Loro!
(They of the Dead)
Quando all'inferno non ci sarà più posto, i morti cammineranno sulla terra.
Prologo
L’uomo si rese immediatamente conto che era completamente inutile continuare a correre in quel modo; la strada, anzi, le strade davanti e intorno a lui continuavano, sì, a rimanere deserte: ma per quanto lo sarebbero state? Era poi davvero così? Già molte volte questa sua supposizione e speranza l’avevano ingannato. Si arrestò per riacquistare un po’ di energie.
Solo dopo che i suoi piedi furono completamente fermi, si accorse di essere a corto di fiato. Avrebbe voluto sedersi sul marciapiede, ma preferì restare in piedi. I suoi occhi si diressero verso le macchine parcheggiate ancora nei cigli delle strade; cercava di scrutare l’interno del loro abitacolo, tenendosi sempre a debita distanza, ma si preoccupò anche di tenere d’occhio lo spazio dietro di loro, in cerca di un qualsiasi movimento che avrebbe potuto metterlo in allarme.
Sembrava tutto libero e vuoto: forse le auto ferme erano le cose più vive che poteva distinguere intorno a se.
Ma non si faceva illusioni: Loro erano là, da qualche parte. Forse lontani o molto probabilmente vicini. Il fatto che in quel momento non si curassero di lui poteva significare solo due cose: o Loro non avevano nessuna vittima a portata di mano – e per questo motivo non avevano alcun interesse nel trovarsi da quelle parti – oppure c’era qualcuno per le strade non altrettanto fortunato come lui.
Non si vergognò nel pensare che per sé stesso la seconda opzione era di gran lunga più vantaggiosa: in questo modo dovunque Essi fossero, qualunque fosse il loro numero, erano già impegnati con qualche altro disgraziato. Scacciò questa preoccupazione così com’era venuta, con un semplice battito di ciglia. La paura è sempre più grande e additiva del pensiero per gli altri e delle loro sventure.
Seguitò a guardarsi intorno con terrore e lentezza; anche il ruotare semplicemente la testa era un’azione che gli procurava una gran pena.
Credeva che ogni piccolo rumore potesse attirare orde di quegli Esseri.
Per quanto riguardava il suo odore, l’odore del suo corpo e della sua pelle, che sembrava attirare tali Esseri più della sua presenza fisica, non poteva fare proprio nulla. Nemmeno più si ricordava quando aveva fatto l’ultima doccia.
I suoi occhi si spostarono a osservare le finestre dei grattacieli che lo circondavano: nemmeno l’altezza di tali infissi era un fattore di sicurezza.
Loro erano soliti sbucare all’impazzata e da ogni parte; forse all’impazzata non era il termine esatto da utilizzare nei suoi pensieri per accostarlo a Loro: probabilmente la loro lentezza era l’unico vantaggio che rimaneva a lui e a quelli come lui.
E la loro principale potenza, il numero, era un qualcosa che poteva essere visto anche da lontano e così evitato.
Tuttavia nessun ostacolo fisico sembrava riuscire a fermarli. Ne aveva visti a decine che si erano precipitati dalle finestre di qualsiasi piano, sfondandole con il proprio corpo, senza curarsi minimamente dell’altezza e dei vetri. Se qualcuno di quegli Esseri, dall’alto del piano in cui si trovava, scorgeva per la strada qualche disgraziato, non esitava a lanciarsi nel vuoto. E una volta atterrato sul marciapiede, la stessa tremenda schifosa forza che lo manteneva in vita lo faceva rialzare anche dopo quelle tremende cadute. C’era anche chi si rialzava in piedi anche senza una gamba; aveva visto quegli Esseri rimettersi in piedi perfino con entrambi gli arti inferiori interamente a pezzi o lussati.
Ne aveva visto persino un paio camminare sui propri moncherini e afferrare un anziano barbone ancora troppo sbronzo per potersi rendere conto di quello che stava accadendo. Il vecchio, sporco e lacero, era stato riportato alla realtà della propria morte quando, cioè, il primo Essere gli aveva strappato un pezzo di guancia con un morso: Questi aveva ingerito tutto, compresa la lurida barba ancora attaccata a quel pezzo di carne.
L’uomo aveva assistito all’attacco come se si fosse trattato di un sogno: inizialmente, vedendo quella decina di Esseri dirigersi verso di lui, era rimasto impietrito, senza trovare la forza né di alzare la scure né di caricare la pistola e puntarla verso di Loro.
Ma improvvisamente Loro avevano cambiato direzione. Aveva capito immediatamente il perché: più vicino c’era un’altra preda, il barbone appunto.
