poteva essere diversamente, perché il racconto della duplicità e dell’opposizione non poteva avere uno sviluppo lineare, doveva consistere in uno scontro, poi uno stallo e infine in una risoluzione; ciò ha reso l’itinerario accidentato, scombussolato e a stacchi, fino al repentino concludersi.

 

L’irruzione del desiderio e la doppiezza irriducibile

Ma andiamo al cuore del libro. L’altro personaggio principale, che sconvolge la vita “posata” di Bernard, è Dorian Ray, icona della ambiguità sessuale, ermafrodito o transgender, come lo si voglia chiamare, indecifrabile “lei-lui”, dalla bellezza irraggiungibile per i “normali”. Il tema, come si può facilmente vedere, è di scottante attualità, ma il romanzo non si limita semplicemente ad esporlo: vuole invece, in una sorte di Affinità elettive messe al passo con i tempi, provare a vedere cosa accadrebbe se il corpo artificiale modellato per l’immagine («la pelle preziosa, su cui risaltavano le iridi lucenti… le iridi magnetiche, limpide d’acqua e polvere d’oro») entrasse a contatto, senza volerlo, con la quotidianità della vita comune legata alla famiglia media-mediocre. L’impatto è forte, tanto che Dorian viene visto come un alieno, una creatura di altri pianeti – e la sua automobile sgargiante viene paragonata a un’“astronave”. Il fascino della “doppiezza irriducibile” non perdona. Naturalmente, Dorian mette in crisi l’orizzonte delle certezze e delle sicurezze piccolo-borghesi, fino alla drammatica follia finale di Bernard, ma anche lei-lui non passa indenne, perché a quel contatto risalta il vuoto del lato affettivo della vita svolta sulla superficie del mondo delle immagini: «moriva di disamore», leggiamo a un certo punto. Proprio grazie al racconto in prima persona veniamo a scoprire che anche il corpo-oggetto ha una sua interiorità e che anche nel suo versante si “soffre la contraddizione”.

 

Gli opposti si attraggono

Il testo, dunque, si basa su un antagonismo, una opposizione forte, che è anche una opposizione etica. I due personaggi, in partenza, sono esattamente divisi dalla linea del bene e del male: tanto Dorian appare amorale nell’uso del corpo a fini commerciali, quanto il benzinaio Bernard è dedito al volontariato a favore degli svantaggiati, cioè dichiaratamente dalla parte della bontà, per educazione e per convinzione. Ma la bontà si trova esposta al rischio: e non soltanto per il motivo banale di subire l’“attrazione fatale” della sensualità trasgressiva che ne porta allo scoperto il desiderio rimosso, ma anche e soprattutto per un motivo più sottile e paradossale. Infatti, la bontà è posta a un bivio in cui sbaglia dovunque vada: se allontana la tentazione per preservare la propria incontaminata purezza non può fare il bene della creatura che si è posta sulla sua strada; ma se, al contrario, cerca di portarla sulla retta via, corre l’altissimo rischio di finire travolto da una passione, per altro, impossibile. Qui la dialettica si scatena ferocemente e distruttivamente: la vocazione dell’“uomo pio” e del “benefattore” si rivela per una forma di egoismo e di mancanza di carità; mentre il sacrificio altruistico che spinge a interessarsi dell’angelo caduto potrebbe non essere altro che il travestimento della pulsione. Il rappresentante del Bene è stretto dentro questa tenaglia che finirà per stritolarlo, mentre, dall’altra parte, il rappresentante del Male viene toccato dall’invidia e dalla nostalgia per la sicurezza e “pienezza” della moralità, rispetto la suo vuoto, al suo “nulla con gli occhi azzurri”.

 

Spettacolo e lavoro, il contatto dei mondi incomunicanti

La contraddizione è anche nello scontro tra due mondi: da una parte la “società dello spettacolo”, basata sull’immagine, quindi sull’apparenza e sul dominio dell’artificiale sulla natura; all’opposto, il mondo del lavoro concreto, sporco, quello dell’erogatore della benzina. Mentre Dorian non è altro che superficie attorno al vuoto, la benzina è proprio quel propellente che, nascosto alla vista, fa andare avanti il mondo delle macchine, quel liquido che le riempie (e non a caso di dice fare il pieno…). Il romanzo mostra che questi mondi, nella nostra società, sono divenuti affatto incomunicanti. Il contatto tra l’uno e l’altro è improbabile e sostanzialmente inverosimile. Quel Bernard con l’«aria da boscaiolo» risulta una presenza “assurda” nel mondo fantasmagorico di Valentin Skodras dove le identità vengono trasformate a piacere e i corpi stessi diventano “irriconoscibili”. Che poi proprio l’«esibizionista nato» si metta, a un certo punto, a ragionare di lavoro («non vede l’ora di tornare a lavorare. Lavorare lo distrae dalle situazioni incomprensibili; lavorare lo rende forte e creativo») la dice lunga su come ormai la comunicazione si sia sovrimpressa e sostituita alla produzione concreta. Il lavoratore del nulla, colui che trae le immagini dai corpi, non può che commiserare colui che ancora lavora usando il corpo come “mezzo di produzione” e non come “prodotto”. Anche se poi la loro sorte nei confronti dell’inafferrabile Dorian è in qualche modo simile.

