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Rapid Eye Movement

di Cristina Pongiluppi
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Pubblicato il 05/05/2016 18:25:29

   Sbattiamo le ciglia mediamente 13000 volte nell’arco di una giornata, 15 battiti al minuto. Ogni giorno abbassiamo e solleviamo le palpebre per almeno 54000 secondi, 900 minuti al mese, 180 ore l’anno. In una vita, 500 giorni sono dedicati ad aprire e chiudere gli occhi e, ogni volta che le ciglia si abbassano, la realtà rimane sospesa per una frazione di secondo, in attesa che le pupille ritrovino la luce e rimettano a fuoco la materia circostante. Ipotizzando di vivere settant’anni, quando il nostro corpo avrà perso il suo peso, la gravità non conterà più nulla e con la nostra ombra potremo giocare a nascondino, avremo dedicato 16 mesi a questo movimento incontrollabile e necessario. A prescindere dalle nostre diversità, neri, bianchi, gialli, rossi, ebrei, mussulmani, cattolici, atei, tutti dedicheremo quasi 2 anni del nostro tempo, ad abbassare ed alzare il sipario sul nostro sguardo. Che straordinario esempio di democrazia il corpo umano!

   Malgrado il muscolo orbicolare viva delle giornate estremamente intense, quando dormiamo, il nostro sguardo perde la sua instancabile intermittenza, si arresta imprevedibilmente. Le nostre palpebre si fermano per ore e si trasformano in cancelli che, serrati alle nostre spalle, segnano il confine della dimensione di transito tra illusione e realtà. Il sonno, un amico fedele, quotidianamente ci attende, ci prende per mano sul limitare della soglia e ci conduce nella profondità dell’oblio.  Il percorso notturno è lieve, inconsapevole, misterioso e ci traghetta nella spirale dell’inconscio. Per vie sconosciute, sebbene abituali, ripercorriamo poi il sentiero a ritroso, trovando ad ogni alba la via per riemergere dall’oscurità. Ad ogni risveglio, il sonno ci lascia la mano per affidarci al caos che attende oltre la porta della realtà.

  In questo momento sono sdraiata sul mio letto, ancora vestita. Ho appena finito di cenare. Dalla finestra socchiusa il respiro del gelsomino si insinua, a ricordare che la primavera è arrivata.  Il mio sguardo, difronte al televisore acceso, è appesantito, inebetito da voci prive di contenuto. Mi abbandono alla stanchezza, lasciando affluire una pervasiva serenità, che mi conquista centimetro dopo centimetro. Chiudo gli occhi.

 

 

   I

 

   In questo momento il mio corpo è lì, sull’uscio che conduce al labirinto del sonno. Tra pochi istanti, la mente varcherà la soglia per addentrarsi nella gincana dell’irrazionalità, mentre il mio guscio si abbandonerà al riposo. Mi rilasso, sento che sto scendendo il primo gradino del mio percorso attraverso la tenebra. I miei occhi chiusi si muovono con movimenti lenti, circolari, oscillatori, non credo dall’esterno si possa percepire lo spostamento delle pupille. Le onde theta guidano le mie attività mentali. Il mio cuore, come un batterista alle prime armi, pulsa con una frequenza mista, sento il battito nelle orecchie. Ho il corpo ancora contratto, la sua tonicità è consistente, sebbene i muscoli non reagiscano già più agli agenti esterni.

   Mentre il sonno mi avvolge, come un plaid accogliente, in questo primo stadio meditativo, che precede l’abbandono, la mia coscienza è ancora vigile e reattiva.

   Il mio piede scende ancora un gradino nel percorso verso l’incoscienza. Il batterista che ho nel petto riduce ulteriormente il ritmo, il battito rallentare e gli occhi si fermano. Il corpo non è ancora certo di potersi fidare pienamente dell’ambiente circostante, tuttavia, nonostante i nervi e i muscoli allertati, sono ormai completamente addormentata, incosciente.  La pelle si sta raffreddando con l’abbassamento della temperatura corporea, respiro profondamente. La mia memoria è all’opera, edifica le cattedrali del ricordo con l’imprescindibile intervento dei complessi K. I fusi del sonno, abili anestesisti, completano invece il mio isolamento: ogni elaborazione di informazioni non necessarie è inibita. L’accesso alla mia mente, dall’esterno, è precluso da sapienti sentinelle celebrali. Faccio un terzo passo verso l’abisso.

