III. Cataclisma
Contemplando il mare e l’imminente tempesta continuavo a camminare piano, affondando i piedi nella sabbia asciutta. Ad ogni passo tentavo d’alzare più sabbia possibile nella speranza che il vento la portasse chissà dove, nella speranza di diventare anch’io sabbia e di sciogliermi nel vento. Volsi lo sguardo dal limpido sudest all’oscuro nordovest e pensai che sarebbe stata solo questione di tempo.
Gli ombrelloni, sotto i colpi del maestrale, rimbombavano, e quelli più vicini al mare, dove il vento è più forte, si rovesciarono. I clienti raccattavano i loro panni e i loro borselli. Alcuni si vestivano e rimanevano sotto l’ombrellone, sdraiati, disinvolti, sui lettini prendisole. Io sentivo di non avere il diritto di avvertirli dell'imminente tempesta: magari aspettavano proprio quella. Certo io stavo lavorando. In casi simili è sempre preferibile che la clientela se ne vada, che mi lasci da solo sotto la pioggia a chiudere con calma ombrelli, sdraio e lettini; poi, finito quello, c’è da tirare su, a causa del mare che sale dalla battigia, i pattini, le barche, i pedalò. Tutti lavori per i quali è preferibile stare da solo. Certo è solo un punto di vista. Comunque, solitudine o no, cominciai a chiudere gli ombrelli della prima fila. Alcuni erano rovesciati. Quando arrivavo sotto un ombrellone ancora abitato afferravo lo scatto e mi sentivo chiamare da qualcuno che, vestito d'una camicia fiorata, si stringeva nelle braccia e, con i capelli strattonati dal vento mi chiedeva: “allora bagnino, regge il tempo?” Da dentro l’ombra m’indicava con gli occhi il sole, modellava un'espressione perplessa, come se non riuscisse, o non volesse capire perché il sole, quel giorno, accecava ma non riscaldava, e intanto incassava il collo e stringeva le spalle per il freddo. Io chiudevo l’ombrellone sopra di lui lasciandolo inondare di luce e, socchiudendo gli occhi, guardavo a nordovest. Stordito di luce, lui, si metteva una mano sulla fronte e si voltava facendo perno su un bracciolo della sdraio col gomito. Il promontorio d’argilla era coperto di nuvole nere. Nell’entroterra di quel promontorio c’è una riserva naturale, gli animali saranno stati tutti già al riparo. "Non penso che regga" dicevo lasciando uno spiraglio di speranza (che sapevo illusoria) per mera cortesia turistica.
C’è un punto della spiaggia che somiglia a una duna del deserto. È una collinetta che ricopre un ammasso di enormi sassi altrimenti pericolosi. Finito di chiudere gli ombrelloni mi misi in piedi lì sopra.
Ci si chiede a volte, vedendo il mare nero gonfiarsi di onde, che senso ci sia nelle nostre giornate buttate. Sfiorando la terra su cui camminiamo con le piante dei piedi questa si sgretola e vola via, e stringendone un pugno tra le mani scivola fra le dita. Se ne sono andati tutti. Sono solo e sopra di me il cielo è nero. Da questa duna si vede chiaramente, in alto, la direzione. Attraverso la finestra si vede il padrone che conta mazzi di banconote. In giornate così è sempre ubriaco, li conta e li riconta diverse volte prima di nasconderli in qualche antro. Io conto le onde, i granelli di sabbia, le persone che salgono, sparpagliate in gruppetti da tre o da quattro, la ripida scalinata che porta sulla strada. Bestemmiano tutti, eppure hanno pagato loro per questo. Il padrone, riposto l’incasso in qualche posto sicuro, s’infila il cappello, apre la porta di legno ed esce sul balcone. Da lassù, con lo sguardo, parte da sud, fa il giro in senso orario e, arrivato a nordovest, il maestrale gli strappa il cappello dalla testa. Bestemmia. Io ho visto, dalla duna, tutta la scena. Quel cappello ha planato per decine di metri, poi, piano piano, ha perso quota, ha toccato cinque o sei volte la spiaggia volteggiando, e s’è fermato solo una volta bagnato, una volta finito in mare. M’ha rattristato.
"Perché stare ancora qua?" Mi sono chiesto.
"Perché è lavoro." Mi sono risposto.
"Perché lavorare?" M’hanno chiesto i marosi che contemplavo andare e venire.
"Oh! Sali, vieni qua!" Mi urlò a quel punto il principale.
Segue in "Ecumene lontano (4)"
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