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Rapid Eye Movement
Sbattiamo le ciglia mediamente 13000 volte nell’arco di una giornata, 15 battiti al minuto. Ogni giorno abbassiamo e solleviamo le palpebre per almeno 54000 secondi, 900 minuti al mese, 180 ore l’anno. In una vita, 500 giorni sono dedicati ad aprire e chiudere gli occhi e, ogni volta che le ciglia si abbassano, la realtà rimane sospesa per una frazione di secondo, in attesa che le pupille ritrovino la luce e rimettano a fuoco la materia circostante. Ipotizzando di vivere settant’anni, quando il nostro corpo avrà perso il suo peso, la gravità non conterà più nulla e con la nostra ombra potremo giocare a nascondino, avremo dedicato 16 mesi a questo movimento incontrollabile e necessario. A prescindere dalle nostre diversità, neri, bianchi, gialli, rossi, ebrei, mussulmani, cattolici, atei, tutti dedicheremo quasi 2 anni del nostro tempo, ad abbassare ed alzare il sipario sul nostro sguardo. Che straordinario esempio di democrazia il corpo umano! Malgrado il muscolo orbicolare viva delle giornate estremamente intense, quando dormiamo, il nostro sguardo perde la sua instancabile intermittenza, si arresta imprevedibilmente. Le nostre palpebre si fermano per ore e si trasformano in cancelli che, serrati alle nostre spalle, segnano il confine della dimensione di transito tra illusione e realtà. Il sonno, un amico fedele, quotidianamente ci attende, ci prende per mano sul limitare della soglia e ci conduce nella profondità dell’oblio. Il percorso notturno è lieve, inconsapevole, misterioso e ci traghetta nella spirale dell’inconscio. Per vie sconosciute, sebbene abituali, ripercorriamo poi il sentiero a ritroso, trovando ad ogni alba la via per riemergere dall’oscurità. Ad ogni risveglio, il sonno ci lascia la mano per affidarci al caos che attende oltre la porta della realtà. In questo momento sono sdraiata sul mio letto, ancora vestita. Ho appena finito di cenare. Dalla finestra socchiusa il respiro del gelsomino si insinua, a ricordare che la primavera è arrivata. Il mio sguardo, difronte al televisore acceso, è appesantito, inebetito da voci prive di contenuto. Mi abbandono alla stanchezza, lasciando affluire una pervasiva serenità, che mi conquista centimetro dopo centimetro. Chiudo gli occhi. I In questo momento il mio corpo è lì, sull’uscio che conduce al labirinto del sonno. Tra pochi istanti, la mente varcherà la soglia per addentrarsi nella gincana dell’irrazionalità, mentre il mio guscio si abbandonerà al riposo. Mi rilasso, sento che sto scendendo il primo gradino del mio percorso attraverso la tenebra. I miei occhi chiusi si muovono con movimenti lenti, circolari, oscillatori, non credo dall’esterno si possa percepire lo spostamento delle pupille. Le onde theta guidano le mie attività mentali. Il mio cuore, come un batterista alle prime armi, pulsa con una frequenza mista, sento il battito nelle orecchie. Ho il corpo ancora contratto, la sua tonicità è consistente, sebbene i muscoli non reagiscano già più agli agenti esterni. Mentre il sonno mi avvolge, come un plaid accogliente, in questo primo stadio meditativo, che precede l’abbandono, la mia coscienza è ancora vigile e reattiva. Il mio piede scende ancora un gradino nel percorso verso l’incoscienza. Il batterista che ho nel petto riduce ulteriormente il ritmo, il battito rallentare e gli occhi si fermano. Il corpo non è ancora certo di potersi fidare pienamente dell’ambiente circostante, tuttavia, nonostante i nervi e i muscoli allertati, sono ormai completamente addormentata, incosciente. La pelle si sta raffreddando con l’abbassamento della temperatura corporea, respiro profondamente. La mia memoria è all’opera, edifica le cattedrali del ricordo con l’imprescindibile intervento dei complessi K. I fusi del sonno, abili anestesisti, completano invece il mio isolamento: ogni elaborazione di informazioni non necessarie è inibita. L’accesso alla mia mente, dall’esterno, è precluso da sapienti sentinelle celebrali. Faccio un terzo passo verso l’abisso. La mia mente in questo stato agisce sotto l’impulso di un groviglio di onde cerebrali: theta, delta, fusi, complessi k. Un esercito di segnali lenti e regolari, impartisce istruzioni al mio corpo affinché il tono muscolare si riduca, le pupille rimangano fisse ed io possa accedere al luogo più profondo del mio sonno: il quarto gradino. Il quarto livello del sonno è la vittoria delle onde delta, il rilassamento totale, il sonno senza sogni, l’amnesia della consapevolezza. 36°, la temperatura del corpo è scesa ulteriormente. Il cuore, una medusa che si contrae e si abbandona lentamente, lentamente. Il respiro si fa ancora più profondo, sto russando, io non mi sento, ma sto certamente russando. I miei occhi tornano a muoversi con lenti spostamenti orizzontali e verticali. L’attività metabolica della mia mente è entrata in modalità “risparmio energetico”, riduce il consumo di zuccheri e ossigeno. Speriamo non mi sveglino in questo momento, sarei estremamente disorientata. Per fortuna, la sirena dell’ambulanza, che attraversa il viale, non oltrepassa la barriera del sonno ed io proseguo il mio percorso indisturbata. Procedo nella discesa e, quando ho finalmente raggiunto l’apice dell’abbandono totale, la mia attività celebrale fa inversione di marcia e mi riporta nuovamente nel regno delle onde theta. Il sonno è ora un compagno distratto, per leggerezza rischia di lasciar andare la mia mano, ma io lo afferro con forza e spalanco la porta che mi conduce ai lidi lambiti dall’attività mentale frenetica. Sono nel luogo del paradosso, nel regno del sogno, dove il subconscio prende il sopravvento. Improvvisamente la terra esercita tutto il suo attraente fascino gravitazionale sulle mie braccia che diventano pesanti macigni inchiodati al materasso. Una paralisi diffusa mi impedisce i movimenti, nessuna azione accompagnerà le mie visioni. Sono totalmente inerme, indifesa contro eventuali attacchi esterni, una formica in letargo, ma i miei occhi, soldati indisciplinati, rifiutano la calma. Nistagmo, questo il nome della loro danza scoordinata, il movimento rapido, spasmodico, innaturale della loro protesta. Il mio cervello è famelico, consuma zuccheri e ossigeno come una bestia vorace, chiede energia per continuare la sua attività, sebbene dall’esterno, il mio corpo sia freddo al contatto, immobile, come un motore a riposo. II Sono al centro del labirinto del sonno, posso salire e scendere le scalinate dell’incoscienza, attraversare e poi percorrere a ritroso le fasi del torpore, raggiungere il quarto, il terzo, il secondo livello dell’incoscienza, per poi ripiombare nel regno del paradosso REM. Ogni rampa, che mi conduce da un livello al successivo, richiede circa novanta minuti per essere attraversata, ma io non ne ho consapevolezza, il tempo ha perso il suo potere. Posso percorrere quattro o cinque volte la stessa via, in un moto circolare continuo, senza riemergere dal dedalo dell’oscurità. Ecco, mi sono svegliata, afferro il telecomando per cambiare canale, la gente che urla in sottofondo mi ha stufato. Mi metto a sedere, premo il tasto del volume per zittire l’orda di barbari che sta disturbando il mio sonno. Mi volto, alle mie spalle osservo il mio corpo sdraiato che continua impassibile a dormire, incurante della mia volontà di cambiare canale. Sbatto le ciglia. Sono nuovamente in posizione supina, non mi sono mai mossa, mai svegliata. Non riesco ad alzarmi. Le mani, le braccia, le gambe, sembrano appartenere a qualcun altro, non ne ho il controllo. Intorno a me vedo ombre inconsistenti camminare lungo i muri, schiacciate alle pareti, non hanno fisicità, contorni, volti. Il loro bisbiglio è un lamento straziato, inquietante, spaventoso, incomprensibile. Sento il suono del campanello di casa, ma che ore sono? In lontananza la voce di mia madre che chiede: - Chi è?- Non sento la risposta. La porta si apre e riconosco la voce della vicina in corridoio. Le donne iniziano a parlare, le sento spostare le sedie, prendono il caffè in cucina, come ogni sera. La loro conversazione continua, parlano di spesa, amministrazione, farmaci, ma il mio interesse si affievolisce. Mia mamma fa capolino, si accorge che sto dormento, chiude la luce e accosta la porta. Quelle terribili ombre nere, scivolano dal muro al pavimento, come bitume che cola da un fusto, la minacciano, è in pericolo, senza neppure accorgersene. Devo avvisarla, ma non riesco a muovermi. Respiro a fatica, lotto con il mio corpo, ma vengo inghiottita dal sonno. Chiudo gli occhi, rientro nel labirinto. III Tra i molti accessi, che la mia mente si trova dinanzi, non so quale percorrere. In lontananza due presenze inconsistenti si contendono lo spazio del mio inconscio, due voci che riecheggiano nelle stanze dell’oscurità. Da dove provengono? Sono dentro di me? - Sei il demonio, una strega dannata, destinata all’inferno! – Un tono roco e minaccioso vomita minacce dalla bocca dell’inferno. Una seconda voce calda e sconosciuta cerca di tranquillizzarmi: - Non darle retta, non lasciarle spazio. Il terrore monta, come il mare in tempesta, mentre il dialogo surreale procede nelle profondità della mia anima. Una preghiera ripetuta, come un mantra, una litania monotona e imperturbabile, come una formula magica, estingue la voce demonica tra urla strazianti e terribili. Il mio cuore accelera, sento il sangue gelare nelle vene. Lo spettro della dannazione di un’anima che non ho neppure la certezza di avere, l’eredità di un’educazione, che non ho scelto, molesta i miei sogni ed invade le stanze in cui la luce della ragione non ha accesso. Inferno e paradiso, bene e male, giusto e sbagliato, una lotta perenne combattuta con consapevolezza alla luce del sole, nella dimensione onirica trascende il mio controllo, sfida le regole del buonsenso a favore dell’istinto e dell’assurdo. Dove mi trovo? Un battito di ciglia mi riporta a casa, sdraiata sul letto in camera mia. Gli oggetti intorno a me sono familiari, anche se appannati. Sempre nella stessa posizione, vivo senza sosta l’illusione di muovermi, sollevarmi e svegliarmi completamente ma, per quanto io abbia la percezione delle mie braccia in movimento, del busto che si solleva in posizione eretta, non riesco ad alzare un solo dito. Come in una moviola a ciclo continuo, ripeto gli stessi gesti sperando di sbloccare la situazione, ancora, ancora, ancora. Un colpo di palpebre, un singolo battito, perché il mio corpo si riscopra sempre, costantemente in posizione supina. Sono intrappolata in una gabbia vitale, senza possibilità di movimento. Nell’aria avverto la piacevole essenza di mughetto che accompagnava mia nonna nelle sue faccende domestiche. Quando aprivo i pesanti cassettoni del comò, consumati dalle tarme, la camera da letto si riempiva di quel fresco e intenso profumo che dalla biancheria si diffondeva in tutta la stanza. Mi sembra quasi di sentire la sua voce canticchiare, una melodia conosciuta, di cui non ricordo il titolo. Mi rilasso. IV Sono al buio, in mano una candela che illumina a malapena i miei piedi. Mi trovo nei sotterranei di un castello, credo. I miei abiti sono ingombranti, scomodi. La gonna ampia e lunga è pesante, ostacola il mio passo. Sono in fuga, sto scappando, da un nemico sconosciuto, ma al buio, in questo luogo estraneo, angusto e umido, ho paura. Sono con la mia famiglia, una famiglia che non riconosco, non vedo, ma amo. I muri di pietra formano un tunnel continuo che percorriamo in affanno. Il corridoio apparentemente senza fine, improvvisamente si interrompe, sfociando in uno slargo