   La mia mente in questo stato agisce sotto l’impulso di un groviglio di onde cerebrali: theta, delta, fusi, complessi k. Un esercito di segnali lenti e regolari, impartisce istruzioni al mio corpo affinché il tono muscolare si riduca, le pupille rimangano fisse ed io possa accedere al luogo più profondo del mio sonno: il quarto gradino. Il quarto livello del sonno è la vittoria delle onde delta, il rilassamento totale, il sonno senza sogni, l’amnesia della consapevolezza.

   36°, la temperatura del corpo è scesa ulteriormente. Il cuore, una medusa che si contrae e si abbandona lentamente, lentamente. Il respiro si fa ancora più profondo, sto russando, io non mi sento, ma sto certamente russando. I miei occhi tornano a muoversi con lenti spostamenti orizzontali e verticali. L’attività metabolica della mia mente è entrata in modalità “risparmio energetico”, riduce il consumo di zuccheri e ossigeno. Speriamo non mi sveglino in questo momento, sarei estremamente disorientata. Per fortuna, la sirena dell’ambulanza, che attraversa il viale, non oltrepassa la barriera del sonno ed io proseguo il mio percorso indisturbata.

   Procedo nella discesa e, quando ho finalmente raggiunto l’apice dell’abbandono totale, la mia attività celebrale fa inversione di marcia e mi riporta nuovamente nel regno delle onde theta. Il sonno è ora un compagno distratto, per leggerezza rischia di lasciar andare la mia mano, ma io lo afferro con forza e spalanco la porta che mi conduce ai lidi lambiti dall’attività mentale frenetica. Sono nel luogo del paradosso, nel regno del sogno, dove il subconscio prende il sopravvento. Improvvisamente la terra esercita tutto il suo attraente fascino gravitazionale sulle mie braccia che diventano pesanti macigni inchiodati al materasso. Una paralisi diffusa mi impedisce i movimenti, nessuna azione accompagnerà le mie visioni. Sono totalmente inerme, indifesa contro eventuali attacchi esterni, una formica in letargo, ma i miei occhi, soldati indisciplinati, rifiutano la calma. Nistagmo, questo il nome della loro danza scoordinata, il movimento rapido, spasmodico, innaturale della loro protesta. Il mio cervello è famelico, consuma zuccheri e ossigeno come una bestia vorace, chiede energia per continuare la sua attività, sebbene dall’esterno, il mio corpo sia freddo al contatto, immobile, come un motore a riposo.

 

 

II

 

  Sono al centro del labirinto del sonno, posso salire e scendere le scalinate dell’incoscienza, attraversare e poi percorrere a ritroso le fasi del torpore, raggiungere il quarto, il terzo, il secondo livello dell’incoscienza, per poi ripiombare nel regno del paradosso REM.  Ogni rampa, che mi conduce da un livello al successivo, richiede circa novanta minuti per essere attraversata, ma io non ne ho consapevolezza, il tempo ha perso il suo potere. Posso percorrere quattro o cinque volte la stessa via, in un moto circolare continuo, senza riemergere dal dedalo dell’oscurità.

   Ecco, mi sono svegliata, afferro il telecomando per cambiare canale, la gente che urla in sottofondo mi ha stufato. Mi metto a sedere, premo il tasto del volume per zittire l’orda di barbari che sta disturbando il mio sonno. Mi volto, alle mie spalle osservo il mio corpo sdraiato che continua impassibile a dormire, incurante della mia volontà di cambiare canale. Sbatto le ciglia. Sono nuovamente in posizione supina, non mi sono mai mossa, mai svegliata. Non riesco ad alzarmi. Le mani, le braccia, le gambe, sembrano appartenere a qualcun altro, non ne ho il controllo. Intorno a me vedo ombre inconsistenti camminare lungo i muri, schiacciate alle pareti, non hanno fisicità, contorni, volti. Il loro bisbiglio è un lamento straziato, inquietante, spaventoso, incomprensibile.

  Sento il suono del campanello di casa, ma che ore sono? In lontananza la voce di mia madre che chiede:  - Chi è?- Non sento la risposta.