 

L’oscillazione e l’esplosione

Come dicevo prima, il romanzo si fonda su una dialettica che consente ribaltamenti, ma non conclusione positiva, non positiva sintesi degli opposti. Bernard e Dorian sono destinati a rimanere «disuniti per sempre», crudele parodia del for ever sentimentale di tanta narrativa consolatoria. E il contrasto tra i due poli non consente un vero svolgimento, sibbene una oscillazione e una “altalena” di fughe e riavvicinamenti, di trappole e di ripentimenti. La soluzione non può essere nessuna facile pacificazione, non può essere altro che una rottura improvvisa. L’uscita dal gioco degli opposti attraverso l’esplosione della pazzia: nella parte finale, con alcune notevoli accensioni di stile, Bernard sprofonda nel delirio. Nel delirio e nel delitto, confessando varie colpe, una più orrenda dell’altra. E però, in un romanzo che ha trasformato l’ambiguità in un personaggio, c’è da aspettarsi una conclusione ambigua. E infatti resta l’interrogativo: la bontà si è schiantata contro le sue contraddizioni e si è ribaltata nel contrario del male più estremo ed efferato? Oppure, si tratta del suo massimo inveramento: potrebbe essere che – in una sorta di folle Imitatio Christi – il protagonista scelga di farsi carico di tutti i mali, assumendosene la responsabilità diretta? La seconda ipotesi, poco accettabile dal senso comune, si affaccia però nelle pagine terminali.

 

Nuovo decadentismo o nuova tragicità? Il nuovo neneismo

Il nome dell’affascinante efebo, lo abbiamo già ricordato, è Dorian Ray: quindi con un esplicito riferimento al Dorian Gray di Wilde, esemplare tipico del decadentismo. Il personaggio di Wilde viveva nello sdoppiamento con la sua immagine dipinta, mentre il Dorian della Davinio è sdoppiato dentro di sé dal contrasto delle identità. Con le dovute differenze, un’aura decadente circola, nei dintorni del personaggio, soprattutto nella prima parte del libro. Nella seconda, però, lo stringersi delle contraddizioni e l’esito, comunque lo si voglia vedere, costituito da un crollo, indica piuttosto una ripresa del tragico. Ma né il tragico né il decadente sembrano alle somme potersi esplicare fino in fondo. Il mondo della decadenza manca di autonomia, viene costretto a mischiarsi con quello della normalità e con quello, ancora sottostante, dei reietti. La tragedia non sembra condurre alla necessaria catarsi. Né l’uno né l’altro, dunque, è l’unica dialettica possibile di questo romanzo dell’ambiguità.

Né l’uno né l’altro è, per l’appunto, il neutro. Né l’uno né l’altro è anche quella figura che Roland Barthes chiamava, in Miti d’oggi, col nome di neneismo,mettendolo sul conto delle mitologie dominanti, «nel soppesare due contrari e nel soppesarli l’uno con l’altro in modo da rifiutarli ambedue». Ma qui il neneismo ha cambiato decisamente di segno. Non è certo uno stratgemma al servizio del senso comune, è, invece, un modo per non liberarsi dei contrari, ma per spingerli al massimo di inestricabile intreccio per farceli “soffrire” fino in fondo. Questo, del resto, è il compito dell’arte: mostrarci il nodo, non fornirci un comodo, ma illusorio, scioglimento. E forse farci domandare a noi stessi per quanto dovrà ancora andare avanti questo sistema di vita contraddittorio, prima che decidiamo a darci da fare per cambiarlo.

 

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*Francesco Muzzioli (Roma, 1949) è docente di Critica letteraria all’Università “Sapienza” di Roma e tra i maggiori esperti italiani dell’avanguardia. Ha iniziato il suo lavoro negli anni Settanta, occupandosi di sperimentalismo, di scrittura alternativa e di critica delle ideologie contemporanee, promuovendo un rilancio del metodo materialistico, nel cui ambito rientrano i saggi su Derrida, su Benjamin e su Campana. Ha collaborato a importanti riviste italiane, come “Quaderni di critica”, “Alfabeta” e “Avanguardia”. È autore di numerosi studi e lavori teorici, tra i quali: Le teorie della critica letteraria (1994; in edizione aggiornata 2005), Letteratura come produzione (2010), L’analisi del testo letterario (2012), Gruppo ’63. Istruzioni per la lettura (2013), Di traverso il Novecento (2015) e molti altri.

 


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