Mi preparo da un mese e ormai sono sicuro.
Ho letto manuali, raccolto informazioni, valutato i sistemi più diversi.
Ho subito scartato i metodi cruenti.
Voglio evitare di soffrire troppo, voglio lasciare tutto in ordine, voglio essere sicuro di non poterci ripensare all’ultimo.
Voglio farlo, punto e basta. Levarmi il peso, una volta per tutte. È proprio in questo modo che mi sento di affrontare la questione: togliermi il pensiero.
È da una settimana che telefono agli amici, spedisco email, lascio messaggi su segreterie, mando SMS a cellulari spenti.
L’altro giorno sono stato a pranzo da mia madre, ieri ho preso un caffè con mia sorella. Se qualcuno ha notato tensioni o cedimenti non si è premurato di farmelo sapere. Ma credo di non aver fatto trasparire nulla, perché sono fondamentalmente calmo.
Stamattina mi sono svegliato con una specie di premonizione. Ho aperto la finestra ed era proprio la giornata adatta. Un cielo torbido e uniforme, un vento perfido che si accaniva sugli alberi e le foglie. Ho sempre odiato il vento. Mi rende irritabile e nervoso, mi scatena mal di testa e collere improvvise. Ancora non per molto, ho pensato andando in bagno.
Mi sono fatto la doccia, sbarbato e pettinato. Ho controllato le previsioni del tempo: vento forte e cielo nuvoloso per almeno altri due giorni. Era importante che il tempo non virasse improvvisamente al bello.
Ho fatto colazione con pane tostato, latte, cereali. Mi sono concesso un cucchiaio di zucchero in più nella tazza di caffè.
Poi ho pulito casa con precisione e metodo. Ho rifatto il letto, lucidato il pavimento, lavato la vasca e i sanitari. Sono uscito in terrazza, ho controllato lo stato delle piante, messo il fertilizzante, l’antiparassitario e ho annaffiato.
Quando è suonato il campanello sono rimasto irrigidito in una posa strana, l’annaffiatoio gocciolante ancora in mano.
Avevo calcolato tutto, spento il computer, staccato il telefono. Non mi aspettavo certo delle visite.
Pubblicità in cassetta, ho subito pensato. Suoneranno di sicuro a qualcun altro.
Ma al suono è seguito un debole picchiare di nocche. Solo la porta d’ingresso mi separava da quella mano che bussava: mi sono sentito in trappola. In punta di piedi mi sono avvicinato allo spioncino.
La faccia deformata della signora del secondo piano mi fissava dalla lente. Un’ottantina d’anni, un appartamento condiviso con tre gatti, un inizio di morbo di Parkinson. Non più di una ventina di parole scambiate in quattro anni.
La vecchia mano non si stancava di bussare. Mi è toccato aprire a quel mucchietto d’ossa.
Zucchero e due uova, per fare una crostata.
Ho cercato di liquidarla in fretta. La sua presenza mi stava mandando tutto all’aria. La calma lucida che mi aveva accompagnato fino adesso si stava trasformando in rabbia.
Ho osservato la vicina mentre arrancava verso gli scaffali, prendeva il pacchetto dello zucchero e le uova con le mani nodose, tremolanti.
La domanda, signori, non è perché si muore. La domanda è cosa si nasce a fare.
- Già che ci siamo venga con me in terrazza. Le do della mentuccia, la salvia, un po’ di rosmarino. Così le viene fuori anche un arrosto con i fiocchi -
Lei mi ha sorriso coi tre denti rimasti. Mi ha seguito docile mentre staccavo rametti e foglie dagli odori inconfondibili.
L’ho valutata con la coda dell’occhio. Altezza 1 e 55, peso 40 chili scarsi. Se l’era cercata, questo è certo. Ho aperto le mani, ho lasciato cadere gli odori per l’arrosto.
L’ho afferrata per la vita, ho scavalcato il parapetto. Due al prezzo di uno e si fottessero pure i gatti del secondo piano.
Siamo volati giù che era una bellezza e lei ha cominciato a urlare decisamente troppo tardi.
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