illuminato da candele disposte sulla circonferenza dell’atrio. Di fronte a me una porta di legno con un pesante chiavistello in ferro. Non dobbiamo aprire, so che non dobbiamo aprire per nessun motivo, o tutto sarà perduto. Prima che io riesca a comunicare il mio pensiero al resto della famiglia, qualcuno spalanca l’uscio e siamo travolti dalla fine. Tutto si fa buio. V Il suono di parole conosciute mi rimette in contatto con la realtà, è mia mamma che saluta la vicina. Devo svegliarmi, devo assolutamente svegliarmi, ma la mia mente è intrappolata in un sarcofago di piombo. Il cuscino su cui poso i piedi improvvisamente si abbassa, sento una ventata d’aria fredda: – Stai tranquilla tesoro, andrà tutto bene. - Mio nonno mi sussurra all’orecchio da chissà quale dimensione. La sua voce, dolce e serena come la ricordavo, giunta da molto lontano, scatena in me il panico. Devo svegliarmi, devo assolutamente svegliarmi, sono terrorizzata, non riesco a respirare, perdo nuovamente i sensi. VI Sono in un viale alberato, vicina al mare, non vedo l’orizzonte, ma sento il profumo del salino nell’aria. Tutto intorno a me ha i colori luminosi e intensi della primavera. Il sole rende le foglie degli alberi di un verde corposo che contrasta piacevolmente con il turchese del cielo. Che potente sensazione di pienezza e serenità. Respiro profondamente. Un rombo fortissimo fa tremare l’aria, il cielo si oscura, la fusoliera di un aereo vola sulla mia testa e si abbatte al suolo. Lo scenario è improvvisamente cambiato: fumo, urla, disperazione. All’intensità delle tinte si è sostituita l’assenza di colore. Un incendio si consuma davanti ai miei occhi, tra la polvere degli edifici abbattuti dallo schianto. Sento le guance bagnate, dalle lacrime. La mia bocca si apre in un urlo muto, mentre la gola si contrae in uno spasmo isterico. Mi accascio al suolo. Quando sollevo lo sguardo mi trovo davanti ad uno specchio rettangolare, in un'anonima stanza d’ospedale. Sono in piedi difronte ad un lavandino, un paravento alla mia destra mi impedisce la visuale della stanza, introno allo specchio, piccolissime piastrelle bianche dalle fughe sudice ricoprono la parete. Abbasso lo sguardo, calzini bianchi arrotolati e pantofole di cuoio logore sputano da sotto la camicia da notte. I miei piedi sono appoggiati sul pavimento spaccato. La scena è illuminata da un bagliore che attraversa la finestra sopra lo specchio. Il vetro azzurro contribuisce a diffondere nella stanza una luce gelida. Il mio volto riflesso è grigio, spento, sembro molto stanca. Mi avvicino all’immagine che ho davanti agli occhi e mi accorgo di avere dei solchi sulle guance. Sono ferite profonde, dai margini lacerati, si possono vedere gli strati della pelle e le fibre della muscolatura recisa. Non provo dolore, ma nausea. Dall’interno salgono in superficie larve bianche che si contraggono nel nutrirsi della mia carne. Con l’indice della mano destra sollevo il labbro e osservo i miei denti cadere uno dopo l’altro nel lavandino. Non scende sangue. Apro il rubinetto e con un gesto della mano consento all’acqua di trascinare via quel che resta dei miei denti. Uno ad uno vengono risucchiati dallo scarico di un lavabo sporco ed incrostato. Sono disgustata dal mio aspetto. Sento una porta sbattere ed il telefono squillare, la voce di mia mamma in lontananza mi rassicura, era solo un sogno ed io sono ancora nella mia stanza con la finestra spalancata, mentre fuori è calata la notte. Vorrei passarmi la mano sul viso per assicurarmi di non avere segni, ma sono troppo stanca, sento di dover riposare. Chiudo gli occhi. VI Il rumore delle pale dell’elicottero copre ogni altro suono, ma non mi infastidisce. Sto volando sopra luoghi sconosciuti e bellissimi, un panorama fatto di paesi, campi, fiumi, laghi e persone di cui non conosco nulla. I colori sono carichi ed il velo porpora del tramonto si posa su ogni cosa, diffondendo un confortevole sentimento di speranza a e possibilità. Sono seduta con le gambe a penzoloni su di un NH90 dell’esercito italiano, in volo con il portellone laterale spalancato. Volare è inspiegabilmente potente. Il vento sul volto, la libertà e la solitudine di questo momento lo rendono eterno e tanto intenso da sembrare reale. Sollevo le gambe e mi volto. Qualcuno chiude il portellone, intorno ho il buio. Ad un metro da me intravedo una porta, allungo la mano e spingo la maniglia, entro in una stanza vuota, lievemente rischiarata da un quadro luminoso appeso alla parete di sinistra. Alle mie spalle un corpo sospeso a mezzaria, attira la mia attenzione. Sensori fissati a braccia e gambe rimandano ad un monitor i segni vitali di questo pallido essere umano. Mi accorgo di non essere sola, mi volto. La luce bluastra che si diffonde nella stanza mi mostra il volto affilato di un essere umano in camice bianco: – Hai visto cosa riesce a fare con la mente? Può sollevarsi da terra. Alcuni di noi sono in grado di abbandonare il corpo e muoversi liberamente con il solo potere della mente. Se resterai con noi, imparerai anche tu. Seguimi. E così dicendo mi conduce in un altro luogo, anch’esso spoglio e in penombra. L’unica fonte luminosa è data dalle luci al led del lettino al centro della stanza. Un corpo nudo emerge da sotto un lenzuolo, è pallido. Nonostante le labbra cianotiche, il movimento oculare, sotto le palpebre chiuse, fa capire che non si tratta di una salma. Mi avvicino, osservo i lineamenti di questa donna, mi sono stranamente familiari. Sono io. L’uomo al mio fianco riprende a parlare: - Ora il tuo corpo sta dormendo, ma la tua anima non ha mai smesso di essere vigile. Se vorrai, ti insegnerò a fare a meno del corpo, a viaggiare attraverso una dimensione che consente di abbandonare la fisicità per sfruttare la sola forza del pensiero. Sono angosciata, so di essere nel mezzo di un sogno, eppure tutto è estremamente reale. Voglio andarmene da questo posto, mi avvicino alla porta per scappare, la apro e passo oltre, ma mi ritrovo nella stessa stanza, corro verso l’unica porta che vedo, la apro e la attraverso. Ancora una volta mi ritrovo nello stesso locale, accanto a quel cadavere vivente che mi assomiglia terribilmente. Riprovo ad aprire la porta, a fuggire di nuovo e di nuovo e di nuovo. Sono in un labirinto da cui non posso evadere. -Calmati, devi respirare.- Un consiglio che arriva da recessi reconditi della mia mente. Mi fermo e osservo in modo convulso e disordinato ogni centimetro del luogo in cui mi trovo, non scorgo una via d’uscita. L’unica apertura verso l’esterno è quella maledetta porta che ho già attraversato più e più volte. Il cuore accelera, il respiro si fa affannato. Mi porto le mani al volto, chiudo gli occhi e con entrambe le mani tiro indietro i capelli. Riapro gli occhi e sono altrove. VII Di nuovo il viale alberato. Il cielo si è riappropriato del suo blu intenso. Il profumo del mare satura l’aria. Inspiro profondamente, lascio che la primavera, attraverso le narici, giunga a rinvigorire ogni nervo della mia persona. Sono stranamente sola, non ci sono né persone né automobili. L’atmosfera è cristallina, immobile. Improvvisamente, le foglie degli alberi luccicano sotto la luce del sole, sono accarezzate da una corrente inconsistente. La brezza, si fa vento prepotente e poi tempesta. Una forza invisibile scuote gli alberi, li piega, li strappa dalla terra e trascina via. Sollevo lo sguardo, un muro d’acqua si para dinanzi ai miei occhi. Un grattacielo liquido viaggia verso di me. Scappare sarebbe inutile, per andare dove? So di non avere scampo. Mi fermo chiudo gli occhi, lascio che la brezza marina mi inumidisca il volto, i vestiti, i capelli. Eccola, la furia del mare arriva, la sento avvicinarsi, un sibilo accompagna la bestia che avanza a velocità inimmaginabile. Apro le braccia e aspetto che il muro si abbatta sul mio corpo, che l’onda mi schiacci al suolo con tutta la sua forza. Ora è su di me, la sua ombra ha oscurato il sole. Sto per morire. VIII Riemergo dall’acqua con un gesto deciso e riprendo fiato. Inizialmente respiro a fatica, come chi è stato sul punto di affogare, poi, lentamente, i miei polmoni riacquistano un ritmo regolare mentre il mio cuore ritrova la sua armonia. Mentre muovo le gambe per stare a galla, sposto il ciuffo bagnato che mi copre la visuale, poi abbasso lo sguardo. L’acqua è talmente trasparente che posso vedere la vegetazione in profondità, coglierne l’inusuale colore verde smeraldo. Riesco addirittura a metter a fuoco i granelli di sabbia sul fondale, da cui mi separano una decina di metri. Tutto è stranamente calmo intorno a me. Non vedo pesci, so che ci sono, ma sono nascosti, intimiditi dalla mia presenza. Osservo le nuvole muoversi velocemente nel cielo terso e provo un senso di vertigine. Mi abbandono ed il mio corpo si solleva, l’acqua mi aiuta a liberarmi dei miei fardelli, sono improvvisamente leggera. Una stella precipitata che il mare riporta in superficie. Immergo le orecchie sotto il pelo dell’acqua. Non sento più nulla, come unica compagnia il cadenzare dell’aria che entra ed esce dai miei polmoni. Il sole dritto sopra il mio volto è indiscreto, mi costringe a farmi scudo con la mano, ma la sua invadenza è tale da costringermi ad abbassare le palpebre. XIX La nostra vita notturna, abitualmente, scompare, come un ladro che rifugge le stanze della consapevolezza, senza lasciare prove del suo passaggio. Un terzo della nostra esistenza sfuma nella più totale indifferente incoscienza. Un coinquilino sconosciuto abita il nostro corpo, notte dopo notte, sonno dopo sonno, conducendo una vita parallela, nelle lande di una psiche, preclusa alla persona vigile. A noi non resta che accettare l’ospite discreto che ci accompagna. Accade tuttavia che, nella fase REM, la nostra mente crei dei brevi e fugaci punti di contatto tra reale e surreale. Brevi microrisvegli, ci fanno riemergere dalle profondità dell’inconscio, portandoci in una zona grigia, una noman’s land, in cui le regole della razionalità non hanno potere, sebbene la mente ritrovi stralci di consapevolezza. Questi istanti di coscienza inconscia, al risveglio, svaniranno dai nostri ricordi, come il vapore dallo specchio. Per quanto a noi non sia dato ricordarlo, accade, talvolta, che la nostra coscienza rimanga intrappolata in questa dimensione transitoria, sospesa, bloccata tra sogno e realtà. Il corpo non risponde, benché la mente sia ricettiva al punto da cogliere ciò che solitamente non percepiamo. La mia anima, in questo momento, si trova proprio in questo luogo, sospesa tra la notte e il giorno, incapace di portarsi in salvo. Sono immersa nel tepore di un mare calmo e confortevole, gli occhi chiusi ed il corpo leggero, serena, senza presente, passato o futuro. Sento un solletico sulla guancia, una mano mi accarezza il volto ed una voce mi chiama da lontano: – Amore sveglia, è l’ora di andare a scuola. Hai dormito vestita? Benedetta giovinezza. Attraversiamo ogni notte il labirinto dell’inconscio, accediamo alle profondità del sonno per poi istintivamente ritrovare la via della coscienza. Un interruttore scatta e siamo di nuovo in contatto con il resto del mondo. Apro gli occhi. Il volto sorridente di mia mamma mi osserva dall’alto. Ho la gola secca, il sudore si è raffreddato sulla mia schiena, sono congelata. Mi sento molto stanca, nonostante mi sia appena svegliata. - Cosa hai sognato? Mi sembravi un po’ agitata. - Non ho sognato nulla, ero troppo stanca, sono crollata. Col braccio sposto le lenzuola e sollevo il busto, abbasso le gambe e mi alzo. Anche oggi sono uscita dal labirinto, la paralisi è finita.