  La porta si apre e riconosco la voce della vicina in corridoio. Le donne iniziano a parlare, le sento spostare le sedie, prendono il caffè in cucina, come ogni sera. La loro conversazione continua, parlano di spesa, amministrazione, farmaci, ma il mio interesse si affievolisce. Mia mamma fa capolino, si accorge che sto dormento, chiude la luce e accosta la porta. Quelle terribili ombre nere, scivolano dal muro al pavimento, come bitume che cola da un fusto, la minacciano, è in pericolo, senza neppure accorgersene. Devo avvisarla, ma non riesco a muovermi. Respiro a fatica, lotto con il mio corpo, ma vengo inghiottita dal sonno. Chiudo gli occhi, rientro nel labirinto.

 

 

III

 

  Tra i molti accessi, che la mia mente si trova dinanzi, non so quale percorrere. In lontananza due presenze inconsistenti si contendono lo spazio del mio inconscio, due voci che riecheggiano nelle stanze dell’oscurità. Da dove provengono? Sono dentro di me?

 - Sei il demonio, una strega dannata, destinata all’inferno! – Un tono roco e minaccioso vomita minacce dalla bocca dell’inferno. Una seconda voce calda e sconosciuta cerca di tranquillizzarmi:

- Non darle retta, non lasciarle spazio.

    Il terrore monta, come il mare in tempesta, mentre il dialogo surreale procede nelle profondità della mia anima. Una preghiera ripetuta, come un mantra, una litania monotona e imperturbabile, come una formula magica, estingue la voce demonica tra urla strazianti e terribili.

   Il mio cuore accelera, sento il sangue gelare nelle vene. Lo spettro della dannazione di un’anima che non ho neppure la certezza di avere, l’eredità di un’educazione, che non ho scelto, molesta i miei sogni ed invade le stanze in cui la luce della ragione non ha accesso. Inferno e paradiso, bene e male, giusto e sbagliato, una lotta perenne combattuta con consapevolezza alla luce del sole, nella dimensione onirica trascende il mio controllo, sfida le regole del buonsenso a favore dell’istinto e dell’assurdo. Dove mi trovo?

   Un battito di ciglia mi riporta a casa, sdraiata sul letto in camera mia. Gli oggetti intorno a me sono familiari, anche se appannati. Sempre nella stessa posizione, vivo senza sosta l’illusione di muovermi, sollevarmi e svegliarmi completamente ma, per quanto io abbia la percezione delle mie braccia in movimento, del busto che si solleva in posizione eretta, non riesco ad alzare un solo dito. Come in una moviola a ciclo continuo, ripeto gli stessi gesti sperando di sbloccare la situazione, ancora, ancora, ancora. Un colpo di palpebre, un singolo battito, perché il mio corpo si riscopra sempre, costantemente in posizione supina. Sono intrappolata in una gabbia vitale, senza possibilità di movimento.

   Nell’aria avverto la piacevole essenza di mughetto che accompagnava mia nonna nelle sue faccende domestiche. Quando aprivo i pesanti cassettoni del comò, consumati dalle tarme, la camera da letto si riempiva di quel fresco e intenso profumo che dalla biancheria si diffondeva in tutta la stanza.  Mi sembra quasi di sentire la sua voce canticchiare, una melodia conosciuta, di cui non ricordo il titolo. Mi rilasso.

 

IV

 

   Sono al buio, in mano una candela che illumina a malapena i miei piedi. Mi trovo nei sotterranei di un castello, credo. I miei abiti sono ingombranti, scomodi. La gonna ampia e lunga è pesante, ostacola il mio passo. Sono in fuga, sto scappando, da un nemico sconosciuto, ma al buio, in questo luogo estraneo, angusto e umido, ho paura.  

   Sono con la mia famiglia, una famiglia che non riconosco, non vedo, ma amo. I muri di pietra formano un tunnel continuo che percorriamo in affanno. Il corridoio apparentemente senza fine, improvvisamente si interrompe, sfociando in uno slargo illuminato da candele disposte sulla circonferenza dell’atrio. Di fronte a me una porta di legno con un pesante chiavistello in ferro. Non dobbiamo aprire, so che non dobbiamo aprire per nessun motivo, o tutto sarà perduto. Prima che io riesca a comunicare il mio pensiero al resto della famiglia, qualcuno spalanca l’uscio e siamo travolti dalla fine. Tutto si fa buio.

