Pubblicato il 17/04/2008
www.vulgo.net L'eclissi della parola intellettuali/Storia - miti riti detriti Written by Maria Teresa Granati Monday, 18 April 2005
Qual è oggi il paradiso perduto? All'inizio era il Verbo; e alla fine? Che la realtà, creata dalla parola e dal logos sia già fuori dal linguaggio verbale? Che stia esso diventando una sorta di ceppo, di ostacolo alla comunicazione umana nella nostra era? Nel "Cratilo", Platone attribuisce al possesso della parola e del discorso la capacità dell'uomo di infrangere le catene della materia e il silenzio della natura; la parola che miete l'eco, che rende l'uomo pericolosamente simile ed emulo di Dio, la parola poetica che si estende dopo la morte... I poeti condividono anche oggi l'idea che la parola colga sprazzi o frammenti di verità e combattono lo svilimento linguistico. Ezra Pound concepiva la letteratura come l'unico modo per mantenere le parole "vive e accurate", perché "i poeti- e cita Shakespeare e Marlowe- usano le parole come fossero nuove, piene di risonanze e di bagliori.." Ma può darsi che tutto ciò non basti, che dovremo attraversare una specie di nuovo medioevo, che la prossima era non si esprima in parole e non sia "letterata" in nessuno dei sensi che da migliaia di anni noi intendiamo; e che letteratura, poesia, storia e filosofia, nelle forme in cui ne abbiamo fruito, tacciano. Già l'autore del Pervirgilium Veneris avvertiva che le muse possono diventare silenziose, Kafka parla di "silenzio delle sirene", molto più tragico del loro canto. E la filosofia, anche prima di Wittgenstein, ha cercato forme e sintassi nuove, più precise e più vicine al linguaggio matematico. L'ultima frase del Tractatus configura una sorta di ritirata dalla metafisica, contestando il rapporto di verità tra parole e fatti. La perdita di forza della parola va di pari passo con la crisi della civiltà e della cultura europea fin dai primi decenni del secolo scorso. La crisi e l'estraniazione del linguaggio hanno ricevuto nell'Europa del novecento una potente accelerazione dalla drammatica realtà politica della guerra, del nazismo e dal baratro dell'olocausto. Hofmannsthal, Hermann Broch, altri scrittori austriaci e tedeschi esprimono in forme diverse questa incompatibilità tra la poesia, l'eloquenza e l'orrore della realtà. Kafka ne fu in qualche modo il profeta, anzi, "l'esatto" profeta, perché, come scrive G. Steiner, "ascoltò il mistero del linguaggio", la sua parola poetica fu premonizione di ciò che da lì a poco sarebbe avvenuto... "... Kafka "sentì il gergo della morte farsi sonoro nel volgare europeo, non in senso allegorico, ma con esatta profezia"; dall'incubo della "Metamorfosi" venne la conoscenza che "Ungeziefer", parassita, il termine che definisce Gregorio Samsa trasformato in insetto, sarà il nome usato dai nazisti per indicare le persone uccise nelle camere a gas, cioè la denominazione di milioni di uomini... Ma anche il linguaggio burocratico, oscuro e angoscioso del "Processo" o del "Castello", non prefigura forse lo stato del terrore, diventando di uso corrente nel disastro dell'umanesimo europeo? "Das Worte is tot", si disse, la parola è morta. Ed ora che cosa ci attende? Forse una nuova catastrofe ecologica analoga a quella che seppellì i linguaggi preverbali?