L’uomo non si era nemmeno accorto della sua presenza, ricoperto com’era da numerose scatole di cartone. Di certo stava ancora dormendo, anche se non sapeva come potesse ancora farlo in condizioni del genere. Soprattutto, come poteva farlo ancora per la strada? L’uomo si domandava come mai quel barbone si fosse trovato ancora all’aperto, non preoccupandosi invece di trovare un rifugio sicuro.
Ma questo improvviso cambio di bersaglio gli aveva salvato la vita, e Loro non erano stati impediti da quelle scatole. Forse non avevano nemmeno bisogno di vedere. Sapevano già che il barbone era là, più vicino di quanto si trovasse, invece, lui.
L’uomo non era rimasto a osservare oltre lo spettacolo: ne aveva già visti a decine uguali anche se con protagonisti diversi; l’unica cosa cui non riusciva ancora a fare l’abitudine era le grida dei mangiati vivi. Ma per quelle bastava correre il più lontano possibile dalla loro fonte. E poi sapeva benissimo che per tutti quelli che erano stati morsi, non c’era più nulla da fare. La sola cosa che poteva fare per ogni vittima era augurare loro una fine rapida; ma era impossibile che fosse anche indolore. Per lo meno le urla dei bambini erano quelle che avevano minor durata: nel loro caso c’era molta meno carne da mangiare rispetto a un adulto. Ormai ciò che mai aveva gradito al cinema era diventato realtà nella sua realtà: un’enorme pellicola horror che sembrava aver avvolto nel suo nero e nel suo sangue l’intera città; forse l’intero pianeta.
Ma non volle più pensare a questo: ormai era lui, sé stesso, il solo pianeta che ancora esistesse. Ciò che semplicemente doveva fare era continuare la propria preservazione. Finora ci stava riuscendo, ma erano passati solo pochi giorni, forse una settimana.
L’uomo poggiò la sua grande ascia per terra, ma continuò a stringerne il manico.
La pistola gli rimase in tasca.
L’ascia era pesante e non lo faceva andare veloce come avrebbe voluto. Ma era un’arma che, a differenza dell’altra, non si scaricava mai. Non poteva liberarsene.
Non aveva avuto il tempo di cercarne un’altra più pratica e leggera, inoltre non avrebbe saputo dove andarla a prendere; prima di questi dannati giorni non aveva mai posseduto un’arma. Restò a osservare per qualche secondo la lama insanguinata della scure: il rosso che la circondava non era dei maiali o degli agnelli per i quali poteva essere usata di solito.
Tuttavia non riusciva a pensare a quel sangue come se fosse sangue umano.
Sollevò immediatamente lo sguardo da terra e cominciò di nuovo a guardarsi intorno con il solito terrore. Forse questo non sarebbe stato così grande se non avesse nutrito ancora una qualche speranza: nelle ultime ore gli era venuta più di una volta la tentazione di mollare ogni cosa e lasciarsi ghermire. Ma il suono delle urla di coloro che erano stati presi gli faceva ancora muovere le gambe; doveva guardarsi anche da coloro che non avevano avuto la fortuna di essere stati completamente mangiati; se non altro, per questi ultimi, tutto era già finito. Ma ne aveva visti a decine cadere per mano loro e poi rialzarsi nella nuova maledetta forma di vita.
Non sapeva ancora bene da quanto avesse smesso di correre; non sapeva nemmeno da quanto stava correndo, e nemmeno verso quale direzione. L’unica prova della sua fatica era il sudore che continuava a colargli dalla fronte e che gli si appiccicava sui capelli. Forse per quel giorno se lo chiese per la prima volta:
“Ma dove diavolo sto andando?”
Si asciugò la fronte con la mano, ma questo non gli sembrò sufficiente: tirò la manica della sua maglietta e passò anche questa sul sudore. Rimase a osservarla: in tempi normali quella maglietta sarebbe già stata da tempo nell’immondizia. Ma ora aveva terrore perfino di entrare in un semplice negozio, anzi, in un semplice ambiente, qualunque esso fosse.
Riprese a camminare lentamente: non sollevò nemmeno la scure da terra, ma continuò a trascinarla lungo l’asfalto. Smise solamente quando il rumore dell’acciaio sulle pietre cominciò a diventare insopportabile.
Si poggiò la scure sulle spalle e riprese ad avanzare.
Le macchine sulla strada cominciavano a diventare più fitte, ma nessun rumore proveniva dalla strada. Eppure si sarebbe aspettato, per lo meno, di trovare ancora qualche motore acceso: non sarebbe stato certo la prima volta.
