E sai come attendere ancora
camminando con gli occhi
a piccoli passi
tenendo la voce nel petto
come fosse una stanza,
una limpida stanza, nella limpida pace
per vivere ancora. Colma di luce
ho scelto un angolo del mio giardino
da dove si guarda nel boscovecchio,
al centro esatto del mondo,
ti ho veduta tagliare la torta
sulle montagne leggere
con un filo azzurro sul ramo
viaggiando a ritroso dentro il chiarore
del tuo sagittario
venuto al primo giorno in cui raggiunsi
la riva occidentale del dolore
nel sogno di qualcuno che non nasce
faceva male
questo anelare che ora è gioia
inciampando sulla pelle della Bibbia
tradotta in minuscoli frammenti.
Quanto è vasto il nostro essere figli
se da lontano ti alzi dentro i boschi,
sullo specchio dell'anima, silenziosa,
sotto le volte delle più alte cavità:
inginocchiate al nostro Garizim,
dove la sorgente allarga il corpo
con le ossa esposte ai vasi d’oro,
bagnammo i nostri nomi nel presepe,
con il bianco eolico degli occhi,
sfiorando come cieche la natività,
finchè il cielo discesce per toccarci
mescolando sull'orlo delle vesti
la veglia della neve per Natale.
Qualcuno arrivò come a coprirci,
un Angelo forse, con la testa di un bambino
nelle profondità dell’incompiuto..
c’è un’emozione tenera ad Oriente
del dolore, dove indietro non si grida,
nello sguardo di un'aurora senza sole,
che custodisce e vive, disegnando
un arco luminoso che finisce
indistinguibile, sul mare addormentato,
che entra nell'amore commovente
gettando a poco a poco la zavorra,
e nel tempo della sua composizione
anche il ramo solo di un abete
fa un giardino intorno alla sorgente,
pulsando nelle pieghe della mano
e in altre forme, sul capo, ai miei domani,
la stessa comunione, coi piedi carichi di seta,
una lezione della luce, ancora più leggera:
un presepe immaginario, tra l'ombelico e il seno,
annodato sulle reni con la forza della sua fragilità,
ritma le mie feste dondolando,
con tutta la lentezza del tuo viso,
il canto di un sentiero tra le cose
che non mi hanno mai abbandonato.
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