 

V

 

   Il suono di parole conosciute mi rimette in contatto con la realtà, è mia mamma che saluta la vicina. Devo svegliarmi, devo assolutamente svegliarmi, ma la mia mente è intrappolata in un sarcofago di piombo.

   Il cuscino su cui poso i piedi improvvisamente si abbassa, sento una ventata d’aria fredda: – Stai tranquilla tesoro, andrà tutto bene. - Mio nonno mi sussurra all’orecchio da chissà quale dimensione. La sua voce, dolce e serena come la ricordavo, giunta da molto lontano, scatena in me il panico. Devo svegliarmi, devo assolutamente svegliarmi, sono terrorizzata, non riesco a respirare, perdo nuovamente i sensi.

 

VI

 

    Sono in un viale alberato, vicina al mare, non vedo l’orizzonte, ma sento il profumo del salino nell’aria. Tutto intorno a me ha i colori luminosi e intensi della primavera. Il sole rende le foglie degli alberi di un verde corposo che contrasta piacevolmente con il turchese del cielo. Che potente sensazione di pienezza e serenità. Respiro profondamente.

   Un rombo fortissimo fa tremare l’aria, il cielo si oscura, la fusoliera di un aereo vola sulla mia testa e si abbatte al suolo. Lo scenario è improvvisamente cambiato: fumo, urla, disperazione. All’intensità delle tinte si è sostituita l’assenza di colore. Un incendio si consuma davanti ai miei occhi, tra la polvere degli edifici abbattuti dallo schianto. Sento le guance bagnate, dalle lacrime. La mia bocca si apre in un urlo muto, mentre la gola si contrae in uno spasmo isterico. Mi accascio al suolo.

   Quando sollevo lo sguardo mi trovo davanti ad uno specchio rettangolare, in un'anonima stanza d’ospedale. Sono in piedi difronte ad un lavandino, un paravento alla mia destra mi impedisce la visuale della stanza, introno allo specchio, piccolissime piastrelle bianche dalle fughe sudice ricoprono la parete. Abbasso lo sguardo, calzini bianchi arrotolati e pantofole di cuoio logore sputano da sotto la camicia da notte. I miei piedi sono appoggiati sul pavimento spaccato.  La scena è illuminata da un bagliore che attraversa la finestra sopra lo specchio. Il vetro azzurro contribuisce a diffondere nella stanza una luce gelida.

   Il mio volto riflesso è grigio, spento, sembro molto stanca. Mi avvicino all’immagine che ho davanti agli occhi e mi accorgo di avere dei solchi sulle guance. Sono ferite profonde, dai margini lacerati, si possono vedere gli strati della pelle e le fibre della muscolatura recisa. Non provo dolore, ma nausea. Dall’interno salgono in superficie larve bianche che si contraggono nel nutrirsi della mia carne.

   Con l’indice della mano destra sollevo il labbro e osservo i miei denti cadere uno dopo l’altro nel lavandino. Non scende sangue. Apro il rubinetto e con un gesto della mano consento all’acqua di trascinare via quel che resta dei miei denti. Uno ad uno vengono risucchiati dallo scarico di un lavabo sporco ed incrostato. Sono disgustata dal mio aspetto.

   Sento una porta sbattere ed il telefono squillare, la voce di mia mamma in lontananza mi rassicura, era solo un sogno ed io sono ancora nella mia stanza con la finestra spalancata, mentre fuori è calata la notte. Vorrei passarmi la mano sul viso per assicurarmi di non avere segni, ma sono troppo stanca, sento di dover riposare. Chiudo gli occhi.

 

 

VI

 

     Il rumore delle pale dell’elicottero copre ogni altro suono, ma non mi infastidisce. Sto volando sopra luoghi sconosciuti e bellissimi, un panorama fatto di paesi, campi, fiumi, laghi e persone di cui non conosco nulla. I colori sono carichi ed il velo porpora del tramonto si posa su ogni cosa, diffondendo un confortevole sentimento di speranza a e possibilità. Sono seduta con le gambe a penzoloni su di un NH90 dell’esercito italiano, in volo con il portellone laterale spalancato. Volare è inspiegabilmente potente. Il vento sul volto, la libertà e la solitudine di questo momento lo rendono eterno e tanto intenso da sembrare reale. Sollevo le gambe e mi volto. Qualcuno chiude il portellone, intorno ho il buio.