Id: 3215 Data: 05/05/2016 18:25:29
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Come sabbia tra le dita
I Apro gli occhi, mi guardo intorno. Nella penombra riconosco il copriletto di lana verde a righe rosse, blu e bianche. Mi trovo nella casa di campagna, sono cominciate le vacanze estive. Mi volto verso il muro, le mie scritte macchiano la parete qua e là. Date e nomi sono segnati in modo approssimativo, affinché nessuno riesca a decifrare i miei segreti, all’infuori della sottoscritta. Provo una piacevole sensazione di serenità, sono al caldo, al sicuro. La rete sopra alla mia testa sembra arrivarmi quasi al volto, riesco a toccarla. Mio fratello sta dormendo nel suo letto, al piano superiore, questo mi fa sentire tranquilla. Come faccia quella vecchia rete deformata a sopportare il suo peso è un mistero. In lontananza una fessura sotto la porta lascia filtrare la luce del giorno. Sento delle voci ovattate arrivare dalla cucina, unica stanza della casa ad essere animata a quest’ora. I miei nonni sussurrano, ma nel silenzio ogni parola giunge in maniera chiara, nitida, invadente. -Fanni cianìn, che ti i adesci. -Belin, ma son e nêuve. Mi alzo, attirata dai suoni e da quella sottile lama di luce. Appoggio i piedi a terra, le piastrelle sono gelate. Mi faccio coraggio e avanzo brancolando nella penombra, con le braccia tese in avanti, per non andare a sbattere. Metto una mano sulla maniglia, appena apro la porta della cucina, un bagliore caldo mi investe, obbligandomi a chiudere gli occhi. Solo il profumo del caffe, forte, intenso, che satura l’aria, riesce a raggiungermi, accompagnato dalla voce affettuosa del nonno: - Cirilini ti sei svegliata?- Non riesco a dire nulla, mi stropiccio gli occhi e mi siedo a tavola. Il mio posto è sempre lo stesso, credo. Mi guardo intorno. Il divano, in finta pelle marrone, è alla mia destra, posizionato nel punto più freddo della casa. Lì accovacciata, faccio i sogni più belli. La sera su quei cuscini il sonno mi avvolge, braccia sicure mi traghettano poi in un altro luogo, rendendo possibile un comodo risveglio nel mio letto. Di fronte al divano, un frigo non troppo grande. Sopra l’anta marrone, un enorme televisore dallo schermo convesso, alla base del quale due bottoni quadrati servono uno per l’accensione e uno per la selezione dei due canali disponibili. E’ quasi sempre spento, mia nonna lo usa come mensola. Solo io, tutti i pomeriggi, prima di fare i compiti, concedo una mezz’ora di considerazione a questo scatolotto scuro, guardo “Saranno Famosi”. Occorrono almeno cinque minuti prima che l’immagine compaia, ma, quando lo schermo prende vita, la mia immaginazione si accende con lui. Ballando davanti al frigo, immagino di diventare un personaggio di successo, proprio come gli attori della televisione. Tra il divano ed il televisore, il mio posto: la finestra. Passo ore seduta su quel davanzale a studiare il nulla che mi circonda. In inverno guardo la neve scendere, immaginando l’aria frizzante ed il profumo di asfalto bagnato oltre la barriera che mi separa dall’esterno. In estate il caldo estivo, l’odore della strada rovente, il cinguettio degli uccelli, l’aria immobile, scossa solo da qualche battito d’ali, mi ipnotizza. Quella finestra su quel piccolo, piccolissimo mondo è un varco verso la vita che verrà. Da giugno a settembre, mi siedo su quel davanzale, con le gambe a penzoloni. Al primo piano di un brutto edificio arancione, in tipico stile anni 70, un gigante stonato in un panorama campestre, inizia e finisce il mio mondo. O almeno così pare a me. Mi piace la sensazione del vuoto, quel senso di pericolo controllato. Mia mamma non vuole che io mi sieda sulla finestra, ma in campagna resto sola con la nonna e con la nonna vinco sempre io, o quasi. Quando il sabato sera la mamma arriva, da lassù posso vedere l’Alfa Sud dei miei entrare in paese, allora corro giù per le scale ad abbracciarla. Lei ha un profumo unico, sa di buono, sa di mamma, e poi mi porta sempre un regalino. Non riesco a spiegare quanto mi faccia sentire bene il suo abbraccio. Sono seduta a tavola in attesa della colazione e, per quanto mi sforzi, non riesco a vedere la tazza. Mi sembra gialla, con un grosso fiore dagli spessi contorni neri, ma non ne sono certa. Eppure ho fatto colazione migliaia di volte con la stessa tazza, un po’ sbeccata. Non riesco a fissare neppure i colori della tovaglia. Davanti a me la credenza. Il piano bianco contrasta con le ante. Non sono certa della disposizione dei piatti e dei bicchieri all’interno, eppure da lì prelevo tutti i giorni le stoviglie per apparecchiare la tavola, un gesto meccanico, privo di consapevolezza, evidentemente. Le posate sono nel cassetto sotto il tavolo, è rotto e si fa fatica ad aprirlo. La nonna mi porge un cucchiaino spingendo con un'anca il cassetto che si oppone alla chiusura. Mentre do un morso alla focaccina che trovo accanto alla tazza, sento il nonno brontolare. Mi giro, sul naso i soliti occhiali dalla montatura nera, spessa, squadrata. Una delle asticelle è fissata con il nastro isolante. Si lecca l’indice e cerca di prendere l’angolo della prima pagina del quotidiano che ha sulle gambe. Sento l’odore della carta stampata e osservo le dita del nonno che, nello sfogliare pagina dopo pagina, diventano nere. Ha le mani del mio papà, grandi, affusolate, curate, con grosse unghie allungate. Sono mani create per fare carezze, non per costruire, le mani di un uomo buono, dolce, intelligente. Le muove lentamente, mentre continua a lamentarsi. Le notizie sul giornale non devono piacergli molto. La nonna mi versa il latte bollente nella tazza, l’orzo rimane impigliato nella panna prima di andare a fondo e sciogliersi. I miei cugini sono fortunati, bevono latte e cacao, ma la mia mamma non vuole, dice che sono più larga che lunga e ha ragione; purtroppo a me l’orzo proprio non piace, mi impasta la bocca con quel gusto amaro. Meno male che la nonna mi compra di nascosto le focaccine. Lei ha le mani nodose, piene di rughe, le dita sono leggermente deformate, storte, però le unghie sono bellissime, lunghe rosse, lucide. Non le ho mai viste di un altro colore. La osservo dirigersi verso il lavandino, con il solito grembiule, che ora non riesco a vedere bene. Anche il lavandino, vicino alla cucina a gas, dove la nonna in estate prepara la marmellata di prugne, sfuma. Non riesco a distinguere cosa ci sia sotto il lavabo, eppure tutti i giorni sciacquo i piatti con la nonna. Non riesco a mettere a fuoco neppure i fondi e i piani nel lavello, sono sempre gli stessi, da tanti anni, eppure non li riconosco. Improvvisamente mi rendo conto di essere ancora sdraiata nel mio letto a castello, sotto il tempore del copriletto verde. In lontananza, tra il calorifero e la porta della cucina, due bastoni per andare a funghi. Mentre li osservo la mia vista si annebbia e ripiombo in un sonno profondo. II Mi sveglio nella camera della nonna, sono sempre nella casa di campagna. Sono disorientata, perché dormo in questa stanza? La faccia brucia, tengo gli occhi aperti a fatica, sento le ciglia incollate da un'eccessiva lacrimazione. Mi giro, sul comodino l’ultimo libro di Liala. Ieri sera mi sono addormentata alla luce soffusa dell’abatjour, mentre la nonna leggeva. Mi sono stretta a lei, appoggiata alla sua schiena, dopodiché ogni ricordo scompare. La nonna sta aprendo la porta, cavoli, cosa le è successo? La sua pelle è tirata, i suoi tratti deformati, gli occhi sono due fessure. -Tesoro come stai?- E scoppia a ridere- Anche tu sei tutta gonfia. Ieri abbiamo preso troppo sole sulla neve. Mi siedo sul letto. Lo specchio sull’anta dell’armadio mi restituisce un‘immagine sconosciuta. Il mio volto è tumefatto, rosso. Gli occhi sembrano quelli di un’orientale. Non ho paura, la nonna ride, vuol dire che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Tornerò come prima in pochi giorni. Ho la febbre, credo. Le palpebre sono pesanti, devo dormire. Perdo coscienza. III Vengo svegliata da una porta che si spalanca con forza e un lampo di luce ruba prepotentemente la scena all’oscurità. Sono sempre nella stessa casa ma, questa volta, mi trovo nel letto dei miei genitori. Il copriletto marrone, ha grandi fiori ricamati, è ruvido, fastidioso al contatto. Lo riconosco al tatto, gli occhi non mi aiutano, sono ancora socchiusi, il bagno di luce li ha infastiditi e non riescono a mettere a fuoco i dettagli della stanza. Mio nonno è infuriato, urla, non è da lui. Il mio fidanzato dorme nella brandina accanto al letto matrimoniale in cui sto riposando. Il rumore della porta che sbatte contro il muro lo fa sobbalzare sul letto. A giugno sarò maggiorenne ma mio nonno non lo ricorda. -Ragazzina, alla tua età non ti vergogni a dormire nella stessa stanza con un uomo?- Urla in tono stizzito, poi mi guarda e non mi riconosce. Nella sua mente sono ancora una tredicenne in vacanza con i nonni, in realtà sono trascorse stagioni, anni che lui ha semplicemente rimosso. La malattia è passata come una gomma sui suoi ricordi e li ha crudelmente cancellati, come se non fossero mai esistiti, come se non fossero mai stati vissuti, come se appartenessero a qualcun altro. Visi, voci, sensazioni, emozioni, spazzate via dal soffio del tempo, invisibile e potentissimo. Divorati da un oblio irreversibile. Non faccio in tempo a rispondere, interviene mia nonna: -Athos, no ti véddi ch’a nu dorme c’ o figeu. Stanni tranquillo. - dôve sémmu? - In campàgna. -A l’è a Cirilini - Sci - A l’è vegnûa grande. E quéllo chi o l’è? - O se galànte - Ma so poæ o sa? - Sci. - A va bén. Escono dalla stanza, chiudono la luce e la porta. Li sento continuare: -Elide, dôve sémmu, a Zena? - No. - Ma di là ghe a Cirillini? -Sci. -Ma a l’è sôla? La conversazione prosegue mentre si allontanano, ma io non li sento più. Mi sono addormentata tenendo la mano al mio fidanzato, lui ha allungato il braccio e, senza dire una parola, mi ha afferrato le dita delicatamente, ma in maniera decisa. Ha capito, non c’è stato bisogno di dire nulla, lui ha capito. Inizio a pensare che sia quello giusto. IV Apro gli occhi, questa volta mi sveglio in un altro luogo. Il paese è lo stesso, ma la casa è cambiata: intorno a me le pareti sono arancioni, la stanza è piccola, ma accogliente. Osservo la mia mano, è invecchiata, le prime rughe, la pelle secca, le unghie rotte. La mano di mia madre è simile ma, curata, smaltata d’un avorio impeccabile. Ho una mano vecchia per la mia età. In altre culture racconterebbe una storia, la mia storia. Qualcuno la sta stringendo delicatamente, mio marito. Sono avvolta nel suo abbraccio. Sento le voci delle bimbe che sussurrano nella stanza accanto. Sono sveglie, tra poco arriveranno a reclamare parte della quotidiana tenerezza di cui si nutrono. Magari insieme, o forse una alla volta, si infileranno sotto le coperte con i loro piedini gelati, gli occhi cisposi, i capelli arruffati e le braccia protese, assetate di un contatto fisico, caldo, materiale, infinito, immortale. Mentre mio marito spalanca le persiane, arrivano e si infilano sotto il piumone, una alla mia destra e una alla mia sinistra. Madonna imperfetta tra cherubini terrestri. Abbraccio entrambe, vorrei baciarle senza tregua, in una noiosa morsa di perenne dolcezza e protezione. Vorrei mangiarle da quanto le amo, farle tornare parte di me per trattenerle, proteggerle dalla vita. Vorrei registrare quelle risate acute, viscerali, spensierate, sincere, gratuite, prive di aspettative eppure fiduciose. Vorrei nascondere questa gioia in qualche tasca, renderla immune al logorio dello spazio e del tempo, per poi restituire ai miei due angeli questo entusiasmo infantile, più in là negli anni, in età adulta, nei momenti di difficoltà. Sono felice. E loro? Anche loro percepiranno il mio odore come il profumo della felicità: unico, buono, speciale, come il profumo che aveva mia madre, quando mi addormentavo tra le sue braccia? Facciamo una passeggiata per il paese. Qui quasi nulla è cambiato eppure tutto è diverso. Manca qualche sorriso amico, qualche sguardo che strizza l’occhio da dietro un bancone, come succedeva da bambina. Il tempo ha riscosso dei tributi. Arriviamo davanti al vecchio gigante arancione, un tempo era la mia dimora estiva. Osservo dall’esterno la “mia” finestra, il davanzale su cui tante volte sono stata seduta a studiare un piccolo mondo, immaginando il futuro. La casa è abitata. Il lampadario della cucina, accesso al centro della stanza, è sempre lo stesso, o almeno voglio credere sia così. Vorrei passare alle mie figlie le note intese delle esperienze vissute, il ricordo dei pomeriggi sui gradini del portone, quando ascoltando “La vita è adesso” facevo i compiti delle vacanze, con il libro appoggiato sulle gambe incrociate. Vorrei raccontare loro il profumo dei falò nel bosco la sera. Il silenzio dei pomeriggi in cui le ore trascorrevano pigre. La serenità di sentirsi amata, perfetta. La fiducia in un futuro da costruire e scoprire, la sete di libertà, la gioia, l’entusiasmo di quegli anni. Vorrei raccontare loro degli amici che abitavano quel palazzo, dei giochi a palla contro il muro, delle volte che mi sono arrampicata dal balcone per fare uno scherzo alla nonna, del mio primo bacio, della prima volta che ho pianto per un ragazzo, tra quelle pareti. Vorrei riuscire a trasmettere a queste due creature, che mi guardano con occhi grandi come il mare, la felicità delle ore passate con il loro papà, quando ancora ci stavamo conoscendo, la complicità di una vita lontana in cui una cugina era una sorella e gli amici una grande famiglia. Vorrei riuscire a descrivere molte sensazioni, ma un’incomprensibile timidezza emerge a dominare la mia capacità espressiva. Un nodo mi serra la gola, le riflessioni sono tali e tante da privarmi della parola, rendendomi muta. Dopo un profondo respiro, a fatica, come un bimbo che articola i primi suoni, l’emozione mi consente di dire unicamente: - Vedete, lì, al primo piano, quella finestra? Quella una volta era casa mia. - Lo sappiamo mamma, ce lo dici ogni volta che passiamo di qua. – Risponde la grande. Allora mi spunta un sorriso e penso: “ No tesoro, non lo sapete, non lo sapete, ed io non riuscirò a spiegarvelo. È’ un segreto tra me e la vita che nessuno potrà conoscere. Domani tu avrai il tuo e, per quanto tu possa desiderarlo, non riuscirai a condividere con nessuno la dolce malinconia del tuo tempo che scorre tra intrecci di esistenze, l’amara dolcezza di una storia che si scrive alle tue spalle, ad ogni tuo passo, senza che tu te ne renda conto, la nitida tenerezza di ricordi che scivolano come sabbia tra le dita.” Le do un bacio sulla fronte e continuo a camminare, lasciandomi la finestra alle spalle.
