C’è quindi la pioggia,
l’acuto di un gabbiano
a contare i battiti.
Tu sei ancora appoggiato a quel tavolo di legno
a desiderare forti nevicate.
I miei piedi confermano il freddo,
la carne cruda d’inverno, che nutro,
mentre la sete e il bambino oltre il cielo
volano, tra mille bambini dai corpi celesti
di secoli. Sono tornata indietro, stanotte,
ore e ore, con la disciplina di un’ape,
per legare in cima alle spighe i fazzoletti
cosparsi di fiori in mezzo alla betulle
Ma tu resti appoggiato al tuo legno,
non vuoi sentire tra le mani
quelle cose ancor più deboli dell’erba,
dove si sta per nascere ringiovanendo
con gli occhi pieni d’antichità,
di selvaggia allegria.
Le mie pupille nere sono due ruscelli
che si raccontano segreti
mentre sbatto minuscole ali
con la canzone che cerca qualcuno,
il lampo di candore, nella pioggia
ti avrei scritto molto tempo fa
i nostri nomi protesi,
impossibili da distinguere,
sulle labbra;
non serve altro
a tacere tra gli alberi lucenti-
la gioia nasce prima
della gola che si apre,
pronta a bisbigliare l’ultima parola,
amore
nel buio sconosciuto
la morte è un abbaglio,
nel luogo dove si posa
sparge l’acqua
con una pioggia fitta
e due fiori di neve
nel volto di ciascuno
c’è molto che muore
restituendo vita all’origine,
là, dove il canto rimane,
il gabbiano si sposa
inclinando con la luce
e senza fine..brilla
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