     Ad un metro da me intravedo una porta, allungo la mano e spingo la maniglia, entro in una stanza vuota, lievemente rischiarata da un quadro luminoso appeso alla parete di sinistra. Alle mie spalle un corpo sospeso a mezzaria, attira la mia attenzione. Sensori fissati a braccia e gambe rimandano ad un monitor i segni vitali di questo pallido essere umano. Mi accorgo di non essere sola, mi volto. La luce bluastra che si diffonde nella stanza mi mostra il volto affilato di un essere umano in camice bianco:

 Hai visto cosa riesce a fare con la mente? Può sollevarsi da terra. Alcuni di noi sono in grado di abbandonare il corpo e muoversi liberamente con il solo potere della mente. Se resterai con noi, imparerai anche tu. Seguimi.

  E così dicendo mi conduce in un altro luogo, anch’esso spoglio e in penombra. L’unica fonte luminosa è data dalle luci al led del lettino al centro della stanza. Un corpo nudo emerge da sotto un lenzuolo, è pallido. Nonostante le labbra cianotiche, il movimento oculare, sotto le palpebre chiuse, fa capire che non si tratta di una salma. Mi avvicino, osservo i lineamenti di questa donna, mi sono stranamente familiari. Sono io.  L’uomo al mio fianco riprende a parlare:

- Ora il tuo corpo sta dormendo, ma la tua anima non ha mai smesso di essere vigile. Se vorrai, ti insegnerò a fare a meno del corpo, a viaggiare attraverso una dimensione che consente di abbandonare la fisicità per sfruttare la sola forza del pensiero.

   Sono angosciata, so di essere nel mezzo di un sogno, eppure tutto è estremamente reale. Voglio andarmene da questo posto, mi avvicino alla porta per scappare, la apro e passo oltre, ma mi ritrovo nella stessa stanza, corro verso l’unica porta che vedo, la apro e la attraverso. Ancora una volta mi ritrovo nello stesso locale, accanto a quel cadavere vivente che mi assomiglia terribilmente. Riprovo ad aprire la porta, a fuggire di nuovo e di nuovo e di nuovo. Sono in un labirinto da cui non posso evadere.

    -Calmati, devi respirare.- Un consiglio che arriva da recessi reconditi della mia mente. Mi fermo e osservo in modo convulso e disordinato ogni centimetro del luogo in cui mi trovo, non scorgo una via d’uscita. L’unica apertura verso l’esterno è quella maledetta porta che ho già attraversato più e più volte. Il cuore accelera, il respiro si fa affannato. Mi porto le mani al volto, chiudo gli occhi e con entrambe le mani tiro indietro i capelli. Riapro gli occhi e sono altrove.

 

 

 VII

 

    Di nuovo il viale alberato. Il cielo si è riappropriato del suo blu intenso. Il profumo del mare satura l’aria. Inspiro profondamente, lascio che la primavera, attraverso le narici, giunga a rinvigorire ogni nervo della mia persona. Sono stranamente sola, non ci sono né persone né automobili.  L’atmosfera è cristallina, immobile.

   Improvvisamente, le foglie degli alberi luccicano sotto la luce del sole, sono accarezzate da una corrente inconsistente. La brezza, si fa vento prepotente e poi tempesta. Una forza invisibile scuote gli alberi, li piega, li strappa dalla terra e trascina via. Sollevo lo sguardo, un muro d’acqua si para dinanzi ai miei occhi. Un grattacielo liquido viaggia verso di me. Scappare sarebbe inutile, per andare dove?  So di non avere scampo. Mi fermo chiudo gli occhi, lascio che la brezza marina mi inumidisca il volto, i vestiti, i capelli. Eccola, la furia del mare arriva, la sento avvicinarsi, un sibilo accompagna la bestia che avanza a velocità inimmaginabile. Apro le braccia e aspetto che il muro si abbatta sul mio corpo, che l’onda mi schiacci al suolo con tutta la sua forza. Ora è su di me, la sua ombra ha oscurato il sole. Sto per morire.