Id: 3169 Data: 16/03/2016 22:53:18
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C’era una volta un bambino
C’era una volta un bambino, paffuto e un po’ goffo. Gli ingombranti riccioli neri, disordinati, cercavano di offuscare, senza successo, gli enormi occhi scuri. Le sue mani cicciotte erano impacciate, la sua camminata scoordinata, forse perché aveva sempre lo sguardo rivolto al cielo. Gli piaceva il cielo, gli piaceva l’idea che fosse senza fine, poteva essere riempito con qualsiasi cosa l’ immaginazione fosse in grado di inventare: alieni, astronavi, pianeti sconosciuti, angeli. Quel blu intenso poteva contenere tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile, un foglio bianco su cui dipingere in libertà. Nelle notti estive, quando il papà lo portava a pescare, era bellissimo osservare, dalla spiaggia, quell’azzurro diventare oscurità. Una mano invisibile, con l’ausilio di un pastello multicolore, trasformava abilmente il ceruleo in porpora, violetto, ed infine in profondo blu. Una coperta segnata da migliaia di spilli luminosi lentamente copriva ogni cosa. La via lattea, gliel’aveva mostrata papà, era fantastica, una specie di autostrada cosmica, percorsa dagli abitanti spaziali per muoversi tra la luna ed il sole. Insomma il cielo era proprio bello. In inverno, quando la pioggia rigava i vetri e la visuale era ridotta, passava ore ad osservare tutto quel grigio. Uno spesso strato di fumo scendeva a coprire l’azzurro estivo, per consentire la manutenzione delle stelle e dei pianeti. Per essere così splendenti i corpi celesti avevano periodicamente bisogno di una doccia, ma per celare le operazioni di pulizia ad occhi indiscreti, gli astri coprivano la visuale con una fitta coltre di nubi. Le acque di scarico di quella doccia celeste cadevano poi sulla terra, per dar vita a nuove piante, a nuovi alberi. Gli altri bambini non erano interessati all’argomento: a Mattia piacevano le macchine; a Giovanni le pistole; a Edo le costruzioni. Il cielo era solo suo. Il piccolo Tommy era timido, non riusciva a fare amicizia con facilità. In mezzo agli altri bimbi si sentiva a disagio, iniziava a sudare, le guance prendevano fuoco, cominciava a balbettare. Tutti allora lo prendevano in giro, aumentando la sua agitazione, la sua insicurezza, la sua goffaggine. Quando era da solo in spiaggia con il suo papà, invece, si sentiva felice. Una sera estiva, una di quelle sere in cui il tramonto porta sollievo dopo una giornata soffocante e umida, il bambino ed il padre arrivarono sulla spiaggia, al crepuscolo, affaticati dall’afa. In riva al mare, furono accolti da una piacevole brezza salmastra. Il papà sistemò due seggioline sul bagnasciuga, appoggiò il secchio con le canne sulla sabbia, dopodiché si tolse la maglietta, infilò i braccioli al figlio ed inizio a correre verso l’acqua. - Vediamo chi arriva primo! - Aspettami papà, aspettami, arrivo. I due si gettarono in acqua insieme. Tommy sbatteva forte i piedi per riuscire a rendere orgoglioso il suo papà, ma continuava a nuotare in circolo, mentre l’uomo lo incitava: - Bravo ragazzo, continua così! Diventerai un pesce. Era bello fare il bagno con quel gigante che lo prendeva sulle spalle e lo faceva volare in alto, fin quasi a toccare il cielo. Dopo la nuotata, l’uomo avvolse il ragazzino in un telo da mare di dimensioni spropositate per quel corpicino, con un abbraccio energico lo asciugò e fregò per bene i capelli. Si assicurò che il bimbo si cambiasse il costume e si accoccolarono entrambi sulle sedute, con i piedi a sfiorare il pelo dell’acqua. Mentre il piccolo Tommaso gustava il suo tramezzino, tonno e maionese, il padre preparò le canne da pesca. Aprì lo straccio in cui la moglie aveva avvolto il pastone, fece delle piccole palline e le incastrò negli ami una alla volta. Liberò il mulinello della prima canna e fece un lungo lancio, dopodiché la passò al figlio, che aveva terminato il panino. Il piccolo la appoggiò a terra e, tenendola tra le gambe, la bloccò con le ginocchia. Dopo aver effettuato un secondo lancio, l’uomo si mise a sedere accanto al ragazzino. - Grazie papà. Disse Tommy fissando l’orizzonte. - Di che cosa, campione? - Di avermi messo al mondo. Fu una di quelle risposte che non ci si aspetta, una di quelle affermazioni sincere, ingenue, che solo un bambino di cinque anni può fare. Il padre si voltò verso il piccolo e per un attimo non riuscì a dire nulla. Quando fu nuovamente in grado di parlare, disse: - Grazie a te, tesoro mio. - Papà tu sei felice? - Perché me lo chiedi? - I tuoi occhi…- Il bambino si fece coraggio e continuò - sembrano tristi, sembri sempre serio, arrabbiato. L’uomo guardò il mare davanti a sé, il rumore delle onde non era invadente come nelle ore calde, sembrava attutito dall’oscurità. La spiaggia deserta creava l’illusione di essere lì solo per loro due. L’aria profumava di mirto, di sale, di serenità. Si voltò verso il figlio: - Sai, a volte, da adulti, le cose sono difficili. Il piccolo respirò profondamente: - Ma papà, ma guarda che bel cielo! Guarda che bei colori, com’è rosso. Non puoi non essere felice. - Vediamo se riesco a spiegarmi. Tu mi dici che il cielo è rosso intenso, bellissimo. Io so che il cielo è rosso e che tutti lo vedono rosso. Ma io, il cielo lo vedo grigio. - Ma com’è possibile? Prima di rispondere pesò bene le parole. Stava entrando in un campo delicato e complesso da spiegare ad un ragazzino di quell’età. - So che per te è difficile da capire, ma a volte, da grandi, i problemi che si affrontano, ci rendono un po’ ciechi. Allora, può capitare, che i colori perdano consistenza ed i profumi non siano più così intensi, come li senti tu ora, alla tua età. Il bimbo aggrottò la fronte, inarcò le sopracciglia, si morse il labbro e poi concluse: - Allora non voglio crescere! - Ah ah ah! Sarebbe bello poter scegliere. Un mondo di bambini… sicuramente sarebbe migliore. - Papà, papà, c’è un pesce, c’è un pesce! Il papà afferrò la canna, effettivamente qualcosa picchiettava la lenza. Iniziò a riavvolgere il mulinello e, mentre raccoglieva, dava dei piccoli strattoni per assicurare l’ipotetico pesce all’amo. Tirarono fuori dall’acqua un’occhiata, non troppo grande. Il piccolo continuava ad urlare: - Papà l’abbiamo preso, lo abbiamo preso. Un pesce! Il papà rideva. L’entusiasmo del figlio era contagioso. Afferrò il pesce con la mano sinistra, fissò la canna sotto l’ascella e mentre lo slamava disse al figlio: - Vai a riempire il secchio. Il bimbo, emozionato, prese il contenitore, inciampò e cadde sulla sabbia. Si alzò subito ed entrò in acqua per riempirlo. Il padre lo osservava intenerito da tanto entusiasmo. Tornò tutto sudato, visibilmente accaldato. - Ecco papà, dove lo metto? L’uomo gli fece segno e lui posò quel pesante tesoro sulla sabbia, dove aveva indicato il padre. L’adulto affondò nell’acqua la mano robusta che stringeva il pesce. Aprì la morsa e l’occhiata riprese a nuotare, nel secchio. Il piccolo fissò a lungo i movimenti dell’animale. Sentiva una strana sensazione, una felicità amara. Era contento di aver catturato quel pesce, ma, allo stesso tempo, si sentiva in colpa. Quell’occhiata, che girava in tondo, con movimenti rapidi, sembrava alla ricerca di una via d’uscita. Doveva essere terribilmente spaventata. Trovarsi lì dentro e girare a vuoto, sentirsi in trappola. Rimase a lungo seduto con le braccia intorno alle ginocchia ed il mento appoggiato sugli avanbracci. Lo sguardo perso in quel secchio. La voce del papà lo riportò alla realtà. - Vieni Tommy, aiutami. Devi riprendere la tua canna. Il bambino si andò a sedere al suo posto e chiese a bruciapelo: - Ma papà io non ti rendo felice? - Certo campione. Tu sei il motivo per cui mi alzo tutte le mattine. - A me vivere piace proprio. Giocare con i miei amici, correre. Correre mi piace un sacco. Mi piace quando giochiamo a “ce l’hai”. A te piace correre? Avrebbe voluto rispondere: “Faccio fatica, faccio fatica a fare tutto. Mi sento cementato a terra da un peso che alla tua età non avevo coscienza di possedere. Immagino si sentano così gli obesi. Dal di fuori si percepisce la mole, mentre la persona, all’interno, scompare alla vista; sebbene esista, con tutta la sua fragilità. Per quanto la personalità si sforzi di emergere non riesce, l’esteriorità prevale sull’interiorità, prende il sopravvento e non lascia spazio ad altro. Io sento quel peso paralizzante, insormontabile, come parte di me, mi separa dal resto del mondo, non mi rende accessibile, se non in rari, rarissimi casi. Le ore passate con te rappresentano parte di quegli sporadici e preziosi momenti. Per quanto io provi a scrollarmi la pesantezza di dosso, quel fardello non mi abbandona, mi distingue da tutti gli altri. Non ne conosco l’origine, ma con gli anni diventa sempre più ingombrante, rendendomi insopportabilmente diverso. A me pare tutto terribilmente complicato. È difficile stare in mezzo alla gente, svegliarsi la mattina e dormire la notte. L’amicizia è la cosa più faticosa che io conosca, esistono convenzioni, codici che non conosco, per cui vengo quasi sempre mal interpretato, sistematicamente commetto errori macroscopici agli occhi degli altri, che neppure mi rendo conto di compiere. In gruppo vengo generalmente percepito come elitario, anticonformista o snob, in pochi si accorgono del mio terrore. Vorrei essere più semplice, capace di rapportarmi con naturalezza alle persone ed alle situazioni, invece sono pesante, aggressivo, associale. Di fatto le cose belle che fanno parte della mia vita le rovino, le allontano. Ho il terrore di guastare anche te, figlio mio, con la mia stranezza, l’euforia eccessiva, la malinconia. Confido nella tua gioia di vivere e nella mia fermezza a non arrendermi, ma solo il tempo dimostrerà se entusiasmo e determinazione saranno sufficienti a salvarti dai miei limiti.” Invece disse: - Si mi piace correre, mi piace tanto. - Dovresti giocare di più. A me giocare mette di buon’umore. Sorridendo rispose: - Probabilmente hai ragione. Si ricordò di quando, giovanissimo, correva scalzo sui prati, rincorrendo i fratelli. Tempi che lui ricordava felici. Da adulto comprendeva che quel dopoguerra, per i suoi genitori, non doveva essere stato facile, eppure ricordava quegli anni come i più sereni della sua vita. Anche lui, come il figlio, osservava l’azzurro intenso del cielo, per ore. Ripensando a quei giorni, il profumo dei mandorli in fiore lo investiva con straordinario realismo, attraversando il tempo e lo spazio, giungeva fino a quella spiaggia, al tramonto. Ad un certo punto qualcosa in lui si era incrinato, un cortocircuito inaspettato. I colori avevano perso intensità, i profumi vigore, le persone attrattiva. Si era chiuso in un mondo rassicurante e terribile, allo stesso tempo. La voce del figlio interruppe il flusso dei pensieri. - Comunque, per me, sei il migliore papà del mondo. Quell’ometto paffuto, spettinato, disordinato, impacciato, che lo guardava dal basso verso l’alto, riusciva ad arrivare dritto al suo cuore. Si inginocchiò, guardò il bimbo teneramente negli occhi e lo abbracciò forte. - Piano papà. Così mi fai male. - Scusami campione. Per quei due occhi neri, solo per quei due occhi neri, che lo guardavano con infinita ammirazione, lottava e avrebbe lottato, un passo alla volta, un giorno alla volta. E, con un po’ di fortuna, forse, non avrebbe inferto troppe cicatrici all’equilibrio di quel piccolo che, un domani, sarebbe probabilmente diventato un uomo felice. C’era una volta un bambino e c’è oggi un uomo. Il suo nome è Ing. Tommaso C. E’ cresciuto all’ombra di un bipolarismo ingombrante che ha reso la sua vita straordinaria. Ha vissuto l’abisso, la tenebra, l’oscurità che avvolge la mente umana, isolandola dagli affetti. Ha imparato tutte le cromie dell’arcobaleno, per affermare le sue ragioni contro lo sguardo offuscato di chi vedeva il cielo in varie tonalità di grigio. Ha sperimentato, fin da giovanissimo, il filtro che la mente impone alla realtà e si è metodicamente impegnato a domare ansie e paure, attraversando momenti di vera, effettiva, concreta felicità. Ha vissuto esperienze fuori dal comune e imparato ad osservare il mondo da una prospettiva inusuale. Ha imparato ad assaporare la gioia, gustarla fino all’estrema essenza, succhiarne tutta la dolcezza, fino all’amaro. Ha scoperto che, chi crede di poter conquistare la luna, arriva ad accarezzarla. E’ stata un’altalena emotiva, un viaggio difficile, faticoso, meraviglioso, unico. Oggi quel bambino è diventato un papà felice che fa i conti con un’ingombrante eredità e quando pensa: - “Faccio fatica, faccio fatica a fare tutto” - osserva gli occhi azzurri della figlia, ripensa al suo eroe e si fa coraggio: “Un giorno alla volta, un passo alla volta.”
Id: 3121 Data: 21/02/2016 21:43:28
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Meravigliosa, meravigliosa vita.
Da adolescente il silenzio mi intimoriva, lo respingevo come un nemico, era la rappresentazione del fallimento. Un telefono muto, ai tempi, mi spaventava più della malattia, della morte o di un quattro di latino. Ricordo molto bene la sensazione di quelle domeniche infinite, in cui tutto taceva. Su Radio Italia passavano in continuazione “Buona domenica” di Venditti. Odiavo quella canzone. Ai tempi avevo paura della solitudine. Sono una persona complicata, spigolosa, mi hanno insegnato ad essere così? La vita mi ha insegnato ad essere così ruvida? Non lo so. Però sono affascinata dalle persone spigolose come me, quelle che dietro le spine nascondono un universo di sentimenti da scoprire. Persone "vere", che dicono fuori dai denti: “Se mi vuoi conoscere mi devi conquistare, ma lo devi volere veramente, perché io non mi concedo a tutti.” Quelli sono i muri che, una volta oltrepassati, fanno innamorare della vita. Volti che anche a distanza di tempo, continuo a portare dentro. Serrature invecchiate, che faticano a scattare, ma quando la porta si apre, rivelano un tesoro in soffitta che aspetta di essere spolverato, riportato alla luce. Credo questo sia il motivo per cui ai tempi, la domenica, spesso, il telefono non squillava. Però chi chiamava allora, lo fa ancora adesso. Oggi il silenzio è un caro amico, difficile da incontrare. Quindi, in una giornata come questa, in cui la casa è vuota, in penombra, il cielo grigio e l’acqua compre impercettibilmente gli oggetti, con il suo pulviscolo silenzioso, io sono qui, seduta sul divano, con una morbida coperta sulle gambe, a fare un bagno di silenzio, ristoratore, splendido silenzio. All’inizio sono quasi intimorita. Il vuoto di rumore sembra inghiottire le stanze, privarle della loro normalità e restituire spazi che non conosco, o forse non ricordo. Emozioni che la routine rumorosa tende a portare via, far svanire. Tutto rallenta e provo un’eccitazione ingiustificata, una sensazione di potere sul mio qui e ora. Mi scappa una risata, mi accontento di poco. Da ragazza il potere era la libertà di volare via. Immaginando il mio futuro, dipingevo una fuga senza ritorno, in giro per il mondo, senza famiglia, patria, radici. Oggi libertà è concedermi di essere me stessa e ciò che mi da serenità è il silenzio assordante del luogo più scontato, radicato, confinato e caldo che io conosca: casa mia. Assaporo il momento in cui tutta l’energia, il frastuono, la felicità, che fanno parte della mia squilibrata esistenza, escono dalla porta per lasciare il vuoto. Un vuoto che sa di loro, che mi restituisce gli stessi sguardi, le stesse risate del quotidiano, ma mi consente di gustare, assaporare, fissare nella mente, nella memoria, nel cuore. Rileggo ciò che ho vissuto una seconda volta, con infinita dolcezza, rabbia, paura, perplessità, commozione. Nel chiudere la porta al rumore della vita, riscopro la vita stessa, i suoi colori, la sua semplice straordinarietà. Sono seduta accanto alla finestra, la luce illumina le pagine dell’ultimo libro che sto leggendo. Inaspettato, forte, carico di ricordi, uno di quei libri che meritano la lettura, per il loro potere evocativo, per la sincerità. Sono parole di un amico, un Amico che rivivo e riscopro attraverso le sue stesse parole. Che forza hanno le parole! Mi sento meno sola. Perché nel silenzio il rischio di subire la solitudine esiste, anche se a me capita raramente. Non perché io non mi trovi ad essere sola, ma perché preferisco lasciarmi cullare dalla solitudine. Mi piace la percezione di essere completamente a mio agio con me stessa, senza recitare una parte, di madre, moglie, figlia o amica. Me stessa, priva di maschere che altri mi fanno indossare, senza attacchi, assalti da cui difendersi. Sola per scelta, per attimi, per una parentesi, sola per gioco. La solitudine “vera”, tagliente, disperata, quella no, quella non mi piace, non mi appartiene. Il mio silenzio è un silenzio carico di autocritica, di amici con cui pianificare il fine settimana, di stronzate da ricordare, di confessioni da condividere, di fotografie da riguardare. Sono una solitaria snob, privilegiata, scelgo la mia solitudine, la assaporo fino a che la realtà non fa nuovamente irruzione dalla porta di casa. Ma quelle ore, quelle poche ore in cui il mio spazio si svuota di tutto, affetti, suoni, responsabilità, proprio in quel momento la mia esistenza mi investe con tutta la sua forza, la sua energia. E riprendo a respirare, in questa mia complessa, insopportabile, faticosa vita. Meravigliosa, meravigliosa vita.