Un enorme tragico incidente gli si presentò davanti agli occhi: una ventina di autovetture si erano scontrate l’una con l’altra, ingombrando completamente l’incrocio che vide proprio davanti a sé. Stavolta le tracce umane erano proprio ben visibili, ma non si sarebbe potuto aspettare altrimenti: le macchine e la strada erano completamente imbrattati di sangue, come se in quei pochi metri quadrati si fosse verificata una tonnara.
Dovette resistere a moltissimi impulsi che in quel momento gli venivano in mente; non poteva rischiare di ficcare il naso in una di quelle auto: per quanto ne sapeva potevano non essere completamente vuote; e poi, anche se avesse potuto metterne in moto una, le condizioni di ogni strada non permettevano certo una circolazione molto agevole.
Certo se avesse potuto mettere le mani su di una motocicletta le cose sarebbero state diverse; ma tutte quelle che fino a quel momento aveva trovato non erano in grado di muoversi, oppure semplicemente non era in possesso delle chiavi per metterle in moto. Gli venne in mente quanti di quei piccoli oggetti di metallo potessero essere state inghiottite inavvertitamente da Loro.
Si mise a ridere per questa immagine mentale, ma la sua risata sguaiata lo spaventò. Gli sembrò quasi che potesse essere sentito fino all’altro lato della città. Ma la lucidità sulla realtà lo fece calmare quasi immediatamente.
Sorpassando quel maledetto groviglio di lamiere e motori cercò di tenersi il più possibile vicino alle mura dei palazzi: in questo modo avrebbe avuto un lato in meno da difendere, un lato in meno dal quale poter essere attaccato. Osservando quei rottami da più vicino vide che nemmeno stavolta poteva contare su di una qualsiasi moto. Ne vide una distrutta, coricata su un lato: sotto di essa vi erano ancora due gambe che erano state strappate al corpo del proprietario. Non si chiese nemmeno dove fosse il resto del cadavere: lo sapeva già.
Il sangue era secco, e le numerose mosche presenti sui miseri resti del motociclista e di altri sfortunati erano le uniche cose ancora vive che aveva visto finora in quel giorno.
“Oggi è Giovedì? O Venerdì?” sputò in terra mentre cercava di farsi tornare in mente il giorno della settimana. I suoi occhi si diressero verso un orologio digitale da parete, posto sull’insegna di una farmacia. Ma l’insegna era spenta.
«Credo che sia Venerdì, oggi meglio che non mangi carne» solo dopo aver detto questa frase a voce alta si rese conto di aver cominciato a parlare da solo. Meccanicamente si portò una mano alla bocca per tapparsela.
Una volta superate le macchine, la strada era diventata di nuovo sgombra. Se non ci fosse stato tanto sangue sull’asfalto l’uomo avrebbe potuto pensare che fosse una semplice mattinata ancora inghiottita dai pochi resti delle tenebre che pian piano si stavano diradando. La scure cominciava a farsi pesante, anche per via della notte passata in bianco all’interno di un’autorimessa.
Perché era uscito abbandonando quel rifugio, fino a quel momento abbastanza sicuro?
Il cibo e l’acqua erano la risposta, e rimanevano le uniche cose di cui si aveva ancora e davvero bisogno. E poi non era proprio il caso di rifugiarsi in una costruzione con una sola via di uscita, uscita che automaticamente si poteva anche trasformare nel varco per il loro ingresso.
Non sapeva spiegarsene bene la ragione, ma si sentiva molto più sicuro all’aperto.
E poi non aveva ancora trovato cibo né l’acqua.
Nella mattinata aveva fiancheggiato parecchi supermercati e negozi di alimentari, ma avevano tutti le saracinesche abbassate o il loro interno era troppo buio per potersi avventurare dentro. La luce li attirava, e poi una semplice pila elettrica non sarebbe certo bastata ad illuminare l’intero ambiente e osservare gli eventuali pericoli. La sola speranza che aveva era quella di trovare un piccolo centro commerciale o esercizio ancora illuminato dalla luce elettrica.
Per lo meno la mattinata era mite, le nuvole sembravano anch’esse rintanate come se volessero unirsi alla fuga da quella pazzia che aveva invaso la città. Il sole cominciava a riflettersi sui vetri e sui frammenti metallici presenti sulla strada.
Purtroppo quegli Esseri non erano vampiri; potevano girare durante il giorno, e ciò che poteva vedere lui, lo potevano vedere anche Loro. Man mano che la luce aumentava, cresceva anche il terrore dell’uomo. La mano gli scivolò nella tasca, quasi a cercare il contatto rasserenante con la pistola. Sbagliò tasca, si passò la scure nell’altra mano, per avere l’accesso alla tasca corretta.
