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Vite più nulla

di Marco Righetti
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Pubblicato il 24/10/2015 01:29:47

Vite più nulla

 

 

 

«È accaduto tutto così in fretta, neppure se ne deve essere accorta.»

«Ma come sta, adesso?»

«Condizioni stazionarie, nessun segno di ripresa.»

«E la bambina?»

«E’ monitorata continuamente, anche lei.»

«Cosa dicono i medici?»

«Fanno il possibile, cosa vuoi che dicano?» Ines chiude la telefonata, ripensa all’ultima gita, all’entusiasmo non appena arrivate alla seggiovia, quando Manuela così agile, nonostante tutto, le era passata davanti e l’aveva provocata. «Beh, sei troppo vecchia per provarci? Ma dai, mamma, si vive una volta sola!»

«E tu non fare imprudenze, nella condizione in cui ti trovi, non scordarlo mai!» le aveva risposto ostentando una sicurezza che non aveva affatto, e mascherando l’impaccio crescente. L’unica volta che era salita su una seggiovia doveva perdersi in uno degli anni ’60, fu quando andò con i genitori al Frais di Chiomonte in Val di Susa. Ines allora era una ragazza e aveva subito sentito avversione per quell’oggetto strano, un seggiolino che se non ci salti al volo lo perdi e intanto i tuoi compagni di viaggio sono già saliti e si voltano preoccupati che tu non ce la faccia e loro vanno sempre più su.

Manuela era salita speditamente sul sedile che le era transitato davanti, si era poi voltata per assicurarsi che anche la madre la seguisse. Che bella Manuela, un fascio di capelli annodati che quando li scioglieva pareva venisse giù tutto lo splendore della sua giovinezza. Manuela sorridente quel tanto che basta a non prendersela mai per nulla, e in quei mesi poi ancor più felice.

«Guarda avanti» l’aveva rassicurata la madre, «hai visto che ce l’ho fatta?» da dietro vedeva la figlia seduta sullo sgabello, così minuta e adesso con quel peso importante. Nel salire al volo Ines aveva inciampato ma era rimasta in piedi ed era finita proprio in mezzo al sedile, ma era già acqua passata, nel rispondere alla figlia si era messa a ridere delle proprie paure. Adesso c’era qualcosa di nuovo che premeva, provava un vago timore, speriamo che vada tutto bene, Madonna mia ti raccomando questa figlia, e la creatura che ha in grembo.

«Guarda avanti, Manu!» aveva ripetuto.

«Ma non devo mica camminare, la seggiovia va su anche se mi volto verso di te!»

«Manu, se resti girata ti vengono le vertigini!»

Salite al passo avrebbero preso il breve sentiero per il rifugio Benassi, il ginecologo aveva detto chiaramente a Manuela che poteva fare un po’ di esercizio fisico, e l’aria di montagna non poteva che giovarle.

 

Il chirurgo che l’ha operata si affaccia alla porta e fa segno alla madre di uscire dalla stanza, «La richiamiamo noi, signora.» Subito dopo entra anche l’équipe, evidentemente per un consulto. Contemporaneamente esce l’infermiera, incrocia Ines: fra loro sguardi rapidi, che dicono e tacciono, e non aggiungono parole, perché vorrebbero aggiungere vita, se possibile, ma in questi luoghi la vita si tenta di ripararla, nessuno è in grado di aggiungerla, è un nodo che bisogna tornare a stringere da capo perché ad un’estremità del filo c’è la morte e anzi i fili sono due perché c’è pure il feto che Manuela ha in pancia.

Dopo alcuni minuti la porta si riapre, sfilano i camici bianchi, i volti tirati, il parlottio basso, le cartelle sottobraccio, qualche domanda senza risposta.

Quando entra la vede sempre là, girata su un fianco, appesa al tubo che la mantiene in vita da un mese in questo reparto di terapia intensiva. È tutto rosa, il camice che circonda Manuela, l’incarnato da bambina che adesso le è venuto, rosa è l’abitino che Ines ha comprato non appena ha saputo che la figlia era incinta di una femmina.