Id: 3107 Data: 14/02/2016 17:32:28
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Ciao Pa, ci vediamo martedì
Arrivò di corsa, come sempre. Un appuntamento di lavoro lo aveva impegnato più del previsto. Suonò il campanello. Si sentì una voce dietro l’uscio: - Chi è ? - Sono io. Si udì il rumore metallico delle chiavi che giravano nella toppa e la porta si aprì, lentamente un vecchio sorridente fece capolino. - Ciao papà, come stai? - Mah, siamo qui. Tu? - Stanco. Nicolò ha di nuovo la febbre e la notte non si dorme. È già la seconda volta in due settimane. L’uomo si tolse la giacca e la posizionò sull’appendiabiti, vicino alla porta. La casa era sempre uguale, non cambiava mai nulla. Il profumo entrando, era sempre lo stesso, quello della sua infanzia. Da quando la mamma non c’era più però, un’atmosfera diversa avvolgeva impercettibilmente le stanze. - Dì a tua moglie di portarlo un po’ dalla pediatra. - Si, si l’ha già chiamata, andiamo domani. Ti ho comprato le medicine, tieni. Posizionò il sacchetto della farmacia sul tavolo della cucina. - Grazie, quanto ti devo? - Niente, siamo pari, ti dovevo i soldi del libro che mi hai comprato la settimana scorsa. I due si misero a sedere in cucina, uno di fronte all’altro. Il figlio propose: - Facciamo una partita a carte? - Va bene. - Le prendo. L’uomo si alzò, apri il primo cassetto della cucina, accanto ai fornelli, tirò fuori due mazzi di carte e disse: - Scala o burraco? - Burraco. - Ok. Mischiò le carte. – Le do io? - Va bene, io faccio i mazzetti. - Hai uno sguardo serio, corrucciato. C’è qualcosa che ti preoccupa? - Mah, al lavoro le cose vanno così e così. C’è crisi, non so come andrà a finire. - Dovete andare fuori, all’estero. Cosa ci fate ancora qui? Guardò il padre, poi distolse lo sguardo. Non ebbe il coraggio di dire quello che stava pensando: “Sto qui per te papà, perché sei tutto quello che rimane della nostra famiglia e non posso lasciarti solo.” Invece rispose: - Sai, è per il bambino, non sarebbe facile adattarsi. Dovrebbe lasciare il suo mondo, i suoi amici. Poi Chiara ha la sua attività, dovrebbe abbandonare tutto, su due piedi, dopo tanti sacrifici. Non credo sarebbe d’accordo. - Siete giovani, se non lo fate ora, non lo farete più. Questo paese non ha nulla da offrire, andate via! - Papà, temo che la situazione sia ovunque la stessa. Così dicendo, dopo aver distribuito undici carte a testa, lasciò che il padre iniziasse il gioco. Quando fu il suo turno, pescò una carta inutile dal mazzo e la scartò sbuffando. Il padre raccolse tutto lo scarto ed il figlio disse: - Prendi tutto? - Prendo quello che mi serva. - Papà. - Dimmi. - Alla mia età, hai mai avuto paura. - Spesso. A volte non dormivo la notte per la preoccupazione di non sapere come mandare avanti la famiglia. - A volte ho l’angoscia di non riuscire, di perdere tutto. L’anziano, lo guardò di sottecchi, senza sollevare il capo, poi abbassò nuovamente lo sguardo. Fece una pausa e disse: - Invecchiando ho capito che a tutto c’è soluzione. Sei in gamba, non ti preoccupare. Qualsiasi cosa succeda, te la caverai. E così dicendo, mise tutte le carte sul tavolo, scartò è andò al mazzo. - Che fortuna che hai sempre! - Si, anche. Il padre sistemò ancora un re e posizionò una scala di cuori sul tavolo. Poi fu il turno del figlio, che pescò e scartò la stessa carta e disse scocciato: - Tocca a te. - Vedi Luca, la vita è una sorpresa continua. Io ormai sono vecchio e stanco, ma tu hai ancora tutto da vivere e da vedere. Ti succederanno cose che non avevi pianificato e saranno le più belle, ma anche le più terribili. Tu accogli tutto quello che arriva come un’opportunità. Ci affanniamo per avere mille accessori e poi il mondo è tutta tra due braccia, quelle di tuo figlio, di tua moglie o di un amico. Sono queste le cose che contano, a cui devi dare spazio, che non devi trascurare. Tutto il resto va e viene. Tutto quello che io ho conservato nel tempo, quello che è rimasto con me, sono i miei ricordi, i miei affetti. L’esistenza è un soffio meraviglioso, potessi tornare indietro mi godrei la dolcezza dei momenti che nella quotidianità sfuggono: l’istante in cui ho conosciuto tua madre; la prima volta che ti abbiamo portato a casa; la sera quando ti mettevamo a dormire; la mattina, quando ti venivamo a svegliare per iniziare una nuova giornata; la prima volta che ti sei innamorato; la prima volta che ho preso in braccio mio nipote. E’ stato un viaggio bellissimo, per assaporarlo completamente bisognerebbe affrontarlo una seconda volta. Se tu avessi la mia età, capiresti che tutti i problemi, che in questo momento ti tolgono il sonno, sono fugaci, passeggeri, futili. Di tutto questo ti rimarrà solo il ricordo delle persone cha hai intorno. Guardò il figlio negli occhi. Chiuse il ventaglio di carte che aveva in mano, lo posò sulla tavola. Allungo entrambe le braccia, appoggiò le mani sulle spalle del figlio e continuò: - Vivi figliolo, vivi senza paura. Trova il tempo di ridere, di vedere posti nuovi. Coltiva gli amici, sono importanti quanto l’amore. E poi ricordati di regalare dei fiori a tua moglie, lasciale dei bigliettini sul cuscino, accanto alla tazzina della colazione, dentro la borsa. Dille tutto quello che provi per lei, trova il modo di farla sentire sempre speciale. Anche Nicolò, non sgridarlo troppo. Te lo dico per esperienza, passa sopra a certe cose, non sono importanti, lo capirai col tempo. Ridi con tuo figlio, passa con lui più tempo che puoi, crescerà in un attimo, senza che tu te ne renda conto. - Tu ora parli così, ma quando ero ragazzo io non la pensavi allo stesso modo. - Lo so, ma si cambia. L’esperienza ci insegna tante cose. La vita è una maestra inflessibile, impartisce le sue lezioni con perseveranza e cinismo. Il figlio prese una carta dal mazzo e finalmente fu in condizione di scendere. Posizionò sul tavolo una scala di picche, un tris di assi, quattro sette e una scala di cuori. Forse stava sbagliando gioco, aveva ancora due carte in mano e non riusciva ad andare al mazzo. Non riusciva a concentrarsi. Scartò e chiese: - Papà hai paura di morire? - Alla mia età la morte diventa una compagna. Si è portata via la mamma, i miei fratelli, quasi tutti gli amici. Non la posso temere, quando arriverà ritroverò gli affetti che mi hanno dimenticato qui. Spero. - Hai mai pensato ad arrenderti? Dico seriamente, staccare la spina, dire basta? - Credo, credo di no. Ci sono stati momenti difficili, in cui ho creduto di non farcela, ma la resa, credo di no, credo di non averci pensato. Ci siete tu e Nicolò. Perché me lo chiedi? - Così - Cosa vuol dire “così”? - Ultimamente mi capita di chiedermi come sarebbe la vita delle persone che ho intorno senza di me. Secondo te faccio la differenza? Voglio dire, se domani finisse tutto? Se tutto scomparisse, come un’illusione? O meglio tutto continuasse senza la mia presenza, rimarrebbe il vuoto della mia assenza? O lentamente verrei riassorbito dal flusso della vita? - Ma che domande sono? Figlio mio che pensieri brutti! Certo che si sentirebbe la tua mancanza. In maniera insostituibile. - Tu dici? - Io vivo l’assenza della mamma in tutto ciò che faccio. Mi sveglio la mattina, allungo la mano e la cerco al mio fianco. A volte mi sembra quasi di percepire il suo profumo. Mi lavo, mi vesto e mi sembra di sentire la sua voce che mi rimprovera: “Hai lasciato tutto il dentifricio sul lavandino, pulisci per favore!”. Faccio la spesa e scelgo la frutta, i formaggi che preferiva. A volte mi trovo a cucinare i suoi piatti preferiti, solo per avere in casa le stesse fragranze di quando c’era lei. Talvolta sono in piedi, davanti allo specchio, e lei mi parla: “Sistema il colletto e poi butta via questa camicia lisa”. Non mi libererò mai di quella camicia, è stata l’ultima che mi ha comprato. Lei ormai è dentro di me. Per la tua famiglia è la stessa cosa. - Per te è diverso papà, avete vissuto insieme più di cinquant’anni. - Ascoltami Luca, non farti prendere dallo sconforto. Se qualcosa non va, abbi il coraggio di cambiarla. Se non abbiamo il coraggio di cambiare quando le circostanze lo richiedono, se preferiamo chiudere gli occhi e abbandonarci alla disperazione, piuttosto che lottare per stare bene, la nostra vita perde significato. - Non è così semplice. - Invece lo è. Il problema è che quando siamo infelici ci abituiamo all’infelicità e dimentichiamo che la felicità esiste ed è altro. Il padre raccolse tutto lo scarto, lo riunì in un mazzetto e poi lo mise con le altre carte che aveva in mano. Le sue mani erano aggrinzite, tramavano impercettibilmente. La sua vista non era più quella di un tempo. I suoi occhi, una volta limpidi come l’azzurro del cielo estivo, erano annacquati, velati, avevano perso la loro intensità. Sembravano più piccoli, sotto il peso delle evidenti rughe che segnavano la pelle. Del giovane bello, prestante e spavaldo degli anni sessanta non rimaneva nulla. Al suo posto un anziano, incurvato, con pochi capelli bianchi sulle tempie. Il rossore degli occhi raccontava storie di lacrime versate negli anni, ma quando rideva, la sua risata aveva sempre la stessa energia. Si leccò l’indice, per separare un sette di denari da un quattro di picche. Fece spazio sul tavolo e poi, una carta alla volta, sistemò una scala di denari, quattro sei, attaccò una pinella alla scala di cuori esistente, scartò l’ultimo tre di fiori che aveva in mano e disse: - Ho chiuso. - Uffa, vinci sempre tu! Che ore si sono fatte? - Non riesco a vedere. Guarda l’orologio sul forno. Luca si piegò leggermente in avanti e con le gambe spinse la sedia, mentre si alzava in piedi. Era un bell’uomo. I suoi occhi blu erano intensi, i capelli neri, brizzolati sulle tempie, gli conferivano il fascino dell’uomo maturo, sicuro di sé. Sebbene vestito in maniera informale, era di un’eleganza impeccabile. In questo assomigliava al padre. La polo blu, perfettamente aderente, lasciava immaginare un fisico prestante, modellato da una corretta alimentazione e dalla pratica sportiva. Era molto curato, eppure le sue mani raccontavano una storia diversa: sciupate, le unghie malridotte, lasciavano traspirare ansia e preoccupazione. Alla mano sinistra la fede ed un Hublot, ultimo modello, a rimarcare il suo buongusto. - Sono le 18:00, devo andare Papà, mi dispiace. - Non ti preoccupare, vai, vai. C’è la famiglia che ti aspetta. Dai un bacio al bambino e a tua moglie. - Grazie papà, mi ha fatto piacere parlare con te. - Anche a me. - Ti voglio bene papà, anche se non te lo dico mai. - Lo so. Anche io ti voglio bene. - Ciao, vado. Prese la giacca blu dall’attaccapanni. Infilò il braccio destro, quello sinistro e si sistemò il colletto. Controllò in quale tasca fossero chiavi e cellulare, dopodiché allargò le braccia per serrarle dietro la schiena del padre. Da giovane, quando lo abbracciava, quel corpo era la sua montagna. Si appoggiava alla sua pancia per essere avvolto e protetto dalle braccia del genitore, per sentirsi al sicuro. Ora, i ruoli si erano invertiti. Nel cingere quel anziano consumato dagli anni, lo sentì fragile, precario, indifeso. Aprì la porta di casa. Quando aveva già varcato la soglia, si voltò e disse: - Ci vediamo martedì, se riesco, ok? Mentre pronunciava queste parole premette il pulsante per chiamare l’ascensore. - Certo, quando riesci, non ti preoccupare. L’ascensore arrivò e l’apertura delle porte fu accompagnata da un suono metallico. Entrò e disse: - Ciao Pa. - Ciao Luca. L’uomo si voltò e con la mano fece un cenno al padre che sorrideva. Provò una nota di malinconia nell'osservare le porte dell’ascensore chiudersi davanti al vecchio padre. Quella fu l’ultima volta che lo vide.