“Anche degli altri proiettili mi farebbero certo comodo”.
Prima di quei giorni non aveva mai nemmeno toccato una pallottola. Anche ricaricare quell’arma era stato tutt’altro che semplice; nel negozio di caccia e pesca dove l’aveva presa aveva optato per la pistola che più di tutte appariva nei film: la calibro 45.
In quel momento rimpianse di non essersi impadronito di qualcosa di più pesante e di maggior calibro. E anche il fatto di aver lasciato il suo rifugio. Disgraziatamente per lui il negozio non era per niente ben fornito; certo il suo proprietario aveva provveduto a portarsi via la maggior parte delle armi e dei proiettili. Aveva notato che tutte le attrezzature da pesca erano ancora al loro posto. In ogni caso si sentiva abbastanza fortunato ad aver almeno trovato un’arma che funzionava. I manichini del negozio erano stati degli ottimi bersagli per i tiri di prova. L’uomo sapeva di non essere certo un tiratore alla Buffalo Bill, ma con Loro, con quegli Esseri in circolazione, non occorreva certo né essere dei fenomeni con le armi né essere leali: un colpo in testa anche da vicino risolveva tutto.
Si ricordò dei numerosi film visti sull’olocausto in cui i nazisti sparavano in testa agli ebrei inermi e inginocchiati: il principio era lo stesso.
Forse nemmeno il cibo sarebbe stato così fondamentale se solo avesse avuto l’acqua. L’uomo ripensò alle bottiglie di plastica acquistate con noncuranza nel negozio sottocasa centinaia di volte. Eppure non si ricordava il prezzo di nessuna bottiglia di nessuna marca. Ripensò all’acqua che scorreva mentre si lavava i denti e alle numerose docce delle quali sentiva la mancanza: non si era mai sentito così sporco come quel giorno.
Ma la paura lo riportò alla realtà. Si accorse che aveva continuato a camminare osservando il cielo, appena ritornò con la mente a ciò che davvero stava accadendo si fermò e si guardò ai lati e alle spalle.
“La devo smettere di fantasticare così”. Stavolta si asciugò la fronte con la parte di davanti della maglietta.
Stava per ritornare indietro; era indeciso se tagliare per la via parallela o se ripercorrere la stessa strada a ritroso; optò per la prima scelta, in questo modo avrebbe potuto trovare un posto nel quale approvvigionarsi.
La stessa città nella quale era nato e nella quale aveva vissuto finora le sembrava adesso irriconoscibile. Anche i nomi letti agli angoli delle strade gli sembravano solo tante scritte di lapidi. Decise di girare a sinistra.
Aveva sentito il detto che, nel dubbio, bisogna sempre andare in quella direzione; questa massima gli aveva risolte non poche situazioni. Non aveva il minimo dubbio che si trattasse di una sciocchezza, eppure la mise in pratica anche stavolta.
Immediatamente gli sembrò di aver fatto la cosa giusta anche quella volta: di fronte ad una banca trovò una moto potente parcheggiata. Riusciva solo a leggere il nome della casa di produzione; non si era mai inteso di motori, a malapena sapeva guidare, tanto che raramente prendeva la macchina, perfino quando doveva andare a lavoro. Solo per qualche secondo la sua mente viaggiò fino ai suoi colleghi. Tuttavia non si chiese nemmeno se fossero o no ancora vivi. Il pensiero non l’aveva nemmeno sfiorato per quanto riguardava la sua stessa famiglia.
Si avvicinò al veicolo di colore rosso. Rise di nuovo vedendo che il casco ancora era posizionato in perfetto ordine sopra il sellino. Nessuno a parte lui avrebbe potuto rubarlo. La moto non era imbrattata di sangue e sembra nuova. Ciò lo meravigliò enormemente, non per lo stato della stessa, quanto per il fatto di aver finalmente trovato qualcosa non ancora caduta nelle loro mani. Forse la sua fortuna stava finalmente cambiando: le chiavi erano ancora inserite nel quadro. Si girò ad osservare la porta della banca; l’equazione era abbastanza semplice: il vecchio proprietario era ancora al suo interno, morto o vivo, forse entrambe le cose. Un brivido gli percorse la schiena, gettò a terra il casco mentre meccanicamente stava quasi per allacciarselo. Lo guardò rimbalzare quattro volte prima di fermarsi quasi al centro perfetto della strada.
«Vaffanculo anche tu» accompagnò l’esclamazione con un altro sputo, questa volta diretto contro il muro.
