Sull’”argine caldo” della mistica italica
La poesia di Angela Chermaddi tra ascetici prodigi, eros e cronaca domestica
di Paolo Ottaviani
La straordinaria continuità delle immagini legate ai suoni che si susseguono in un’onda di pensiero simultaneamente mossa dentro e fuori il nostro tempo biologico, capace così di travolgere ogni possibile “argine” frapposto tra l’ovvietà del quotidiano, la prevedibilità del “ritmo delle stagioni” e l’inafferrabilità di quella “bianca creatura smarrita” che eternamente “trema dentro”, nel più profondo dell’anima, è stata la prima, fortissima ed incancellabile impressione che ho avuto leggendo la poesia di Angela Chermaddi. La parola “argine”, sebbene appaia assai raramente nel dire poetico di Angela, mi è apparsa subito come una parola chiave, una sorta di schermo eretto sia contro le traboccanti emozioni sia a protezione della parola che preme per venire alla luce dopo il silenzio contemplativo. Questa voce molle e potente (la potenza dell’ar- indissolubilmente coniugata alla mollezza del -gine) appare una prima volta nell’opera d’esordio - Per cominciare il giorno (Frammenti Editrice, 1999) - in questi splendidi versi rivelatori che chiudono la lirica Tu che mi accendi il fuoco da una vita:
Tienimi sulla fronte argine caldo
la terapia della tua grande mano
che non irrompa dai corrosi spiragli
- nell’interno sciacquio di mille voci
vibra sottesa - la follia
una seconda volta nella poesia Rimpiango l’uragano:
argini di emozione
franati allo stupore del primo fiocco rosso
sui tuoi boccoli d’oro
presente anch’essa nella prima raccolta, e poi ancora nel Il cammino di Santiago (Ed. Appunti di Viaggio, 2007):
scorrono i fatti senza argine e meta
divaricate mani il loro grido
sospeso tra parola e silenzio
Da lì non la ritroveremo più, se non nell’ultima, recentissima raccolta Mi sono persa il mare (LietoColle, 2010). Nel frattempo Chermaddi aveva dato alle stampe I misteri della speranza (LietoColle, 2007), libriccino impreziosito da un commosso saggio introduttivo di Franco Loi, senza che la parola argine venisse mai pronunciata. Riapparirà soltanto nella lirica d’apertura di quest’ultima silloge, acutamente prefata di Janina Jakubowicz-Zecchini che ripercorre l’intero viaggio poetico di Angela nel suo farsi “largo fra sterpaglie di linguaggio quotidiano”:
sei per sempre rimasto - gli occhi verdi
quasi quarantenne che sorride
alle cose ancora perfettibili e alle strade
che credevi portassero lontano
nelle curve m’hai chiuso delle ciglia
vite spanata che non sa fissare
un punto fermo - argine del passato
In tutte le quattro liriche è esplicito o sotteso il riferimento a un “tu” invocato a sostegno dell’argine stesso per fronteggiare la rottura di ogni possibile razionalità (le vibrazioni sottese di una possibile follia), la gioia stupefatta di una visione improvvisa (lo stupore del primo fiocco rosso), poi lo scorrere dei minimi fatti quotidiani sopra il fiume carsico della gestazione poetica, infine il dilagare devastante e fecondo della memoria (l’argine del passato). Segno evidente che quell’aggérere, quell’accumulare - Si accumula l’assenza è l’ossimorico titolo di un’intera sezione di Per cominciare il giorno - terra sul fianco dei fiumi, quel cercare riparo dall’acqua, pur nel desiderio dell’acqua, quel costruire ostacoli nella consapevolezza della loro ineluttabile rottura, quell’aprirsi e quel chiudersi ad una vastità che un po’ spaventa e un po’ attrae, è un percorso che non si può fare in perfetta solitudine: è invece un cammino che si fonda sulla ricerca e la presenza dell’altro. L’argine è in perenne tensione, nella costante imminenza o di essere travolto o di trasformarsi in ponte. Infatti:
Quando gli occhi richiudo
s’irradia l’azzurro
e dilaga
Oppure, quando è l’eros a premere e a travolgere ogni baluardo costruito dall’Über-Ich, allora bellezza, potenza, follia e quell’ineffabile, feconda, femminile violenza (quel terribile e meraviglioso ararti a sangue / che lievita le spighe) si fondono inscindibilmente:
Colpirti col mio amore
penetrarti il cervello
spezzando resistenze
violarti del mio affetto
e ararti a sangue
che lievita le spighe
Con la forza che basti
a soggiogarti l’anima
un fallo vorrei da immergere
nelle tue viscere calde e sconosciute
sapere le onde della polluzione
e seminarti terra feconda
Il teologo Morilla Delgado aveva parlato, con assai felice espressione, a proposito di Il cammino di Santiago di una “sonorità evangelica…di una tradizione millenaria che ha le sue radici nell’ethos della mistica italica”. In quell’opera infatti si parlava esplicitamente e forse un po’ ingenuamente di “varco a Dio…ubriaca di musica e colori nella luce”. Comunque già da quella raccolta erano evidenti quelle radici mistiche individuate dal teologo. Uso però qui l’aggettivo mistico nella sua accezione più propriamente etimologica, volendolo spogliare di tutte le sue possibili e mirabolanti suggestioni: myein in greco indica il chiudere, il tacere. E’ dunque dalla rottura dell’argine del silenzio contemplativo che sgorga questa poesia. Eccone un fulgido esempio:
quello che vorrei dire non può dirsi
se non da silenzio a silenzio come onda
leggera di preghiera - eco bianca
di canto gregoriano soffuso
da grata di clausura per le volte
Nella bellissima, appassionata, direi mistica, nell’accezione che ho appena indicato, nota introduttiva a I misteri della speranza Franco Loi, tra altre cose, aveva parlato dell’impossibilità di costruire poesia con la ragione e poi aveva spiegato come la parola poetica si avvalga prioritariamente del suono piuttosto che del significato. Su queste problematiche si potrebbe discutere all’infinito senza mai giungere a conclusioni certe e definitive. Per questo forse è preferibile l’atteggiamento di Alessandro di fronte al nodo di Gordio che in questo caso significa godere della poesia o attraverso la sua diretta creazione o attraverso la sua lettura. Da Mi sono persa il mare possiamo quindi gioire di questi versi:
come su un davanzale
sdraiata dove incassa
il grande oblò metallico sul mare
dietro il vetro riflesso sono vana
forma che l’essere attraversa
si versa acqua nell’acqua mi trascorre
onda di un istante che il mio suono
scivolo in cupo e risollevo
in curva trasparenza a farmi luce
provo a morire bianca
spuma che nella danza
fragile d’un subito scompare
eppure sono il mare
sorso che si riversa
in continuo sbocciare
“sorso che si riversa / in continuo sbocciare” versi bellissimi: è l’argine che si fa onda e passaggio nella continuità di una vita sempre nuova. “Da parola a parola, da suono a suono, l’autrice compone frammenti di un mosaico della vita” al ritmo - dice Janina Jakubowicz-Zecchini nella sua introduzione a Mi sono persa il mare, citando Montale e Zanzotto - di un metronomo calibrato sul batticuore. E’ vero. Lo testimoniano questi versi dove il “silenzio che straripa”, in un gioco che sembra fondere insieme architettura e preghiera, la parola poetica comincia a fluire aggirando ostacoli e pietre come una palpitante sorgentella appena nata:
rituali ritmiche riflesse
geometrie d’aria
un raggio che irrompa dal rosone
obliquo verso
te nel silenzio che straripa
a doccia lungo le nervature
e saliranno a ogiva le tue mani
fino al nodo ove smaniano e le pietre
trescano disegni di tenerezza
Lo dichiarano infine apertamente questi mistici versi teofanici:
era Dio il vento nei capelli tra le foglie
Dio a gocce brillava e scompariva
occhi pieni di Dio nubi che vanno
pulsava d’energia sui polpastrelli
e mi fioriva dentro straripando
liquefatto inondava il mondo d’oro
tutto era vero e chiaro - anch’io ero Dio
“Tutto era vero e chiaro”. L’argine tra il silenzio e la parola, tra la ragione e la poesia ormai ha ceduto definitivamente. La natura ora scorre finalmente libera, pulsando vivissima “d’energia sui polpastrelli”.
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