Id: 3103 Data: 10/02/2016 03:14:31
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Un anno dopo, una birra.
Quando Luca entrò nel bar, fuori iniziava a piovere. Aprì la porta del pub, una ventata gelida attraversò il locale. Si scrollo il freddo di dosso, si tolse i guanti di pile e li infilò nella tasca destra del piumino. Diede un’occhiata intorno e riconobbe l’amico, di spalle, seduto al bancone. La sua risata rumorosa si faceva strada in mezzo al vociare della gente. Stava chiacchierando con la barista. Una ragazza mora, con lunghi capelli lisci raccolti in una morsa strettissima sopra il capo. La sua pettinatura era tirata al punto tale da accentuarne il taglio degli occhi. Una coda le scendeva sulla schiena, sottolineando la provocante scollatura. Una piccola fenice si poteva intravedere poco sopra i glutei. Il trucco nero avvolgeva il suo sguardo di ghiaccio, rendendo l’azzurro ancora più intenso, mentre le labbra carnose, prendevano vita grazie al rosso porpora del lucidalabbra. La pelle bianca, di un candore artificiale, dava a questa bellissima ragazza le fattezze di una aggressiva bambola di porcellana. Era decisamente affascinante ed il suo amico sembrava accorgersene. Luca si tolse la giacca, l’appoggio sull’appendiabiti, alla destra del bancone, insieme alla sciarpa. Sposto lo sgabello con un piede e ci si butto sopra. Massi, che era nel pieno di un'animata conversazione con la ragazza dietro al bancone, si voltò e riconobbe il suo vecchio amico. Si conoscevano dai tempi del liceo, insieme ne avevano combinate di tutti i colori. Avevano condiviso moto, ragazze, fumo e alcool. Adesso avevano qualche ruga in più, qualche capello grigio, ma avevano mantenuto l’abitudine di vedersi quasi tutti i giorni per una birra, per guardare la partita, per andare allo stadio, per fare due chiacchiere. Massi salutò l’amico: - Ehi ciao. - Ciao. - Com’è? - A pezzi. - Cosa succede? - L’ho rivista. - Quando? - L’ho incrociata ieri. Lei stava scendendo dalla metro, mentre io salivo. E’ stato un istante. Credo abbia un altro. Era insieme ad un tipo elegante, incravattato, con dei denti di un biancore inquietante. Teneva lo sguardo basso, non mi ha visto. - Ma non vuol dire nulla, come fai a dire che sta con un altro? - No, no, queste cose si capiscono. L’ho persa, ti dico che l’ho persa. - Ma non è detto. - Ti dico che si è rotto qualcosa. Ho sbagliato, dovevo dirle tutto un anno fa. Non dovevo lasciarla partire. Ormai è tardi. La barista si avvicinò: - Cosa vi porto ragazzi? I due risposero in coro: - Due medie rosse, grazie. - Cosa le hai detto prima che partisse? - Che mi ero innamorato, che avevo bisogno di lei. - Davvero? - No. – Rispose accennando un ghigno ironico– Avrei voluto. In realtà mi sono limitato ad un “Ciao a presto”. Massi, non sapeva che dire, avvicinò il bicchiere alla bocca e sollevandolo, guardò l’amico attraverso il fondo del boccale. Era teso, preoccupato, da quasi un anno lo vedeva infelice, ma non era mai stato così agitato, così rassegnato. Posò il bicchiere, afferrò una manciata di noccioline e con un gesto deciso se le gettò in bocca. Poi disse: - Dai amico, ora è tornata. Mentre fissava il vuoto alle spalle di Massi, Luca appoggiò il gomito destro sul bancone: -Però l’ho persa. Avrei dovuto insistere, continuare ad esserle amico, non lasciarla andare via. Mentre pronunciava queste parole, appoggiò la fronte sulla mano destra, le dita tra i capelli biondi, si chiusero in un gesto di rabbia. Si afferrò il ciuffo lo tirò indietro. Poi seguitò: - Se avessi insistito, forse avrei continuato a vedere i suo occhi e la sua bocca ridere, avrei ancora il suo profumo che mi accompagna nelle giornate più difficili. La sua abitudine ad alzare impercettibilmente le spalle quando non è d’accordo, il suo modo di camminare distratto, leggero, i suo capelli disordinati sempre davanti al volto, farebbero ancora parte della mia vita. Ora non la vedrò più. E mentre pronunciava queste parole sollevò il bicchiere e bevve mezza birra in un sorso. Massi accennando un sorriso disse all’amico: - Non esagerare. Come fai a sapere come andrà a finire? L’hai solo incrociata un attimo, per strada. Non vuol dire nulla. Trovava la reazione di Luca esagerata, ma non disse nulla. Gli voleva bene e non se la sentiva di ferirlo. Tutte quelle storie per una donna erano però eccessive. Continuò: - Chiamala. - Non posso. Dopo tutto questo tempo cosa potrei dirle? Le ho scritto, se vorrà mi chiamerà lei. Non voglio impormi, lei deve scegliermi, non subirmi. Voglio che sia lei a fare il primo passo. Perché sente la mia assenza, perché è pazza di me, perché le manca il fiato quando mi pensa, perché non riesce a fare a meno di cercarmi. - Ma può darsi che sia così, può darsi che sia tornata proprio per te. Forse come te non chiama per paura di un rifiuto. Cosa le ha scritto? - “Non mi rimane nulla, solo la tua ingombrante assenza. Oggi finalmente ti ho rivista, inaspettatamente. Il problema è che sei esattamente come ti ricordavo: bellissima. Il tuo sguardo distratto celava una serenità impercettibile, misteriosa, avrei voluto chiederti:-dove sono i tuo i pensieri?- Improvvisamente il mondo intorno a me ha ripreso i suoi colori, la primavera per un istante è tornata nella mia vita.” - Wow, e lei? - Nulla. Luca diede un ultimo sorso alla birra. Dopo averla svuotata, alzò il braccio, per chiedere alla cameriera un’altra media. Lei si girò verso di lui. Mentre quelle voluttuose labbra rosse gli parlavano, lui per un istante chiuse gli occhi e rivide la scena della metro. Ancora, e ancora e ancora. Riaprì gli occhi quando sentì la voce dell’amico. - Mi dispiace, ma se fosse veramente finita... dovrai fartene una ragione. Luca avvicinò il suo volto al volto dell’amico, appoggiò una mano sul suo braccio e lo guardò dritto negli occhi: - Perché tu ce la faresti? Se Marika non fosse tua, se tu sapessi che non la vedrai più tutte le volte che vorrai, che un altro la potrà baciare, portare fuori a cena, farla ridere? Riusciresti a sopportarlo? Riusciresti a non averla sempre davanti agli occhi? Riusciresti veramente a vivere senza il suo odore sulla pelle? Rinunceresti al suo modo di muovere le mani? Potresti immaginare la tua vita senza la sua voce che ti prende in giro al telefono, che ti da la buona notte la sera, prima di dormire? Rinunceresti al suo buongiorno ogni mattina? Sapresti rinunciare ai suo pensieri? Cedere a qualcun altro il diritto a conoscerli, il privilegio di condividere i suoi segreti? - Di cosa parli? Sei ubriaco, la birra ti è andata in circolo troppo in fretta? Tu sei fuori. Marika è la mia donna, punto. Facciamo del buon sesso, ci divertiamo. Va bene così. Se non ci fosse? Non ci ho mai pensato. Credo mi mancherebbe, per un po’, poi riprenderei a vivere. - Allora non è Lei. Non è quella giusta. Prima o poi la incontrerai e tutto sarà diverso, tu sarai diverso. Ti si infilerà sotto la pelle e, prima che tu te ne renda conto, l’avrai nel sangue. Sarà parte di te, irrimediabilmente, non riuscirai più a liberartene. Ti creerà dipendenza, come una droga. Sarà la tua malattia e la tua ragione di vita. Ti renderà migliore, avrai voglia di dimostrare che per lei puoi essere all’altezza di qualsiasi prova e allora supererai i tuoi limiti. Per lei andrai oltre le tue paure, i tuoi bisogni. Sarà come lanciarsi nel vuoto senza paracadute ed il volo sarà così unico, che non ti interesserà neppure sapere se atterrerai sul morbido, perché, comunque, ne sarà valsa la pena. La guarderai e penserai: “Io con te voglio invecchiare, con te e con tutta la tenerezza, le cicatrici e l’impegno che una vita insieme comporta.” La immaginerai con le rughe e penserai che sarà bellissima comunque. Ti interesserà mettere a nudo prima il suo cuore che il suo corpo. E farai l’amore con lei come non l’hai mai fatto con nessuna, perché non accarezzerai solo la sua pelle morbida, ma la sua anima. Massi ammutolì, non sapeva di cosa stesse parlando l’amico, non aveva mai provato un sentimento così travolgente e francamente non lo credeva possibile. In quel momento squillò il telefono di Luca, era Lei. -Ciao. -Ehi ciao, come stai? -Bene – disse lei – ti ho visto ieri, eri tu nella stazione della metro? -Si, credevo non mi avessi notato. -E’ passato tanto tempo. Come stai? -Ora meglio -Cosa vuol dire? -Che ti aspetto da un anno. Ci fu un attimo di silenzio, poi lei continuò: - Ci vediamo una sera? -Anche subito. -Dammi il tempo di fare una doccia. Dove sei? Ti raggiungo. -Sai dov’è l’Irish? -Ok, ci vediamo lì tra un'ora. Quando chiuse la comunicazione, non riuscì a dire nulla. Il suo amico lo guardava con uno sguardo interrogativo e lui pronunciò solo la parola: - Arriva. Quarantacinque minuti dopo, quando lei varcò la soglia del locale, lui istintivamente si voltò verso l’ingresso. Mentre entrava dalla porta, il biondo luminoso di quella lunga chioma disordinata si mise a volteggiare a causa della corrente. Era bellissima, le lunghe gambe, che teneva leggermente piegate verso l’interno, erano avvolte in spesse collant marroni ed il cappotto, doppio petto, beige, stretto in vita dalla cintura, copriva completamente l’abito sottostante. La pelliccia grigia e nera che rivestiva il bavero, avvolgeva il suo esile collo. Portava sempre tacchi altissimi e, nonostante questo, il suo passo era impercettibile. Con un gesto lento infilò il braccio sotto la coperta di capelli che le copriva il volto e, alzando il gomito, li spinse indietro. La porta si chiuse alle sue spalle e l’aria gelata si fermò. Lei alzò lo sguardo e lo vide dritto davanti a sé. Quegli occhi verdi, luminosi, sembravano animati di una nuova luce. Lui sentì il suo cuore fermarsi e ripartire al galoppo. Le mani sudate, la gola improvvisamente secca. Non riusciva a muoversi, non riusciva a parlare. Per quanto tempo aveva immaginato la scena. L’amico, gli scosse il braccio e gli chiese: - Ehi è arrivata, che fai? Luca si voltò, disorientato, lo fisso negli occhi, le sue labbra accennarono un sorriso e prima di alzarsi, rispose: - Vado a invecchiare con lei.
