Pubblicato il 27/06/2016 15:25:56
Racconto sul fiume ARNO LA SURARNITE La "surarnite" termine coniato da mio padre, per denominare la voglia di scappare surarno” era la malattia che assaliva Sara e me, subito dopo pranzo: l'adrenalina saliva come la colonnina di mercurio di un termometro, sulla pelle di un febbricitante. Il sintomo consisteva in un pizzicorino che prendeva l'intero corpo. Uscivamo di casa promettendo di recarci da Anna per i compiti, invece, scalavamo l'argine scivolando dalla parte opposta. Ai lati di un viottolo sterrato: si estendevano campi coltivati a vite. In cima folti canneti, celavano fiume e panorama. Bastava oltrepassarli per ritrovarsi davanti, uno scenario incantevole. Proprio in quel punto, iniziava il nostro fantastico mondo. “Promettimi di non andare surarno” l'ammonimento di mamma: pur scivolandoci addosso come l'olio, risuonava nell'aria simile a nota stonata in un concerto. Da tempo, la mia amica Sara ed io, avevamo progettato di recarci quotidianamente sull'argine, per fare incetta di canne e foglie secche, atte alla costruzione di un rifugio segreto. Mano a mano che ci avvicinavamo all' Arno, la voce di mamma e il senso di colpa si allontanavano, per disperdersi nel flusso acquatico. Libere, mordevamo quegli attimi di sogno, come d'estate: la succosa e rossa polpa di cocomero. Chissà per quale motivo dopo ben quarantacinque anni il ricordo di quell'episodio: serie “Surarnite story” si affaccia improvvisamente alla finestra della memoria. Forse sarà stato il profumo dell'erba appena tagliata, oppure il folto canneto incontrato nel recarmi alla biglietteria del lago, per l'acquisto dei biglietti per la Butterfly. Seduta su una panchina di fronte al lago, lascio che il ricordo fluisca in tutto il suo percorso. La prima immagine è quella di due ragazzette di undici anni, con una voglia pazza di avventura, che trascinano canne tagliate, giù in spiaggia, sopra i ciottoli di fiume.............Quando ne avemmo un discreto numero, le unimmo passando tra l'una e l'altra: una corda a mo' di tessitura. Dopo svariati tentativi sostenuti da grande determinazione, riuscimmo a mettere in verticale la parete, a cui demmo forma circolare. Sara con voce intrisa di orgoglio disse -Ecco pronto il nostro piccolo tucul-Io specificai -quasi tucul, non vedi che manca ancora il tetto?- O che ci vole, basta un po' di paglia! Te la fai sempre difficile, rispose la mia amica. Presto ci rendemmo conto, che prima di montare il tetto, sarebbe occorso un lavoro di pareggiamento della base superiore: le canne di diversa altezza formavano dei merli irregolari. Ricordo che dopo varie discussioni sul come poter ovviare al problema decidemmo di prenderci una pausa di riflessione, da consumare sull'isolotto in mezzo all'Arno. Era la prima volta che ci accingevamo a farlo da sole. Ci togliemmo le scarpe, tenendo con le mani l'orlo della gonna fin sopra i fianchi, per non inzaccherare il vestito. Ricordo ancora la scomoda sensazione, e il disappunto di non aver potuto indossare i pantaloncini. La gita all'isolotto, per molte famiglie di Cascina, rappresentava una piacevole consuetudine estiva. Si partiva carichi di vivande: immancabile la mitica zuppa di cavolo, posta nella zuppiera, a sua volta imballata nella tovaglia, che mamma trasportava con cura. Mio padre, teneva invece, la cesta di vimini: contenente il beveraggio e un cocomero, appena tolto dal pozzo. Il tum tum del cuore, al momento del guado, faceva a pugni, con l'espressione fiera e coraggiosa, da me, indossata, per celare la paura. Il pensiero che aveva scatenato quel sentimento, riguardava un tragico fatto, risalente a qualche mese prima. Sicuramente pure da Sara condiviso. Procedevo comunque imperterrita, lei, mi seguiva con cautela. -Meglio morire da temeraria che vivere da codarda- Mi dissi. Quel motto, entrò in circolo, irrorando tutto il mio corpo del coraggio di cui avevo bisogno. Avevamo quasi raggiunto la meta, quando fummo disturbate da alcune voci. Infastidite ci voltammo: Poco distante dalla nostra capanna, notammo una schiera di ragazzi che ci chiamava ad alta voce. Non era nostra intenzione raggiungerli, ma il timore che ci rovinassero la costruzione fu così forte che ci fece cambiare idea. In pochissimo tempo tornammo alla spiaggia. Mio fratello ed i suoi amici, poco più grandi di noi, ci aspettavano. Mamma ti ha cercato ovunque riferì Lorenzo rivolto a me, sai che ore sono? Non avevo con me l'orologio, ma dalla esigua luce del sole, capii dovesse essere l'ora di cena. Intanto i ragazzi si divertivano a dare calci alla nostra opera. -Lasciate stare il tucul! urlò Sara infuriata. Quella frase scatenò nei ragazzi, un'esplosione di risate. Il “tu tu- cul” non te lo tocca nessuno, tranquilla, disse Carlo, con voce demente, ed espressione beffarda che odiai ferocemente. In seguito i calci alla nostra capanna si intensificarono talmente, da distruggerla. La rabbia e la voglia di vendetta ci giunsero sotto forma di nodo che si fermò in gola, in attesa di essere sciolto. Purtroppo il peggio non era ancora arrivato. A casa ad attenderci trovammo i nostri genitori arrabbiatissimi. Ci accolse mio padre furibondo, che annunciò di avere per noi, una confezione di sciroppo di sculacciate. Secondo lui, unico farmaco efficace, soprattutto se mischiato al divieto di uscita per una settimana, a debellare la surarnite da cui eravamo irrimediabilmente affette. Non andammo “surarno” né il giorno dopo né mai Anche perché a breve, le vacanze, ci condussero al mare, in differenti luoghi. Ci lasciammo con la promessa di costruire una nuova capanna. Ma l'anno successivo con l'entrata al grado superiore di scuola, il tempo per il divertimento si ridusse. Crescendo cambiarono anche i nostri interessi. E quel desiderio scivolò sullo scalino più basso, della scala, fino a evaporare in ricordo. -Giulia sta per iniziare!- La voce dolce di Carlo mi raggiunge per comunicarmi che è giunto il momento, di prendere posto a teatro. Lo guardo e mi rendo conto di quanto lo scorrere del tempo, meriti il Guinnes dei primati di mago: per le inverosimili trasformazioni, che esso riesce ad operare. Serenella Menichetti. SURARNO per noi Pisani era come dire Sull'Arno.
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