Pubblicato il 02/01/2010 15:50:02
Ne riconosco ancora l’odore di salmastro: se tutto resta uguale, in questa città narcotica, è colpa del mare e del suo stare stretto, nell’abbraccio selvatico delle corna di un cervo, placido e fermo come fosse un lago. Mi vieni incontro con la ventiquattrore al petto, e in testa un nugolo di idee che affiorano sul labbro confuse, nella fretta di anticipare parole di riguardo. La storica caffetteria del porto, ci accoglie senza garbo, mi respinge un poco il labirinto di tavolini in finto legno. E sono a disagio più di te di fronte al misurato disinganno per i trent’anni che porti in braccio: le pagine sbiadite di progetti inesorabilmente ridotti al macero. Ma non ti arrendi, e questo mi compiace, per questo sono qui a sostenerti in un impegno acclamato sotto voce, per necessaria prudenza più che per timore. La grande sofferenza in te che scrivi su testate è fare un testa a testa col potere e in me vederti così solo a rinunciare a urlare nei megafoni ineludibili richiami alle coscienze. E’ tempo ormai che la paura trasfiguri noia ed indolenza e che il lago veda gli argini sfumare. Qualcosa già si muove nell’attesa che il mare incontri un’onda e con sorpresa riprenda a scorrere l’impeto di una vita vera. Dove saremo noi, è arduo saperlo, se nell’occhio di un cratere spento, o in vetta al monumento al marinaio, come due vecchi gufi appollaiati o come guardiani di un faro acceso sull’inevitabile sviluppo degli eventi.
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