Id: 3099 Data: 06/02/2016 01:46:44
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Al 42r di via Cairoli
Sono seduto in questo luogo, giorno dopo giorno. I miei pantaloni cambiano colore con il passare delle stagioni, consumati dalle macchie e dal tempo. La mia barba è diventata una cara amica, fedele alleata, ha imparato a proteggermi il volto dal freddo e dagli sguardi indiscreti. Non ricordo quando sono arrivato in questo angolo di strada. Non lo ricordo e non mi interessa più. Le mie mani ieri forti e sicure, sono oggi tremanti rugose, immagino siano trascorsi anni. La gente passando non mi vede neppure, sono vittima di quello che si potrebbe definire il complesso della trasparenza. Sono invisibile al punto che, a volte, temo mi si possa passare attraverso. Io non esisto. Neppure il mio nome mi appartiene più. Sono arrivato a questo incrocio da un’altra vita, una vita che non mi sembra aver mai vissuto. Ne rimane un ricordo sbiadito, quasi un racconto fatto, in chissà quale occasione, da uno sconosciuto. Avevo una casa, avevo una bella moglie, avevo due figli speciali, avevo un lavoro. Ho perso le fila. Non so bene come, tutto intorno a me si è lentamente, inesorabilmente, consumato, come un’illusione. Un giorno ho aperto gli occhi ed ho trovato il nulla. I miei errori, i miei silenzi, avevano cementato barriere tanto alte da creare un deserto sterile, disabitato, ostile. Chi mi incrocia credo veda solo un ubriacone di mezza età: profondi occhi incavati; rughe marcate sulla fronte; la pelle incrostata dallo sporco e screpolata dal freddo. Forse tutto ciò che rimane di me è esclusivamente un involucro, consumato dalla vita. Ho scelto la bottiglia, non ricordo il girono preciso, l’istante esatto in cui ho compiuto la scelta, forse non è stata neppure una valutazione consapevole, ma c’è stato un momento, una frazione di secondo, in cui ho imboccato una strada senza ritorno. Ho lasciato andare la mano di mia moglie ed ho afferrato la bottiglia. Mi è sembrato di non poter fare altrimenti. Quel peso lacerante sul petto, la soffocante sensazione di non farcela, la paura di deludere chi mi amava, l’ansia di perdere tutto, di non avere più il controllo. Solo un bicchiere – mi dicevo – un bicchiere soltanto! Per sedare l’agitazione, far tacere i miei demoni. Sono finito a guardare il mondo attraverso il fondo di quel bicchiere. Una visuale ridotta, deformata, vuota. Quando ho sollevato lo sguardo, intorno a me tutto era mutato. Io stesso ero cambiato. Adesso, quando riesco a rimediare una manciata di spiccioli, mi regalo qualche ora di oblio, senza freddo, solitudine, paura. Per un brevissimo lasso di tempo tutto sembra più facile, più accettabile. All’angolo tra via Cairoli e via Garibaldi, sotto i portici, sulla destra, la terza saracinesca dal semaforo, quella è casa mia. Sono seduto su quel marciapiede, giorno e notte, per non perdere il posto. Un tempo in questo stesso luogo, c’era un tabacchino. Mi fermavo di tanto in tanto a comprare le sigarette, prima di andare in ufficio. Avevo ancora un lavoro. Calpestavo con indifferenza lo stesso gradino che oggi rappresenta il mio letto. Lo scalino, tra saracinesca e marciapiede, è ampio a sufficienza da consentirmi di dormire supino e di stendere le gambe. Ma nelle notti invernali è meglio stare raggomitolati, il freddo è un nemico terribile, penetra nelle ossa, non da tregua, impedisce di dormire, impedisce di pensare, assorbe ogni energia. La mia vita è chiusa in un sacco di plastica nera, che porto sempre con me. Al suo interno: un sacco a pelo recuperato tra i rifiuti; una decina di pagine di giornale, che in inverno infilo sotto la maglia, per proteggermi dall’aria gelida; una sciarpa rossa, il primo regalo di mia figlia. Nel taschino, proprio all’altezza del cuore, una vecchia fotografia, ingiallita e malridotta. E’ stata scattata una domenica di primavera, sul lungomare. Quando la osservo mi sembra di respirare la brezza marina, di avvertire la salsedine tra i capelli, sulla pelle, di percepire i raggi del sole che mi scaldano il viso, di sentire le voci argentine di Monica e Luca che si rincorrono sulla spiaggia. Cerco di guardarla il meno possibile. A volte il desiderio di riprendere in mano le redini della situazione, ripartire da dove tutto si è interrotto, tornare indietro è fortissimo. Allora chiudo gli occhi, immagino di infilare le chiavi nella toppa, sento il rumore del portachiavi che sfrega sulla porta. Ad accogliermi il tepore di casa mia, il profumo della cena sui fornelli, l’abbraccio distratto di mia moglie che mi saluta mentre continua a cucinare, la corsa dei miei figli che mi raccontano la loro giornata e si parlano sopra per avere la mia attenzione. Poi apro gli occhi, la gente, intorno a me, continua a camminare indifferente. Troppi dolori, troppi errori, troppi anni. Quei giorni felici non mi appartengono più. Tornare indietro non è possibile. Ormai vivo qui, al 42R di via Cairoli, la mia casa è sul cartone che occupa questo marmo ingiallito. Rimango seduto e osservo le persone che, con passo deciso, incalzano la loro giornata, per arrivare prima, per fare presto, per guadagnare tempo. Come impiegano il tempo risparmiato con la loro corsa? I loro volti sono tesi, le fronti accigliate, i sorrisi forzati. Camminano con lo sguardo fissa al cellulare. Chi è più libero, io o loro? Osservo migliaia di storie passarmi davanti. Una ragnatela di volti che si intersecano, sovrappongono, annullano. Solo i visi dei bimbi mi rimangono impressi, i loro occhi grandi, sinceri che mi osservano con curiosità e dolcezza. Come costruiamo la vita? Si tratta di casualità, scelta, destino? Esistono migliaia di possibilità, infiniti cammini che ci circondano, ci scelgono, ci cambiano. Ogni volto che mi passa davanti, anche il più banale, racconta una storia di scelte, tutti ne abbiamo una da raccontare, che merita di essere scoperta, ascoltata, vissuta. Pensieri, segreti da confidare, ricordi che scaldano il cuore, rimpianti che lasciano l’amaro in bocca. Facce di individui che non conoscerò mai. Quante persone sono entrate nella mia vita ed ho ingenuamente creduto di conoscere. Esistenze che ho sfiorato con la punta delle dita, senza riuscire ad afferrarle. Non sono riuscito a trattenere nulla per me: ricordi, emozioni, attimi, tutto è sfumato. Non si accede alla vita di qualcun’altro, per quanto si cerchi di entrare nel suo mondo, qualcosa sfugge, la visuale è sempre parziale, soggettiva, incompleta. Il mondo in continuo movimento. L’opinione che ci facciamo oggi, domani cambierà, basterà una parola, una confessione, un gesto, un evento. Sarebbe utile poter spiegare a coloro che mi passano attraverso che ieri ero come loro. Metterli in guardia, ricordare loro di tenere stretto ciò che si ama. La loro prospettiva su di me è distorta dall’indifferenza, dalla lontananza. Ai loro occhi io non esisto. Chi si accorge di me, mi osserva con compassione, alcuni con terrore. Untore temibile, portatore malsano di infelicità infettiva. La notte è il momento della giornata che preferisco. Sistemo i fogli di carta sotto il maglione, tiro fuori il sacco a pelo dal sacchetto di plastica, facendo attenzione a non farlo volare via, calo bene il berretto sulle orecchi. Mi copro e mi lascio trasportare dalla mente. Di notte le persone si tolgono la maschera, rallentano. Al primo piano del palazzo di fronte, dalla finestra osservo i Bellini riunirsi sul divano e addormentarsi abbracciati, nella loro inconsapevole felicità. Al piano superiore, il signor Bui passeggia avanti e indietro, tutta la notte, provato dalle preoccupazioni e dalla solitudine. Loro non mi conoscono, mentre per me sono una famiglia adottiva, mi tengono compagnia sera dopo sera, anno dopo anno. Mi piace la notte, quando tutto è silenzio, se non ci sono ambulanze a disturbare la quiete, posso quasi sentire il mio cuore battere. Il suo ritmo è stranamente simile a quello di tutti gli altri esseri umani. Sdraiato nel mio angolo di mondo, sogno di questa e di un’altra vita. Riscrivo il passato, rivivo la felicità. Per pochi istanti, prima di addormentarmi, prima che il sonno mi privi della coscienza, non temo più nulla. In quella manciata di secondi, sono padrone del mondo, del mio mondo.
Id: 3092 Data: 01/02/2016 18:11:19
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Speranza per il mio domani
Seduta di fronte ad un orizzonte che non ha confine, ma solo speranza di altrove, respiro lo spazio che mi è mancato. L’odore del fritto di una vicina trattoria non mi infastidisce, mi ricorda le mie origini, i profumi dell'infanzia. I miei sensi per lungo tempo assopiti si risvegliano, inebriati dalla salsedine e dallo sciabordare delle onde, che si confonde con la voce del vento. Quali parole porterà il domani al mio sguardo? Non so rispondere. Attendo e nell’attesa l’estasi della pienezza. Solitaria eppur non sola, con tutto il carico della mia vita sul cuore, osservo il blu sfumare al tramonto e penso che forse ci sarà speranza per il mio domani.
Id: 3080 Data: 28/01/2016 18:20:37
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Evocazione di farfalle
Entro nella stanza. Tutti si dirigono nella stessa direzione, attirati dallo sguardo profondo, intenso, penetrante di un Van Gogh ancora capace di osservare il mondo con i colori della vita. Al suo fianco, una tela fissa la prospettiva di un uomo ormai sconfitto dalla tenebra. Le pennellate consistenti, spesse. L’atmosfera della paralisi, del sanatorio. Un velo verde-azzurro blocca il movimento in una terribile, indifferente, estate senza tempo. L’immagine della rinuncia alla vita, dell’incomunicabilità, della separazione, della lontananza. Mi abbandono al flusso della corrente. Osservo la sala nel suo insieme, alzo il mento per scrutarne l’illuminazione, studiarne la disposizione delle luci. Abbasso il capo e, distrattamente, lancio un’occhiata alle mie spalle, verso sinistra. La mia attenzione rimane impigliata in una nuvola di colore caldo, intenso, pulsante. Mi avvicino. Un’onda infuocata da cui emergono, staccandosi a fatica dalla tela, perfette, plastiche farfalle. Ne osservo una in primo piano, non riesco a metterne completamente a fuoco l’arcobaleno di colori, il suo realismo stona con il crepuscolo onirico che la avvolge. Mi avvicino per meglio osservare le pennellate. Nuance di rosso scarlatto, arancio melograno, nero incerto, si sovrappongono nella loro sfida per il predominio. Un soffio, una ventata attraversa le tinte. Inseguimento di surreali creature, che faticosamente guadagnano la loro parte di libertà. Sottili accenni di corposo colore, con maestria, infondono la vita al battito d’ali. Faccio un passo indietro. Macchie incerte affermano la vittoria sullo spazio e mi attirano in un vortice ipnotico. Sciame irreale che si svela solo all’occhio dell’osservatore assorto. Volteggio generato o consumato dalla lotta onirica tra passione e oscurità, tra fuoco e tenebra. Movimento d’ali che perde la definizione nel traghettare nelle profondità segrete del sogno. Conflitto tra vita e assenza di vita, contesa aerea in un abbraccio confuso di grigi persi nella porpora. Attrazione ipnotica, calda inquietante passione, stordimento, sogno che prevale sulla realtà. Sono persa in una dimensione a cui si accede solo con la mente. In un solo dipinto il mistero della vita: fatica, gioia, vitalità, speranza, oscurità, paura. Una mano sapiente ha confinato con abilità lo spazio, dominato il colore e generato la vita. Qualcuno mi sfiora la mano, scossa dal contatto, ritorno alla pesantezza della gravità. Infranta la dimensione del miraggio, trattengo la nostalgia del luogo a cui tornare. La vertigine, la tempesta delle tinte, lasciano i miei occhi assetati di un’atmosfera che non rivivrò. Mai più osserverò le farfalle nello stesso modo. Mai più vedrò farfalle così belle.
Id: 3075 Data: 27/01/2016 01:20:46
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La vasca
Lo hanno fatto di nuovo, mi hanno svegliata ancora! Hanno aperto la luce ed è partita la ventola. Quell’odioso rumore mi perseguita, non mi da tregua. Entrano ed escono in continuazione e spesso si dimenticano la luce accesa, incuranti del mio sonno. In questa casa non si riesce a riposare. Mattina, pomeriggio, sera, la porta si spalanca, la costellazione di lampadine sopra di me prende vita ed quel rumoroso aggeggio incastrato nella parete di fronte parte, con quel suo suono invadente. Persino la notte, quando tutto il mondo riposa, c’è sempre qualcuno che viene a farmi visita. Avessi i piedi me ne sarei già andata, invece sto qui, sdraiata sul pavimento, incastrata tra le pareti e bloccata da due guardie quantomeno sconcertanti: Bidet, rumoroso e impassibile e Gabinetto, maleodorante e sempre in funzione. Così resto qui, immobile, a fissare le travi del soffitto per gran parte del mio tempo, con la sola compagnia di qualche ragno in cerca di un nascondiglio sicuro. Alcuni momenti della mia giornata però sono piacevoli, quando le cucciole di uomo si siedono sulla mia pancia. Mi spalmano di una strana crema, che loro chiamano bagno di schiuma. Ha un profumo dolce, non ho mai assaggiato lo zucchero a velo, ma credo lo ricordi molto. Non badano a spese, esagerano, non come gli adulti. Poi aprono l’acqua e la lasciano scorrere abbondantemente, quasi fino all’orlo. A volte ho temuto il peggio. Anche se sono capiente, bere troppo non è consigliabile, potrei fare indigestione e sarebbe un grosso problema. A loro piace la schiuma, a me fa un po’ di solletico, ma queste due creature sono così felici che non mi oppongo. Non si può dire che siano delicate nei movimenti, tutt’altro. Spesso mi arriva un calcio, a volte una sberla, devo confessare che mi è capitato di vendicarmi, con qualche piccolo scivolone, niente di pericoloso. Ultimamente mi hanno incollato addosso degli strani oggetti gommosi: pesci verdi, con immobili occhi bianchi e neri, che ostacolano le mie piccole vendette. Loro li chiamano antiscivolo. Devo ammettere che quelle risate, quei gridolini, quegli occhi allegri mi riempiono di soddisfazione. Ho due amici, Hippo, un piccolo ippopotamo rosa, e Meggie, una bellissima bambolina, i protagonisti di storie divertentissime che prendono vita nel mio grosso ventre. Quando le bimbe escono dall’acqua Hippo e Meggie si siedono sul bordo a riposare ed asciugarsi. Io rimango lì, ad osservare queste due creature un po’ deluse per l’interruzione del gioco, ma soddisfatte di me. Le ho viste cambiare, giorno dopo giorno. Purtroppo tra qualche tempo non riuscirò più ad ospitarle insieme. Di tutt’altro genere è invece la visita che, di tanto in tanto, mi fa quella donna. Appena entrata, accende strani lumini colorati e puzzolenti, che saturano l’aria con insopportabili profumi artificiosi e dozzinali. Poi abbassa l’interruttore della luce ed io, al buio, vorrei dormire, ma lei non me lo consente. C’è uno strumento sulla mia destra, una specie di scatoletta. Lei preme un pulsante, la scatola prende vita e si diffondono nella stanza strani rumori: l’acqua di una cascata, il cinguettio degli uccelli e la ripetizione delle stesse note, ancora e ancora e ancora. Questi suoni insistenti sarebbero ancora sopportabili, se non mi cospargesse di sale, come un arrosto da infornare. Quei fastidiosi granelli colorati, all’eucalipto, si insinuano in ogni fessura, in maniera fastidiosa ed irriverente. Il lezzo di eucalipto mi toglie il respiro. Ma l’aspetto più insopportabile, ciò che veramente non tollero, è quando mette in moto il mio sistema digestivo e mi riempie di fastidiose bolle imbarazzanti. Il disagio di avere tutta quell’aria in circolo è inimmaginabile, mi fa fare strani rumori e mi solletica la pelle. Lo chiama idromassaggio, ma più che di un massaggio parlerei di una tortura. Rimane a mollo, immobile, talvolta penso sia sul punto di assopirsi, poi improvvisamente si siede e con l’aiuto di una lima da unghie solleva il tappo dello scarico, che non funziona. Ho i miei anni, qualche acciacco è naturale. Io do così sfogo ai miei bisogni e mi libero di tutti i liquidi ingeriti. Lei si alza e apre la doccia. Si insapona i capelli ed il corpo con altri odori infestanti, che si sommano al fetore di candele e sali, creando un insopportabile puzzo di vaniglia, eucalipto e rosa. Lui invece mi snobba. A lui piace la doccia, il signorino. Cos’avrà lei più di me non lo so, fatto sta che non l’ho mai visto. Forse una volta, mi sembra di ricordare, tanto tempo fa, quando ancora lei e lui erano soli. Quando aveva meno fretta. Comunque non gli piaccio, questo l’ho capito. Anche quando le ragazzine vogliono giocare con me, lui non è d’accordo, ha paura che si bagni il pavimento. Spesso alza la voce, ma quelle due creature mi sono affezionate e riescono sempre a spuntarla. Eccole, eccole che arrivano, le sento ridere. Finalmente è il mio momento.