 

 

VIII

 

     Riemergo dall’acqua con un gesto deciso e riprendo fiato. Inizialmente respiro a fatica, come chi è stato sul punto di affogare, poi, lentamente, i miei polmoni riacquistano un ritmo regolare mentre il mio cuore ritrova la sua armonia. Mentre muovo le gambe per stare a galla, sposto il ciuffo bagnato che mi copre la visuale, poi abbasso lo sguardo. L’acqua è talmente trasparente che posso vedere la vegetazione in profondità, coglierne l’inusuale colore verde smeraldo. Riesco addirittura a metter a fuoco i granelli di sabbia sul fondale, da cui mi separano una decina di metri. Tutto è stranamente calmo intorno a me. Non vedo pesci, so che ci sono, ma sono nascosti, intimiditi dalla mia presenza. Osservo le nuvole muoversi velocemente nel cielo terso e provo un senso di vertigine. Mi abbandono ed il mio corpo si solleva, l’acqua mi aiuta a liberarmi dei miei fardelli, sono improvvisamente leggera. Una stella precipitata che il mare riporta in superficie. Immergo le orecchie sotto il pelo dell’acqua. Non sento più nulla, come unica compagnia il cadenzare dell’aria che entra ed esce dai miei polmoni. Il sole dritto sopra il mio volto è indiscreto, mi costringe a farmi scudo con la mano, ma la sua invadenza è tale da costringermi ad abbassare le palpebre.

 

 

XIX

 

    La nostra vita notturna, abitualmente, scompare, come un ladro che rifugge le stanze della consapevolezza, senza lasciare prove del suo passaggio. Un terzo della nostra esistenza sfuma nella più totale indifferente incoscienza. Un coinquilino sconosciuto abita il nostro corpo, notte dopo notte, sonno dopo sonno, conducendo una vita parallela, nelle lande di una psiche, preclusa alla persona vigile. A noi non resta che accettare l’ospite discreto che ci accompagna.

  Accade tuttavia che, nella fase REM, la nostra mente crei dei brevi e fugaci punti di contatto tra reale e surreale. Brevi microrisvegli, ci fanno riemergere dalle profondità dell’inconscio, portandoci in una zona grigia, una noman’s land, in cui le regole della razionalità non hanno potere, sebbene la mente ritrovi stralci di consapevolezza. Questi istanti di coscienza inconscia, al risveglio, svaniranno dai nostri ricordi, come il vapore dallo specchio.

   Per quanto a noi non sia dato ricordarlo, accade, talvolta, che la nostra coscienza rimanga intrappolata in questa dimensione transitoria, sospesa, bloccata tra sogno e realtà. Il corpo non risponde, benché la mente sia ricettiva al punto da cogliere ciò che solitamente non percepiamo. La mia anima, in questo momento, si trova proprio in questo luogo, sospesa tra la notte e il giorno, incapace di portarsi in salvo.

   Sono immersa nel tepore di un mare calmo e confortevole, gli occhi chiusi ed il corpo leggero, serena, senza presente, passato o futuro. Sento un solletico sulla guancia, una mano mi accarezza il volto ed una voce mi chiama da lontano:

 Amore sveglia, è l’ora di andare a scuola. Hai dormito vestita? Benedetta giovinezza.

   Attraversiamo ogni notte il labirinto dell’inconscio, accediamo alle profondità del sonno per poi istintivamente ritrovare la via della coscienza. Un interruttore scatta e siamo di nuovo in contatto con il resto del mondo.

   Apro gli occhi. Il volto sorridente di mia mamma mi osserva dall’alto. Ho la gola secca, il sudore si è raffreddato sulla mia schiena, sono congelata. Mi sento molto stanca, nonostante mi sia appena svegliata.  

- Cosa hai sognato? Mi sembravi un po’ agitata.

- Non ho sognato nulla, ero troppo stanca, sono crollata.

 Col braccio sposto le lenzuola e sollevo il busto, abbasso le gambe e mi alzo. Anche oggi sono uscita dal labirinto, la paralisi è finita.

 


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