La vita contemporanea è immensamente frenetica nel cambiamento; non solo nel modo di vivere ma anche nel perenne cambiamento delle cose. Sono gli anni del fulmineo pensiero verso nuove politiche e strutture di pensiero sociali; sessualità, nucleo familiare, annichilimento, politiche del lavoro sono solo alcuni dei massimi sistemi che non sopravvivono al confronto col passato.
La tendenza di questo fulmineo sistema di pensiero, così tenendente alla frantumazione del passato, è favorito dalla digitalizzazione della nostra vita. A quest’ultimo non sfugge niente: il recupero dei vecchi modi di pensare per il costante confronto per il presente avviene ormai in ogni aspetto anche della cultura visiva.
Le iconografie cinematografiche, talvolta, risiedono nei personaggi; la loro immortalità viene contraffatta dal tempo o dal loro stesso status in divenire. Le saghe cinematografiche più longeve subiscono sicuramente questo fato.
In questa sede si prende in esame la più longeva saga cinematografica, con il personaggio più resiliente ai tempi ma che, tuttavia, con il suo ultimo ciclo cinematografico, ha rinunciato al suo immutabile status.
Il suo nome? Bond, James Bond.
No Time To Die ci inganna due volte, in due accezioni. La prima, meramente parolistica ed esplicita per le battute del film e gli eventi rispetto al significato del titolo; la seconda, invece ci inganna per averci fatto credere che Bond potesse non cambiare mai.
Daniel Graig ha interpretato l’ultimo dei classici ed il primo dei nuovi Bond, privato del suo old-fashioned style sempre più gradualmente da Casinò Royale fino a No Time to Die. Nell’ultimo film Bond non può sopravvivere al suo stesso retaggio. Se 007 può essere donna, afroamericana e muscolosa, James Bond non può diventare un padre di famiglia.
E infatti soccombe. James Bond muore, o per meglio dire, muore la sua aura già decadente. Lo hanno detto in molti fin da Casinò Royale che il rude Bond (più originariamente come il personaggio di Ian Fleming) è ora un uomo con una seria e malvelata instabilità emotiva.
Un Bond che rinnega la sua infanzia rancoroso, che finisce preda di gag dalle sue aspiranti bond-girl, che viene mandato in bianco e che viene sparato da una sua collega. Un bond in capace di mantere in vita le donne che ama o di cui è amante, incapace di mettersi in forma e con un aspetto non degno dell’agente al servizio di sua maestà.
Più di tutto, di un Bond che finalmente è debole. Il personaggio è diventato persona, ed è così che il personaggio ha smesso di esistere.
Si vocifera che il prossimo Bond possa essere donna; la contemporaneità fulminea a cui si accennava poco fa potrà sicuramente cambiare il destino di 007. Tuttavia, in No Time to Die, abbiamo l’impressione opposta.
Il disperato politically correct che vuole un 007 donna, afroamericana e muscolosa, macchiettistica e scritturata per soddisfare le aspettative del pubblico dovrebbero offenderlo. La costruzione narrativa di qualità dovrebbe porsi oltre queste tipologie di forzature che stanno, a mio avviso, rovinando la qualità dei character. Non si può inserire un personaggio a scapito della sua ideazione per velleitarie volontà politiche, non si può. Non in un franchise come quello di Bond.
La morte di Bond ci rivela però un altro inquietante paradigma dei nostri tempi tumultuosi di cambiamenti scellerati e incondizionati: nessun personaggio, neanche dalle più solide realtà letterarie, è al sicuro da questo cambiamento. E il Bond di Daniel Graig ha funzionato in questa veste di passaggio. Ciò che ci sarà dopo potrebbe non esistere più in quanto tale.
Ed è proprio adeguata la linea di Lea Seydoux nel finale: “...ti racconterò di un uomo. Il suo nome era Bond, James Bond.” : un mito per i posteri.
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