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Credo che da questa deriva ci salverà la memoria, intimamente legata al linguaggio, alla letteratura, alla poesia, al mito. Omero comprese per primo le infinite risorse della parola scritta, alla quale consegnare la sopravvivenza delle memorie umane e della propria creazione artistica: "Gli dei filarono la rovina per gli uomini perché avessero anche i posteri il canto", dice Elena a Ulisse. E Kierkegaard in "Il giglio nel campo e l'uccello nel cielo": "Il poeta è quel figlio del dolore che il padre chiama figlio della gioia...la poesia è l'eco del dolore... l'infinito risuonare in se stesso dell'urlo... questo è poesia..." Il potere di conoscenza della letteratura nasce dal mistero del linguaggio, come nei mistici dal silenzio e dalla contemplazione. Il mito, che è narrazione delle origini, di una creazione, di come una cosa ha iniziato ad essere, o, per dirla con Mircea Eliade, dell'"irruzione del sacro nel mondo", si serve del suo linguaggio come latore di verità esemplari e di tutte le attività umane significative. Così Ulisse, sublime nel racconto delle sue sventure ai Feaci, proietta da millenni la sua ombra nella cultura dell'occidente, così Dante alla fine del Paradiso innalza la parola poetica fino al mistero di Dio, quasi a dire l'indicibile. Il tempo della parola non è lineare e sequenziale, ma si svolge nel senso della simultaneità o mescolanza dei fenomeni. La parola poetica passa, nella sua sostanza fisica ed evocativa, attraverso i poeti e i secoli. C'è un brano, nella parte finale de "La morte di Virgilio", in cui Hermann Broch eleva una sorta di inno alla parola ed esprime, in un intenso ritmo ascendente, quasi un'idea metafisica del linguaggio poetico: "la pura parola....sublime, al di là di ogni comunicazione e significato, definitiva ed incipiente, possente e imperiosa, terrificante e consolatrice, soave e tonante, la parola della distinzione, del giuramento, la pura parola lo investì fragorosa...e l'universo svanì di fronte alla parola, si dissolse in essa...annientato e creato ancora una volta e per sempre, perché nulla era andato perduto, perché la fine si univa col principio...e la parola si librava al di sopra del nulla, al di là dell'esprimibile e dell'inesprimibile...." Il Virgilio di Broch vorrebbe distruggere l'Eneide perché, pur essendo il suo poema una discreta copia del modello omerico, vi manca il volto, il sorriso, il gesto unico ed irrepetibile di un personaggio; perché il linguaggio poetico nasce dall'intesa tra gli uomini, dal sorriso, dal guardarsi delle facce, dal conoscere un altro volto, dal leggervi il mistero della vita; è una pluralità di voci che agisce in noi, un molteplice parlato da tanti uomini e scritto in tanti testi; e la parola poetica passa dall'uno all'altro, dal proprio spazio ad altri spazi, come una domanda, qualcosa di sospeso, sicché la voce del poeta è fatta da tante altre voci prima di lui. Ogni parola del nostro linguaggio contiene le ombre di tutti coloro che sono dietro di noi. Se lo degradiamo, è come se degradassimo quelle ombre. La letteratura è dunque linguaggio e memoria. Una parola genera sempre altre parole. E' l'intertestualità, il "dialogismo" di Bachtin, di cui parla Ezio Raimondi nel suo "La metamorfosi della parola"; la scrittura come soggettività, intertestualità e dialogo, parola che passa dall'uno all'altro, mentre il soggetto quasi scompare."Ogni libro è una citazione di altri libri, come ogni casa è una citazione di tutte le foreste e miniere e cave di pietra", scrive Emerson, e poiché le cose nel tempo si trasformano, lo scrittore è "il custode della metamorfosi" (Elias Canetti), conserva e rinnova, ossia non riduce il nuovo al passato, ma getta sul passato la luce del nuovo, rileggendolo. Ecco come ascoltare il suono di quel molteplice, fatto di una pluralità di voci, di volti, di storie, di memorie; l'emozione di scoprire nell' "intelletto d'amore" di Dante le parole che Sana'i, poeta iranico del XII secolo, attribuisce a Lucifero in "Il pianto di Lucifero"( "o voi che avete intelletto d'amore, non io solo ho colpa.."), o di percepire nel "sedendo e mirando" dell'Infinito leopardiano un'eco della voce di Bidil, poeta indiano del XVIII secolo ("e sedendo e mirando, taciti ce ne stemmo....") Franco Toscani, nel suo saggio "La poesia in tempo di privazione", parla di "un amore peculiare dei poeti e dei pensatori: il mettersi al servizio della parola, del dire essenziale, più dicente"; e, citando Hölderlin in Patmos, aggiunge che l'unica vera fedeltà dei poeti e dei pensatori consiste nell'estrema dedizione e disponibilità al servizio della parola. E ancora: "noi siamo un colloquio, definiti essenzialmente dal linguaggio". No, la parola non è morta.
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