Riuscì a mettere in moto al primo tentativo, cosa che lo stupì alquanto. Si era fatto tutto un altro film in testa, come quello della chiave rotta dentro il quadro. L’uomo avvertì le sue labbra muoversi per formare una specie di sorriso; non si ricordava quando era stato l’ultima volta che l’aveva fatto. Si sedette sul sellino e provò a partire. La scure gli creava un notevole ingombro, non sapeva dove metterla ma non aveva nemmeno intenzione di liberarsene; era troppo preziosa per anteporre la comodità alla sua utilità; alla fine la infilò all’interno della maglietta, lasciando la testa della scure all’esterno, in questo modo non avrebbe corso il rischio di farsi male.
La moto era pesante, prima che riuscì a mollare i freni il peso del veicolo lo fece piegare sul lato destro e cadere per terra. Restò con la gamba destra bloccata tra l’asfalto e la moto che era rimasta accesa.
L’uomo lanciò una bestemmia. Ancora una.
Restò spossato per qualche secondo, non tentò nemmeno di liberare subito la gamba. Poggiò la testa sull’asfalto per tirare il fiato.
Era passato solo qualche secondo, ma all’uomo sembrarono parecchi minuti.
Il rumore del motore non gli impedì di udire un altro suono a poca distanza da lui. Era il rumore di un qualcosa di metallico che veniva trascinato lentamente. Per sua fortuna il motoveicolo non gli impediva la visuale in alcun modo, capì immediatamente che questo rumore veniva dalla sua destra. Allungò la mano e girò la chiave in senso inverso. Il motore si spense. La gamba era ancora incastrata, cercò di tirarla fuori ma al primo tentativo non ci riuscì.
Il rumore si stava facendo sempre più forte, l’uomo non osava nemmeno provare a chiamare, non si faceva la minima illusione sul fatto che fosse uno di Loro. Solo non riusciva a capire a che distanza si potesse trovare. Il panico lo raggiunse quando gli venne in mente che poteva essere anche più di uno. Quelli che finora aveva visto si muovevano in gruppi più o meno numerosi. La sua attenzione si diresse solo verso la gamba.
«Andiamo maledizione, tirati fuori» continuò ad imprecare e a tirare. Finalmente la gamba venne fuori dalla moto, ma i pantaloni si erano strappati. In quello stesso istante Loro erano sbucati dall’angolo. Erano in sette.
Il rumore che l’uomo aveva sentito veniva causato da una bicicletta. In altre occasioni quella scena l’avrebbe fatto ridere e guardare con disgustata commiserazione il protagonista che la metteva in atto: uno di Loro aveva la gamba imprigionata nel telaio della bicicletta e la trascinava man mano che camminava.
L’uomo aveva indietreggiato di qualche passo e aveva provveduto ad estrarre dalla maglietta la sua scure e la pistola. Loro erano a circa trenta metri di distanza, ma continuavano ad avanzare. Solo l’istinto di sopravvivenza dell’uomo lo fece indietreggiare ancora. Un rapido sguardo alla moto lo convinse che non sarebbe riuscito a rimetterla in piedi e accendere il motore in tempo per fuggire.
Quegli Esseri indossavano tutti degli abiti da ciclista. Non vi era nessun dubbio che fossero dei Loro, il colore grigio-bluastro della pelle, i mugolii e la completa assenza di una luce umana dai loro occhi non lasciava spazio a nessun errore. Sembrava quasi che nemmeno lo guardassero, le loro pupille sembravano girate all’indietro, e anche lo sguardo sembrava mirare in alto.
Eppure i loro passi erano diretti verso di lui.
Tutti quegli Esseri portavano delle ferite, di morsi, ad uno di Loro mancava perfino una mano; ma quella che suscitava più impressione all’uomo era la ferita riportata da quello imprigionato nella bici: gli mancava completamente la mascella ed entrambe le file dei denti. La ferita non perdeva sangue, ma si vedeva chiaramente la carne che era diventata di color viola scuro.
Se non altro quest’ultimo non avrebbe potuto morderlo. Ma di certo la sua fame non era inferiore a quella degli altri sei.
Tutti lanciavano dei mugolii molto alti, ma l’uomo non restò ad ascoltarli né ad aspettarli. Si gettò correndo nella direzione opposta alla loro, ma non fece molta strada. Si era voltato con troppa irruenza, nella strada in leggera discesa mise male il piede procurandosi una storta a quello sinistro. Cadde nuovamente a terra trascinando con se la scure. Per un qualche miracolo non si era ferito né con la caduta dalla moto né con quest’ultima. Sentì immediatamente il piede che si gonfiava, si rimise subito in piedi ma non riuscì a poggiarlo in terra. Iniziò a barcollare per il dolore, cominciò anche a vedere come delle luci gialle che gli apparivano improvvisamente davanti agli occhi.
