A sbirciare il tepore maldestro della mia stanza
sta una lente lontana, occhio di un vecchio che si finge storie:
le tiene in grembo fino a maturazione, le spezza, le offre
- lui, aedo gentile, messia di strada - senza prezzo alcuno
alla gente incauta che con labbra sdegnose
lo scaccia - vedono solo cartacce
in quei pezzi di vite, mozziconi spenti, e farci caso
sembra roba da pazzi - gente che scivola
in direzioni opache, cani detersi ben addestrati
a traiettorie collaudate, che non spaventano più.
Ma sussurra il vecchio - ed io, via, mi fido - che sotto al pelo e alle zanne
dorme un rorido nòcciolo goffo, il ricciolo di un bambino,
che si vuole a tutti i costi
camuffare - chi lo sa poi cosa siamo disposti a sacrificare
pur di sentirci al sicuro.
Da che parte andrà mai la mia angustia - questa spina di forma bislacca,
la mia miseria - che mi ritrovo a farmi da balia, la sera,
mentre cuocio sul letto sudato d’estate,
mentre il caldo mi asciuga il tempo rimasto,
e non so più se sono io
o una storta chiazza di quel che volevo
e che non sono capace di diventare, avulsa dalla storia
che di me si racconta, protagonista sgraziata
sempre di corsa tra un rigo e l’altro
in attesa che prima o poi qualcosa accada,
ed esposta ai cambi di trama, ai colpi di vento
di questa penna d’oca che sfugge ai cercanti
come un odore sotteso, una postilla,
una chiosa che gracida dentro l’erbaggio
e non alza la testa.
Quanti sono i narratori
e dove dorme la verità:
domande mal poste che meritano niente di più
che un eco siderale, di perdersi nel vuoto
là dove sta la memoria di cosa è o non è stato
- non fa differenza.
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