Id: 3068 Data: 24/01/2016 22:53:38
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45 Kg
Mi chiamo Erika, ho diciannove anni e sto cercando di diventare una persona migliore. Peso quarantacinque chili e sono alta un metro e settanta. Quando mi guardo allo specchio vedo le clavicole spuntare sotto il collo. Passo le mani sulle ossa sporgenti e provo un certo compiacimento. Se mi giro di schiena distinguo tutte le costole. Mi piego per infilare i jeans e osservo le vertebre dell’immagine riflessa, le posso contare una ad una. Quando sorrido vedo le vene colorare il mio viso sotto una pelle sottilissima. Una in particolare mi attraversa la fronte in diagonale, fa pressione, quasi a voler uscire dai contorni del volto. Le mascelle, abitualmente pronunciate, sono ora marcatamente sporgenti. Spesso mi dicono che sono troppo magra, al contrario penso di non essere mai stata così bella. Ci sono ancora alcuni punti del mio corpo su cui devo lavorare, ma il controllo del peso mi da una sensazione di potere. Mi sento forte, mi sento in grado di affrontare la vita. Mi concentro spesso su ciò che posso e non posso mangiare, pianifico con estrema precisione i miei pasti. Peso ogni alimento, se non mi è possibile, ho imparato a contare il cibo di modo da avere una corrispondenza tra peso e quantità. Non sento la fame e ho un cero disgusto verso chi si abbuffa. Il cibo è disciplina, deve essere esercitata con costanza. Oggi ho comprato un nuovo paio di pantaloni, taglia 36. Ho provato una piacevole eccitazione nel constatare che erano da stringere. Ormai ho il pieno controllo del mio corpo, posso permettermi di vestire qualsiasi cosa. Ciò che indosso è diventato fondamentale. Prima non facevo troppo caso al mio abbigliamento, ma ora sento che tutti mi osservano, sono sempre al centro dell’attenzione. Il mio nuovo aspetto mi piace, ma allo stesso tempo mi mette a disagio. Come se le ossa scoperte mettessero a nudo la mia fragilità, la mia anima. Mi sento come se le persone potessero frugarmi nel profondo. Sono nuda agli occhi del mondo, non ho altra protezione che i vestiti che indosso. La mia armatura per combattere gli attacchi della realtà. Meno mangio più l’adrenalina in me cresce, mi sento energica. Più mi sento energica meno dormo. Un’insofferenza di fondo non mi fa chiudere occhio, quindi appena posso esco, sia di giorno sia di notte. Sono lontanissimi i tempi in cui trascorrevo la serata sonnecchiando davanti ad un film, abbracciata al mio ragazzo. Ora le mie giornate sono piene, veloci, intense. Mi piace questa nuova persona, anche se ancora non la conosco bene. Certo fa un po’ di casini, fa scelte che in passato non avrei fatto, a volte è un po’ cinica, a volte un po’ spregiudicata, ma questo nuovo corpo si può permettere tutto. Forse ogni tanto sono un po’ sopra le righe, le mie reazioni forse un po’ eccessive, ma l’energia in me è tale che a volte è difficile da gestire. Non so se sono felice, forse ancora qualcosa da sistemare c’è, qualcosa ancora in me stride, come un ingranaggio fuori posto da aggiustare, ma sono dettagli. Una parte della vecchia “me” mi manca: la sua serenità, la sua semplicità, la sua routine lenta, i suoi amici. Ora ovviamente ho nuove abitudini, quindi anche le compagnie sono cambiate. La litania dello “stai dimagrendo troppo” mi aveva stufato, ma i volti familiari un po’ mi mancano. Qualche volta sono un po’ confusa, ma è normale. Alcune giornate sono terribili, soprattutto quelle in famiglia, quando sono obbligata a mangiare. Terminato il pasto, appena posso, corro in bagno a liberarmi di quel peso sullo stomaco. Non subito, dopo circa una mezzora. Mi sono accorta che, se aspetto un po’, vomitare è più facile, meno doloroso. I cibi iniziano a scomporsi nello stomaco e quando rimetto sono certa di non soffocare. Un paio di volte mi e capitato che il cibo, risalendo, fosse talmente compatto da impedirmi di respirare per alcuni istanti. Se posso mi lego i capelli, per non sporcarli, ma a volte è difficile bloccare le ciocche che ricadono sulla fronte. Allora le sistemo dietro le orecchie, sperando sia sufficiente. Mi tiro su le maniche per evitare di macchiarle, sollevo il setto del gabinetto, mi piego, appoggio una mano sul bordo del bagno e sfrego l’indice e medio della mano destra sul fondo della lingua. Attraversata da uno spasmo mi libero. Per essere sicura di non assimilare nulla, continuo a provocare i conati fino a che non esce più niente. Gli occhi iniziano a lacrimare, e questo è un problema, perché devo sempre ricordare di portare con me rimmel, matita e fondotinta. Mia mamma si stupisce di questa mia attenzione per il trucco, sono sempre stata quello che si definisce una ragazza acqua e sapone. Mi sollevo un po’ dolorante, mi lavo accuratamente le mani e la faccia, controllando con attenzione di non avere gli zigomi sporchi. Poi sfrego le unghie sulla saponetta, con forza, per eliminare ogni residuo. Ho sempre lo spazzolino in borse. Una volta pulito il volto e le mani, mi lavo i denti con estrema attenzione, a lungo, per evitare che le persone sentano sgradevoli odori nell’avvicinarmi. A me quella puzza rimane nel naso, la sento ovunque. Dopodiché tiro la catena, controllo che sia tutto pulito, spruzzo del profumo ed esco dal bagno. Diciamo che adesso devo tenere sotto controllo molte cose, per non aumentare di peso, per non fami scoprire. Qualcuno potrebbe pensare che sono una bugiarda, ma si tratta di bugie a fin di bene. Gli altri non capirebbero, darebbero troppa importanza ad un semplice gesto di autodisciplina. La bilancia è in bagno, tra la doccia ed il cestino della biancheria sporca. La mattina appena sveglia, dopo pranzo e dopo cena la tiro fuori e controllo le oscillazioni del mio peso, per capire come le mie scelte alimentari influenzino lo spostamento della lancetta, anche in maniera quasi impercettibile. Tutte le sere vado in palestre, due ore di aerobica mi aiutano a tenermi in forma. In estate, dopo la palestre, mi dedico quasi sempre ad una corsa sul lungomare. Ultimamente mi sento un po’ stanca, faccio fatica a fare tutto. Non posso cambiare però le mie abitudini, un rallentamento influirebbe sicuramente sul peso. A volte invidio le persone che non hanno bisogno di tutto questo impegno per stare bene, quelle che si accontentano della mediocrità. Io non posso permettermi di allentare la presa, devo mantenere le mie abitudini, perseguirle in maniera costante, ferrea. Sospenderle significherebbe la catastrofe. Non voglio, non posso tornare indietro. A volte mi sento in trappola, che stupida.
Id: 3067 Data: 24/01/2016 02:44:51
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Sogno di una notte di fine estate
Sono sola, nel buio della notte. Le onde immense si muovono lente e maestose, un oscuro lenzuolo sconfinato ondeggia mosso da un soffio viscerale. Accovacciata sul fondo di una barca, non ne conosco forma, origine o dimensione. La mia realtà è appannata, non esiste né spazio né tempo. La visuale è limitata da un orizzonte che fluttua nelle tenebre. La notte indossa una surreale coperta metallica. La luna, regina incontrastata dell’oscurità, diffonde i suoi riflessi, ma io non riesco a vederla. Non ho paura, non so per quale motivo, non temo questa prepotente dimostrazione di potenza. Moto perpetuo, magnetismo oscuro. Lente e mostruose le acque mi inghiottono e respingono. Alle mie spalle né stelle né nubi, solo il nulla. Davanti a me l’aria tersa, immobile, di una notte irreale. In me una puerile incoscienza. Il mare mi lascia scivolare sulla sua superficie, con semplicità, calma, onirica dolcezza. Culla imprevista, l’imbarcazione si avvita nelle onde e procede, costante, senza fretta, senza meta. Carica di aspettative per un futuro che non riesco a vedere, vivo di un'incoerente serenità. Non vorrei essere altrove. Nonostante la mia solitudine, so che mai come in questo momento la mia vita è stata al sicuro.
Id: 3064 Data: 22/01/2016 22:47:45
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Dieci sigarette
Arrivò alle nove, il sole stava calando, entrambi avevano già cenato. Si sedettero in giardino, uno difronte all’altra con una birra in mano. Lei incrociò le gambe, lui appoggiò i piedi sul tavolino. Non ci fu imbarazzo, non c’era mai fra loro. Iniziarono a chiacchierare. Finita la prima birra ne stapparono una seconda. Terminata anche la seconda birra ad entrambi venne voglia di fumare, ma avevano smesso da tempo. Decisero di andare a cercare delle sigarette. Lei uscì in tuta, semplice, disordinata e distratta come sempre, portò con sé solo le chiavi. Presero la moto. Quando lei gli chiese -Vuoi guidare?- Il volto dell’amico si illumino. I suoi occhi sorrisero felici, come quelli di un bambino in autoscontro. Un tempo era stata la sua moto, la sua prima ed unica moto, una SV 650, bicilindrica, venduta all’amica 9 anni prima. Inserì la chiave nel nottolino, fece una leggera pressione sul pulsante dell’accensione, il motore sembrò avviarsi, ma, al primo tentativo, la moto si spense. Provò una seconda volta, il motore partì. Lui attese qualche istante, sgasò per far salire i giri del motore, premette la frizione, un leggero colpetto del piede sinistro verso il basso sulla pedalina del cambio, inserì la prima e, con qualche strappo, si mossero. Trovarono un distributore di sigarette e si accorsero che nessuno dei due aveva con sé il portafoglio. Scoppiarono a ridere, si frugarono le tasche e misero insieme giusto i soldi per un pacchetto di Marlboro light da dieci. Quando furono sul punto di inserire le monete nella fessura, si resero conto di non avere il tesserino sanitario. L’arrivo di un camionista fu provvidenziale, prestò loro il codice fiscale e i due, ridendo, selezionarono le sigarette, ringraziarono e si allontanarono. Tornati a casa ripresero i posti lasciati un quarto d’ora prima, con la compagnia aggiuntiva di una bottiglia di rosso che si divisero bevendo a collo. Nonostante l’ora, in quella afosa notte di fine luglio, l’aria era ancora calda, satura del profumo della bella di notte e del rumoroso canto delle cicale. Lui aprì il pacchetto. Non avevano l’accendino, quindi rientrò in casa, si piegò sulla fiamma del fornello e, facendo attenzione alle sopracciglia, accese la prima sigaretta che crepitando prese colore. Dopodiché si mise una seconda sigaretta tra le labbra, la accostò alla prima e, aspirando lentamente, la accese. Una nuvola di fumo gli uscì dalla bocca, tossì leggermente e le passò il primo mozzicone che pulsava nella penombra. A lei tornò in mente quando, vent’anni prima, seduto sul ciglio della strada, con lo stesso gesto, le aveva passato una canna. Anche allora la stessa attesa, le stesse risate, la stessa complicità e lo stesso stordimento. Ripresero a raccontarsi: amori di ieri e di oggi, paure, insicurezze. Parlarono del passato, del perché gli eventi avevano preso la piega attuale. Si confidarono le speranze sul futuro e tirarono fuori dal cassetto vecchi ricordi di un passato lontanissimo. Col tempo, i figli, il lavoro, la vita avevano imposto delle distanze, rendendo serate come questa praticamente impossibili ma, la fiducia era sempre la stessa. Quando le sigarette ed il vino finirono, si alzarono e si salutarono con un abbraccio stretto, familiare, silenzioso e carico di promesse. Mentre usciva dalla porta di casa, lei per un istante lo rivide: esile, impacciato, con folti capelli neri disordinati e guance paffute. Per un attimo il bambino di nove anni fu davanti a lei. Varcò il portone ed il tempo riprese il suo corso. Quando passò davanti alla vetrata dell’androne, fili d’argento coloravano nuovamente i suo i capelli, all'altezza delle tempie. Il suo volto era maturo, l’aria serena, il passo sicuro di chi è in pace con se stesso. Poi scomparve. Due cugini adottivi sulla soglia dei quarant’anni avevano preso una breve vacanza dalla vita. Entrambi quella notte andarono a dormire più leggeri e più giovani.
Id: 3060 Data: 20/01/2016 23:58:28
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Felicità
La luce filtrava dalla finestra. Si sdraiò accanto alla figlia che dormiva. Avvicinò il suo volto al volto della piccola, fino a sentirne l'odore, l'alito sul volto. Con un gesto lento la coprì, poi appoggiò il braccio sul corpicino, delicatamente. A quel contatto la bimba si mosse e posò la sua manina sul volto della madre. In quel momento lei fu felice, si sentì serena, dopo molto tempo. Osservò gli alberi fuori dalla finestra ondeggiare, poi chiuse gli occhi e si addormentò. Dormì di una serenità che il suo cuore aveva dimenticato. Uno di quei momenti per cui vale la pena vivere.
Id: 3059 Data: 19/01/2016 20:53:32
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