Non si accorse di svenire non appena cercò di nuovo di scappare.
Si risvegliò dopo pochissimi secondi; involontariamente erano stati Loro a fargli riprendere i sensi.
Tutto durò ancora altrettanti pochissimi attimi.
L’uomo non pensò al fatto che già poteva essere stato morso, a quello avrebbe potuto pensare successivamente.
Uno di Loro gli aveva già afferrato la gamba infortunata e si apprestava ad addentarla. Gli altri sei non avevano ancora avuto il tempo di potersi chinare verso di lui.
L’uomo non perse tempo, con la gamba sana, a sferrare un calcio al viso dell’Essere che gli stava sopra.
Gli sembrò come di dare un calcio ad un castello di sabbia.
Il pesante stivale penetrò per qualche centimetro nella tempia dell’Essere. L’uomo sapeva che era proprio la testa il loro punto debole; l’Essere cessò improvvisamente di muoversi. L’uomo lo gettò immediatamente da parte, rimettendosi allo stesso tempo in piedi. Guadagnò dei pochi passi necessari ad allontanarsi maggiormente. In un piccolo lampo di lucidità riuscì perfino a raccogliere la scure da terra, si girò e riprese ad allontanarsi, usando l’arma come una sorta di stampella improvvisata.
Era impensabile che il piede fosse migliorato in quei pochi secondi che era rimasto svenuto, ma il dolore che provò appoggiando l’arto di nuovo per terra gli diede una scossa ulteriore. Per sua fortuna era quello l’unico dolore che sentiva nel corpo, segno questo che nessuno di Loro aveva fatto in tempo a morderlo.
La pena era grande, ma lo era altrettanto il suo istinto di sopravvivenza. Oramai lo poteva salvare solamente la costanza, dato che aveva perso uno dei pochi vantaggi che aveva sugli esseri: la velocità.
All’uomo venne quasi da piangere, la fortuna che sembrava essersi improvvisamente schierata dalla sua parte sembrava essersi definitivamente allontanata.
Gli rimaneva una sola speranza per sopravvivere: rifugiarsi al più presto da qualche parte; restare ancora in strada avrebbe significato per lui morte certa. Non aveva bisogni di voltarsi per rendersi conto che quegli Esseri ancora lo seguivano; oltre ai loro eccitati mugolii, continuava a sentire l’odioso rumore della bicicletta che veniva trascinata sull’asfalto. Ora i suoi occhi cercavano per la via una casa nella quale rifugiarsi.
Non dovette percorrere nemmeno cinquanta metri; a poca distanza da lui vide un edificio che era ancora illuminato dalla luce elettrica. Il giorno era arrivato quasi nella sua completezza, ma riuscì ugualmente a distinguere quelle luci.
Finalmente una piccola oasi di modernità.
Sembrava anche un edificio pubblico, restava solamente da appurare se la porta d’ingresso fosse o no sbarrata.
L’edificio si trovava dall’altro capo della via, dovette attraversare disegnando una sorta di ipotenusa per non perdere terreno nei confronti di quegli Esseri.
Nonostante zoppicasse e il dolore non faceva che aumentare, l’uomo era riuscito a mettere ulteriore distanza tra se e Loro.
Appena fu vicino all’edificio si accorse che le finestre avevano delle strane decorazioni: in ognuna di esse c’erano delle lettere dell’alfabeto colorate e numerosi disegni della Disney o dei più recenti anime giapponesi.
Era capitato in una scuola materna.
L’uomo pensò che sarebbe stato più sicuro all’interno di un palazzo, ma in quelle condizioni non avrebbe potuto percorrere camminando le scale fino a che non avesse trovato un appartamento nel quale poter entrare, un appartamento con il portone di ingresso ancora aperto. In quelle condizioni, poi, non sarebbe stato capace nemmeno di sfondare una porta.
Percorse gemendo i tre scalini che lo portarono al portone d’ingresso, un portone che si trovava appena dietro ad una porta a vetri. Entrambi erano aperti.
L’uomo non aveva abbandonato le sue armi, poco prima di varcare la soglia dell’edificio ebbe la tremenda tentazione di voltarsi e fare fuoco contro quegli Esseri. Anche Loro avevano seguito la sua traiettoria, ed erano subito dietro di lui. Stava già per premere il grilletto, dopo aver mirato alla testa del più vicino, quando improvvisamente si ricordò della scarsità di munizioni.