Ines coglie queste parole: «Dobbiamo arrivare alla ventottesima settimana, siamo solo alla ventitreesima», ma chi le ha dette? Forse qualcuno dei medici, e lei le ha percepite in ritardo. E sente anche il seguito: «Parli come se escludessi la possibilità di un miglioramento». La risposta: «I parametri sul monitor non danno alcun segno in tal senso.» Ines è ancor più turbata, i medici sono ormai al piano inferiore, intorno a lei ci sono soltanto familiari di altri pazienti. No, sono frasi che non ha detto nessuno, è lei che le ha prodotte, la sua angoscia. Poi finalmente si accorge che in alto, appena sotto il soffitto, due altoparlanti stanno diffondendo i commenti che ha appena ascoltato. Evidentemente quei medici erano certi di non essere sentiti da lei. O si riferivano ad un’altra degente? Deve saperlo assolutamente, si porta sotto i diffusori per non perdere neppure una sillaba. Altre parole premono nella memoria, la gioia vissuta il giorno in cui Manuela ritirò il referto che la dichiarava incinta. Non avrebbe saputo dire chi delle due fosse più contenta.

«Tu sai cosa significa per me, questo figlio, solo tu conosci quanto mi è costato, mamma.»

«No, Manu, neppure io lo so, un figlio lo sa solo chi lo porta.»

«Ma tu hai portato me!»

Si erano abbracciate.

 

«Signora le parlo con franchezza, la situazione è stabile, ma il rischio che la bambina non ce la faccia comincia ad essere serio. Posso essere diretto?»

«Mi pare che più diretto di così! Perché, che altro deve dirmi? Che moriranno entrambe? Bè, allora, se è questo che deve dirmi ci posso arrivare anche da sola!» Il primario le mette una mano sulla spalla, abbozza un sorriso, Ines si calma. «Mi scusi. Sì, dica quello che deve, dottore, non ha senso mentire.»

 «Cerchi di capire, se Manuela dovesse andare incontro alla morte cerebrale avrò bisogno del suo consenso a tenerla attaccata alle macchine, lei è la familiare più vicina, tenteremmo comunque di farle portare avanti la gravidanza, ci sono dei casi in cui questo è avvenuto.»

«Manuela non è morta cerebralmente» è quasi un grido.

«No, signora» ma è un ‘no’ detto per cortesia.

«Altrimenti che altro resterebbe da fare?» non sa neppure lei perché insiste con questa domanda, è crudele con sé stessa. Capita quando è la vita, per prima, a essere crudele con te.

«Se lei non desse il consenso dovremmo operare e far uscire la bambina con la massima velocità, non ci vuole un genio per capirlo» risponde il medico registrando una certa alterazione nel tono.

«Mia figlia vivrà, dottore, lo capisce? Vivrà!» e stavolta il grido è più sonoro del precedente.

Il medico assume un’espressione negligente, quasi scontata.

«Io attendo gli eventi, anche se qui non cambia nulla, perché se non cambia nulla vivo di speranza, e vive anche mia figlia!»

Il dottore ha la testa immersa in alcuni fogli, sta scrivendo qualcosa, annota i passaggi di questa vita quando è così precaria.

Ci vuole poco perché qualcosa di colpo incrini un’esistenza, o due. Vite più nulla, una somma apparentemente impossibile.

 

«Mamma, allora? Non la facciamo questa passeggiata?» I nevai lontani incendiavano la visuale, sparando il bianco contro l’azzurro. Erano appena scese dalla seggiovia, Ines stava ancora guardandosi intorno, incredula, per prendere confidenza con quell’altitudine, quel panorama, quell’aria insolitamente frizzante, pulita.

Quando si era voltata la figlia non c’era più. Si era girata praticamente di trecentosessanta gradi, cercando la sagoma di Manuela. Solo un ammasso di colori confusi, a partire dal giubbotto, e quindi i pantaloni della tuta, il cappello di lana. Tutto questo era diventata Manuela, riversa a terra, immobile, colpita da qualcosa di terribile, incapace di stare al mondo, assente.

