Il rumore della metropolitana in corsa mi arriva ovattato.
Il vagone semivuoto a quell’ora della sera, quei pochi passeggeri silenziosi, chiusi nella loro stanchezza, fanno sì che a tratti mi si abbassino le palpebre, nel tentativo di assopirmi.
Dieci anni.
Dieci lunghi anni con un uomo che, questa mattina, scompare improvvisamente dalla mia vita.
Solo un biglietto, lasciato sul tavolo della cucina, a ricordarmi della sua esistenza.
Il treno si ferma a Cadorna, gli ultimi passeggeri scendono. Non sale nessuno.
Il dondolio riprende, mi culla, mi annebbia la mente ed i ricordi di questa mattina si anestetizzano un poco.
Vorrei ucciderlo.
La paura di scoprire dentro di me una tale forza omicida mi sconvolge, mi fa mancare il respiro.
Mi avesse dato dei segnali, mi avesse dato del tempo.
Per abituarmi all’idea.
Volevo abituarmi all’idea.
Una morte lenta, un lutto annunciato, poco per volta.
Invece la sua mancanza di rispetto ha oltrepassato il limite.
Ancora ho in mente la mia espressione meravigliata, l’intorpidimento cerebrale che ha impedito questa mattina di realizzare immediatamente ciò che era scritto in quel biglietto.
Alzo le palpebre per un istante. Il rollio del treno continua a cullare la mia incredulità.
La sera prima Luca era arrivato a casa con una rosa rossa.
Io ero ai fornelli e stavo preparando la cena. Mi sento il respiro caldo sul collo e mi volto, spaventata, mi trovo lui, il volto semi nascosto da quella enorme spropositata maledettissima rosa rossa.
Vorrei ucciderlo.
Fermata Lotto. Nessuno sale.
Stordita.
Le rotaie fuggono davanti agli occhi, tentano di ricordarmi che tutto è aleatorio, tutto passa.
Prima di uscire dal mio studio ho ingoiato due pillole di un tranquillante di cui non ricordo il nome, il torpore si sta impadronendo di me, una benedizione, una carezza sulla mia anima sconvolta.
Molino Dorino.
Vedo entrare due uomini. Uno di questi…….ti prego, no, fa che non sia lui.
Il primo si siede lontano, nell’ultimo posto a l termine del vagone, mentre l’altro si siede di fronte a me.
L’uomo indossa un giubbotto nero, la cerniera rotta e sfilacciata, la pelle di metà viso ustionata lo fa sembrare a quelle maschere che giocano l’effetto del doppio ruolo. Gocce di sudore luccicano sulla sua fronte. Jeans e scarpe da ginnastica, l’uomo porta meccanicamente l’anulare alla bocca e ne disegna ripetutamente il contorno con fare ossessivo e mi pianta gli occhi addosso.
L’altro, anche senza guardarlo, so com’ è vestito, ha un completo grigio in seta di Tasmania, camicia bianca a quadretti celestini e cravatta azzurra, ben curato, una ventiquattrore in cuoio arancione che sicuramente avrà posato sulle gambe, come è solito fare.
Lo so perché quell’uomo è Luca.
Lui non guarda verso di me, io lo vedo in lontananza, sfocato, mi sembra di avere la nebbia davanti agli occhi, penso che sia la rabbia che mi sta accecando, penso che la mia pressione altissima mi stia ottenebrando il cervello, la vista.
Luca non volge mai lo sguardo verso il resto del vagone, è immobile.
Ecco, ora vorrei alzarmi e andare davanti a lui, urlargli quello che sento dentro da stamattina, dirgli che non è degno di essere chiamato uomo e prenderlo a schiaffi e pugni.
Ma le mie gambe sono paralizzate. Non riesco a muovermi, non riesco a sollevare le palpebre più di tanto, mi costa un’enorme fatica fare tutto questo.
La mia mente è viva e altamente ricettiva a stimoli a cui il mio corpo non può rispondere.
Ma che succede? Improvvisamente l’uomo di fronte a me si alza e si avvicina a Luca, dopo qualche istante sento che iniziano a parlare animatamente, l’uomo dal giubbotto nero sta urlando qualcosa che non capisco e poi tira fuori un coltello e comincia a colpire Luca alla faccia, poi allo stomaco. Luca si accartoccia sulla sua ventiquattr’ore, il sangue comincia a colare sul pavimento del vagone che imperterrito continua la sua corsa.
Vengo scossa da un tremore che assomiglia molto da vicino ad un attacco clonico.
Ho paura.
L’uomo dal giubbotto nero continua ad urlare qualcosa che non riesco a decifrare, le mie orecchie sono volutamente chiuse, mentre Luca è ormai per terra senza vita.
Improvvisamente l’uomo con il coltello alza lo sguardo verso di me e mi osserva, come se si rendesse conto solo ora di avere una testimone del suo gesto efferato, comincia ad avanzare, sballottato di qua e di là, attraversa tutto il vagone fino alla mia postazione.
Signore, ti prego, non voglio morire sotto la furia omicida di questo pazzo. Frammenti di ricordi di questa mattina si mischiano con l’immagine di un rinoceronte che avanza verso di me, chiedo perdono a Dio e concedo il perdono a Luca, perdono tutti, chiunque nella mia vita mi abbia fatto soffrire, dico chiunque è perdonato ma ti prego, Signore, ti prego, NON VOGLIO MORIRE QUA E NON VOGLIO MORIRE IN QUESTO MODO ASSURDO!!
Sento il mio corpo scosso violentemente da qualcosa, una mano sta prendendo a schiaffi la mia faccia .
Un viso cadaverico, di un biancore spettrale, è vicinissimo al mio, sento il suo alito che sa di zenzero pungermi la gola e finalmente apro gli occhi.
Un uomo in divisa da controllore tenta di dirmi qualcosa.
Mi guardo intorno stranita e vedo il vagone vuoto.
Mi alzo come ubriaca, l’uomo spettro cerca col suo braccio di trattenermi ma io mi divincolo e mi dirigo affannata verso il fondo, alla ricerca del corpo e delle tracce di sangue che non trovo.
Completamente stordita scendo dal vagone.
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Fuori la gente mi spintona di qua e di là, talmente presa dai ritmi della vita quotidiana che è capace di farti cadere e calpestarti sotto i piedi senza nemmeno accorgersene.
L’aria fredda mi sveglia del tutto e allora ecco, come una deflagrazione mi arriva il ricordo di ciò che urlava quella bestia su quel vagone.
Diceva: “Lo capisci che di quella rosa rossa non so che farmene!”.
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