“Sarà meglio che mi barrichi dentro, invece”. Soppesò la pistola nella mano libera e se la rimise in tasca. Sarebbe giunto anche il momento di utilizzarla. Cominciò a rimpiangere persino le pallottole usate per compiere quei pochi tiri di pratica all’interno del negozio di caccia e pesca.
Una volta dentro si accorse che tutte le luci dei corridoi erano accese, anche quelle delle classi che non avevano la porta chiusa. Si diresse sempre strisciando i piedi verso l’aula più vicina. L’idea era di barricare il portone, sapeva che la porta a vetri non avrebbe retto che pochissimi minuti. Tuttavia non aveva esitato a sbarrare bene entrambi gli ingressi, anche quei pochi minuti potevano essere vitali.
Ormai anche quest’aggettivo, vitale, cominciava a sembrargli obsoleto.
Lasciò cadere l’accetta per terra e continuò a procedere poggiando le mani al muro; per quello che aveva in mente gli occorrevano entrambe le mani.
Una volta entrato dentro l’aula, l’uomo si rese conto che non erano tantissime le cose che potevano servigli. Più che altro aveva bisogno di grandi tavoli, ma all’interno della classe l’unico che poteva essere utile al suo scopo era solamente la cattedra dell’insegnante; il resto dei banchi era di dimensioni molto ridotte e fragile. Avrebbe certo dovuto farsi il giro delle classi per accumulare un numero sufficiente di cattedre.
Questo per lui significava una fatica ancora maggiore di quella che aveva previsto.
L’asilo sembrava abbastanza grande, c’erano altri due piani, ma l’uomo si sarebbe dovuto accontentare di quello che avrebbe trovato nel primo. Portò fuori la cattedra da quell’aula spingendola fino al portone. Rovesciarla e poggiarcela contro fu una cosa alquanto semplice.
Fece il giro di altre tre aule ripetendo la stessa operazione.
Nel frattempo iniziò a sentire Loro che iniziavano ad attaccare la porta a vetri. Cercò di non badare ai colpi sordi e ritmati; ancora non riusciva a sentire le loro voci, il portone lo proteggeva dalla loro presenza, dalla loro vista e dai loro tremendi mugolii.
Decise che non era il caso di procurarsi altri tavoli; quelli che aveva accatastato davanti al già massiccio portone di legno erano più che a sufficienza; inoltre aveva rafforzato la barricata improvvisata anche con qualche sedia. Si sedette sopra una di queste dando le spalle alla porta; sapeva dei pericoli che c’erano fuori, ma non sapeva ancora se ne avrebbe trovato anche là dentro.
Una volta seduto il dolore ritornò in forme ancora più massicce. Sentiva il sangue palpitare nel suo arto inferiore e il cuore pulsare tanto da fargli male sia nel piede dolorante sia nel petto. Ormai stava facendo il callo anche alla paura.
Si aspettava che nemmeno l’interno dell’edificio fosse sicuro, ma in quel momento non aveva per niente la forza di visitare ogni ambiente ed accertarsene. Poggiò la pistola sulle sue ginocchia e restò con l’accetta a portata di mano. Indugiò in quella posizione per una decina di minuti.
Quelli fuori continuavano a martellare il povero vetro, senza riuscire ancora a sfondarlo; dalla sua l’uomo aveva il fatto che Loro non avevano la capacità di procurarsi degli attrezzi con i quali facilitare l’assedio.
Passati dieci minuti si slacciò la sua scarpa da tennis nera e bianca e si sfilò la calza di spugna:
“Forse non dovrei farlo; se il piede si dovesse gonfiare ulteriormente non so se dopo riuscirei di nuovo ad infilarmi la scarpa” aveva pensato prima di compiere tale operazione.
Tuttavia l’impellente desiderio di verificare il suo infortunio era di gran lunga superiore alla paura di ciò che poteva verificarsi con il suo gesto. Appena svolta l’operazione il suo volto sembrò rasserenarsi: il piede era gonfio, ma non in maniera così tremenda, come si era immaginato che fosse. Il livore era però abbastanza esteso, con un po’ di ghiaccio si sarebbe certo potuto lenire, ma sarebbe stato già fortunato se avesse potuto trovare dell’acqua. Il fatto però che questo posto conservasse ancora l’energia elettrica poteva significare che, forse, il frigorifero della cucina e della mensa per i bambini potesse essere ancora funzionante.