 

«Se neppure voi mi date speranza allora me la invento io, esisterà qualcosa che possa aiutare mia figlia a riprendersi! Ma lei capisce o no la mia situazione, la capisce, dottore?» Ines non sta parlando al medico, ma a sé stessa. E sente una voce che le risponde, sì, può esserne certa, è la voce di un neonato che piange. Ines si irrigidisce, sbarra lo sguardo, il neonato è nelle mani dell’infermiera, non sa di portare in sé la vita.

 

«Manuela! Manuela! Le era sopra, la scuoteva dolcemente, sapendo di sbagliare, chi è colto da malore non va toccato inutilmente ma casomai rianimato. Erano passati proprio in quel momento un gruppo di volontari del soccorso, Ines a gesti, ancor prima che a parole, gli aveva fatto capire la gravità della situazione. Pochi minuti dopo Manuela era già in elicottero per il trasporto all’ospedale vicino.

Aveva visto l’apparecchio sollevarsi verso il cielo con un rumoraccio di pale e quel vento artificiale, vorticoso. E lei si era ritrovata così, a duemila metri di quota, senza più la figlia accanto e una gran voglia di piangere. Qualcuno l’aveva aiutata a scendere, l’avevano messa in funivia, stavolta. Era tornata a casa dopo ore di viaggio, come se avesse dimenticato la strada, il cellulare sempre acceso per avere notizie dall’ospedale, non c’era posto per lei nell’elicottero.

 

«Lei è la mamma?»

«Sì, sono io, perché?» l’atteggiamento con cui la donna risponde a Ines non è dei più concilianti. China il capo verso la sua bambina e la culla, per cercare di calmare il pianto.

Ines le dice qualcosa che la donna non capisce, usa un tono basso e fermo, quasi aggressivo, non se ne rende conto.

La giovane aggrotta le sopracciglia, preoccupata, e tuttavia incuriosita, le chiede di spiegarsi meglio.

Ines si avvicina ancor più a questa mamma, ora le parla a pochi centimetri, come se si vergognasse, o se non volesse far sapere nemmeno a sé stessa quello che le sta dicendo.

«Beh, senta, io non saprei, basta che i medici acconsentano! E basta che…» la risposta sarebbe certamente più lunga, la giovane serra le labbra come a far prima, non vale la pena di star lì a parlare, anche perché Ines appare piuttosto disperata.

 

La neonata piange, è a pochi metri dal corpo di Manuela, grida con quel pianto tipico, a occhi chiusi, i pugnetti stretti, la voce così forte e stridula che pare abbia un microfono nel petto. La madre la calma offrendole il seno, e lei succhia subito beata, del pianto già non ricorda più nulla. Ines, accanto al letto, segue ogni movimento, il corpo della figlia è sempre immobile, gli occhi immersi nel silenzio.

Il giorno dopo avviene la stessa scena, prima della poppata la madre entra nella stanza di Manuela e le mette accanto la sua bambina, il suo grido lacerante. Manuela ha una bambina in grembo, quel pianto è l’unica musica che può valicare la porta dell’incoscienza. Manuela ha bisogno di sentire la vita intorno a sé, di collegare quel pianto a Sara, deve percepire che Sara è nata, che la sta chiamando, che la vuole come madre.

I medici sono d’accordo, ogni giorno a turno una madre porta il suo neonato piangente vicino a Manuela, è come un piccolo asilo la sua stanza, dove cambiano sempre i bambini ma la maestra - in stato incosciente - rimane la stessa.

«Come si chiama?» chiede Ines all’ennesima mamma appena entrata, indicando il suo neonato. «Luca» e con semplicità lo depone proprio accanto a Manuela, ora che piange sconsolato.

Manuela è lì che non si muove, ha un’alba dentro di sé, lei lotta contro il tramonto.


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