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di Antonio Perrone
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Pubblicato il 15/07/2016 12:19:52

Distendermi. Cadere supino nel letto e rilassarmi. Stare come dopo un bicchiere di vino e un lorazepam, sereno, con la mente sgombera. Eppure no, non ci riesco. Anzi se mi distendo è peggio, il sangue sale alla testa e le pulsazioni del collo aumentano da una al secondo a due, addirittura anche tre. A volte penso di poterci morire davvero. Eppure da fuori è tutto calmo, pacato, immobile. Il mio volto non mostra dolore, non sudo, non respiro affannosamente. Questo inferno si concentra solo nella testa e nella testa rimane, non sa uscire, non trova vie di fuga. E allora penso a mio padre, a mia madre, a mia sorella, a mio zio, a mia nonna, alla mia ragazza, a suo padre, a sua madre, ai suoi fratelli e a noi, a noi prima, a noi adesso, a noi nel futuro. Penso, penso, penso. E non so come smettere. Penso al sesso, ai pompini, alla scrittura, penso che questo incipit avrei potuto scriverlo diverso, magari parlando di erba e whisky, gin, rhum… e invece parla di vino ed ansiolitici.

Il problema è che quando si scrive ci si rende conto di avere un bagaglio personale assai limitato, ma soprattutto che non si può attingere che da quello, non si può pescare nei bagagli degli altri, fare proprie le altre esperienze, ricucire le stesse parole. Tutto ciò che si scrive ci passa attraverso, dalla vita alla pelle, e dalla pelle poi al foglio. Tutto il resto è roba inutile, spazzatura, segatura con cui coprire il vomito di finte indigestioni. E non serve nemmeno avere una storia, o almeno non è tutto lì, che poi avere una storia che cosa vuol dire? Raccontare di cosa ho fatto stamattina all’università? Di cosa ho mangiato oggi a pranzo? Dell’ennesimo litigio avuto con la mia fidanzata? No, o almeno in linea di principio. Perché se non studi elfico e la tua ragazza non è Belen e non mangi e caghi diamanti a pranzo e a cena allora nessuno se ne fotte un beneamato cazzo della tua storia. Non vale niente, davvero. Ci ho provato anche io una volta, un’autobiografia, fu distrutta dalla critica in men che non si dica, e non se ne è parlato più in nessun quotidiano.

Adesso però penso che sto facendo lo stronzo, come a dire, quello duro, quello che scrive che tutto fa schifo e fa tendenza, che mette sulla carta la sua sofferenza e non sa fare altro. Questo è forse il più terribile cliché di cui ho paura, perché non sono un distruttore, non sono un nichilista, sono anzi uno di quelli che ama il mondo e la vita, che crede all’amore, e non quello finto da romanzo o da poesia (checché anche io, di poesie, ne abbia scritte a iosa), non quello da film o da cinema, ma quello che ti costa, a conti fatti, più dolore che gioia. Io sono un sognatore, ma conosco la vita. E la conosco perché alla vita non si sfugge, nessuno scampa all’esistenza se non gli eremiti, o gli inetti, o gli insulsi. Un tempo avrei detto che nessuno scampa al proprio destino, ma la realtà è che nessuno scampa al caotico e brutale ciclone del caso, cui siamo sottoposti ogni giorno. E la fregatura è che nessuno lo sa, davvero nessuno, almeno fino a quando quel ciclone non si abbatte sulla sua testa. È lì che cambia tutto, sai, e si finisce col non crederci più.


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