Pubblicato il 11/06/2010 12:00:00
Come si trasforma, un diario personale, in un vero libro? Ricordo la riflessione condotta in un gruppo femminista di tanti anni fa su questo argomento: il diario, questa scrittura ambiguamente segreta che moltissime donne hanno tenuto nei loro cassetti, si rivelava spesso il non-libro per antonomasia. A una rilettura critica, specie se sperimentata dopo anni dalla loro scrittura, i diari sembravano parlare una lingua inadatta a “dire la verità”, proprio quell’intima verità alla quale aspiravano. Nel parlare dei sentimenti, quei quaderni perdevano per strada proprio il lato più personale del vissuto e prendevano a prestito vocaboli e frasi del repertorio letterario più scontato. Eppure quel rapporto complicato con la tradizione letteraria ( e amorosa) esprimeva un desiderio, attorno al rapporto tra scrittura e vita, al limite dell’utopia. Viaggio in requiem nasce con l’intenzione di fare un diario: l’autrice, in viaggio per strade secondarie da Lucca a Otranto, dove il giovane figlio si è suicidato un anno prima, lo scrive di sera negli alberghi dove fa sosta. Scrivere, forse, per imbrigliare nella rete del linguaggio l’impulso potenzialmente folle e torturante di fare che una morte insopportabile non sia avvenuta. O per prestare la propria voce al desiderio di rimettere al mondo – sul foglio-mondo – tutto ciò che, insieme a un figlio, ha avuto vita, vitalità. Ma questo diario, spontaneamente, è subito un libro, nel senso più pieno: è un racconto, un racconto di viaggio e un racconto di un lutto tra i più tragici, di quelli che sembrano impossibili a dirsi e a compiersi. Del viaggio e del racconto ha il ritmo, l’amorosa cura dello spazio, un tempo di andata e ritorno, la meditazione, la bellezza descrittiva, i personaggi, la qualità della scrittura, alcune figure: i girasoli, il mare, i buoni cibi pregustati nelle soste. Come è avvenuta questa metamorfosi, e perché? In una pagina l’autrice ricorda che, un giorno, il figlio l’aveva esortata a decidersi: voleva fare la scrittrice sul serio o no? Lei era restìa, forse perché non voleva che scrivere fosse il suo lavoro, o la sua identità, o forse perché in quella definizione – scrittrice – c’è qualcosa di retorico, di ridondante e dunque di fasullo. Non aveva risposto. La risposta è questa metamorfosi del diario, questo fare un libro. Ovvero: perché nasca un libro bisogna sentire che questa nascita è necessaria, e non solo a sé, bisogna poter sognare una committenza imperiosa. Bisogna stare in una relazione nella quale il libro si colloca come risposta di fatto a domande essenziali, attraverso le quali l’interlocuzione e l’interlocutore prendono forma. Domande come queste: chi sono io, chi sei tu. Mi sembrano queste le domande che attraversano questo libro. Domande anomale, all’interno di un rapporto del quale sembra sia stato detto tutto – il rapporto tra madre e figlio – e che, invece, si presenta alla volontà di prendere e dare parola come non ancora detto, o non detto soprattutto dove la tragedia e la morte volontaria sono intervenuti a lacerarlo. Chi sono io, chi sei tu sono le prime domande che si presentano quando quella tela discontinua eppure tenace che tesse il senso di ogni vita viene lacerato Sono dunque domande che si ripresentano più volte nel corso della vita: ad ogni svolta significativa, ad ogni età (si può dire che segnino il succedersi delle varie età) chiamando a una trasformazione che è il risultato di tentativi, di ricuciture, di rammendi dall’esito finale imprevedibile in partenza. La tragedia è una di queste svolte, e la tragedia di cui si parla in queste pagine è tra le più violente e impedisce la risposta scontata a quelle domande: La risposta sono tua madre, sei mio figlio non basta a nessuno dei due, in questa relazione, per trovare il senso della vita, o della morte. Tanto più perché si tratta di una relazione piena d’amore. L’amore esige il rispetto, l’amore di fronte alla morte vuole rendere onore (sta scritto, qui), cioè una forma di rispetto estremo. E’ il rispetto ad avviare il racconto che narra di due persone ben distinte: c’erano una donna in permanente trasformazione e ricerca e un giovane uomo, suo figlio, in permanente trasformazione e ricerca. Ora rimane lei, sulla scena della vita, a reggere anche il desiderio di trasformazione (la vitalità) di lui che non può più cercare. E’ lei a trasformare lui, sulla base delle tracce che il figlio ha disseminato, e delle quali è lei a fare la ricerca, è lei a crearne-scoprirne la mappa. La mappa di un viaggio. La mappa del viaggio nel mondo così com’è: un paesaggio, fatto di colori e materie e persone e vicende E’ con questo viaggio e questo racconto del mondo-mappa-figlio che si recupera l’amore, e anche molti amori. Perché, tra l’altro, è cosa rara leggere in un viaggio tutto italiano, dal centro al sud, un così forte e semplice amore per questo nostro pesante paese, per questo paesaggio che “appartiene” all’autrice, a suo figlio (che è pittore) e a tutti e tutte noi che lo percorriamo e lo guardiamo. Non la Patria, concetto irrecuperabile per la mia generazione, ma un continuum familiare di cose, persone, tracce di persone passate da riconoscere e reinterpretare perennemente, o da ereditare creativamente. Riconosco nell’autrice una donna della mia generazione. La riconosco soprattutto attraverso questo imperativo: trasformazione. Trasformazione del soggetto insieme alla trasformazione del mondo attorno, delle sue leggi, delle sue relazioni, della sua struttura. Così che l’autocoscienza da recuperare e da formare, avviene immediatamente anche come coscienza dell’altro e di altro. In una nuova interpretazione, vorrei dire, degli antichi ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, ridefiniti continuamente e molto in profondità, nelle loro radici personali e antropologiche. Riconosco una storia di femminilità nella quale ci siamo misurate ogni volta “volando” (un verbo caro alla scrittrice) verso una trascendenza – oltre sé, oltre il corpo che siamo nelle sue vicende obbligate, e ogni volta tornando a quel corpo così presente e segnato dalle sue necessità, corpo che cresce, che parla, si ammala, guarisce un po’, si esprime, vive e muore. Corpo e paesaggio attorno, che qui si incontrano in momenti di dolore e in momenti di gioia: in momenti di bellezza nei quali “non ci sono pensieri”, forse perché costituiscono la scoperta sconcertante, sconvolgente se avviene nel mezzo di un lutto, che il dolore e la gioia più acuti scaturiscono dalla medesima fonte, non separati. Un’ultima notazione, sul linguaggio: è la sua sobrietà, la sua asciuttezza a essere commovente. Si sente il tono della voce, con le sue note di umiltà e di fierezza, così da consentire a chi legge di riconoscere, nella voce narrante, qualche nota anche della propria stessa voce, ricevendo così un aiuto a prendere la parola su temi che hanno bisogno di coraggio per essere trattati, e sono cruciali.
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