Questo significava dover salire fino ai piani superiori. Ma per quest’operazione poteva benissimo usare l’ascensore. Esisteva sempre il rischio che la corrente potesse andare via da un momento all’altro, come era capitato in tutti gli altri edifici nei quali era stato finora, ma che questo accadesse nell’arco dei pochi secondi che gli sarebbero occorsi per cambiare piano era davvero impensabile.
Per prima cosa, tuttavia, doveva controllare le altre classi.
S’infilò nuovamente calza e scarpa, mordendosi il labbro inferiore per meglio sopportare il dolore. Poi gli bastarono solo pochi minuti per constatare la libertà delle aule. Nella terza classe che visitò riuscì perfino a procurarsi uno zaino; era troppo piccolo per contenere l’accetta, ma sarebbe stato perfetto per dei viveri e per delle piccole bottigliette d’acqua. Non ammirò nemmeno il tema del disegno stampato su di esso: un guerriero a torso nudo, con i cappelli celesti e con una croce rossa tatuata sul petto.
“I soliti maledetti cartoni”.
L’uomo riuscì anche ad usufruire dell’acqua dei bagni; il depuratore centrale non aveva subito danni.
Ora non gli restava che recarsi nelle cucine.
L’unico problema consisteva nel sapere se si trovavano al primo o al secondo piano; qualche secondo di riflessione lo spinse a credere che si trovavano al secondo: nelle scuole che aveva frequentato lui, mensa e cucina erano sempre all’ultimo piano.
Una volta dentro, pigiò il tasto “2” dell’ascensore.
Anche il secondo piano era illuminato, ma le porte degli ambienti era tutte sbarrate. Restò con la pistola in pugno; non sapeva se questo fosse o no un brutto segno. Si accostò alla porta più vicina e fece per girare la maniglia; doveva procedere a tentativi per trovare la cucina.
Un rumore improvviso gli gelò il sangue: rimase con la mano ancora poggiata sulla maniglia abbassata, ma non spinse la porta.
Il rumore si ripeté.
Era un suono che aveva sentito poc’anzi.
Qualcuno stava accostando ad una porta degli oggetti.
Era lo stesso rumore che aveva causato lui quando poggiava le cattedre al portone principale.
C’era qualcuno in questo piano, qualcuno che si stava barricando in una delle stanze, un qualcuno che l’aveva sentito arrivare.
Si osservò le scarpe: non gli sembrava di aver fatto eccessivamente rumore, ma chiunque si trovasse in quella stanza aveva le orecchie bene allerta. Smise con le sue operazione di esplorazione, l’uomo si diresse verso la porta dalla quale aveva sentito il rumore. I suoi passi risuonavano leggeri, ma chiunque ci fosse dietro quella porta continuava ad avere le orecchie ben tese; il rumore cessò improvvisamente.
L’uomo arrivò nei pressi della porta; provò ad aprire ma la porta non si mosse di un solo millimetro. Era naturale.
«Maledizione! Porca puttana!» non fece niente per trattenersi da questa imprecazione. Non gli importava che chi fosse dentro potesse sentirlo; in fin dei conti sapeva già benissimo che lui si trovava là. Ma non era questo che ora lo preoccupava: sulla porta c’era una targhetta nella quale stava scritto “Cucine”. Chiunque fosse si era rintanato nell’unico ambiente che serviva all’uomo.
Si sforzò di esprimersi con una voce più dolce possibile.
Erano parecchi giorni che non parlava con altri esseri umani.
L’importante era riuscire a far sì che, chiunque fosse là, si potesse fidare di lui.
Poteva trattarsi di un insegnante, di una maestra, ma anche di un cuoco o di una bidella.
Quello che era certo è che non era uno di Loro. Altrimenti il suo comportamento sarebbe stato tutt’altro.
Potevano essere anche più di uno.
Delicatamente bussò utilizzando il manico dell’accetta:
«C’è qualcuno? State bene là dentro? Sono uno dei sopravvissuti. Aprite vi prego.» Riascoltò il suono della sua voce: gli sembrò di essere stato abbastanza dolce. Non che gli importasse davvero che stesse bene, ma certo era una frase che serviva allo scopo. Col sennò di poi pensò che si sarebbe anche potuto risparmiare quel “ti prego”, non era certo una frase adatta ad infondere sicurezza e tranquillità.
Restò in attesa della risposta che non venne.
Poggiò anche l’orecchio alla porta ma continuò a non sentire nessun tipo di rumore. Anche il movimento dei mobili trascinati non era ripreso, forse la barricata era già stata terminata.
La pazienza dell’uomo non era tanta, non lo era mai stata nemmeno in tempi migliori. La mano prese a stringere il manico della scure con maggior forza. Se quella stanza non fosse stata la cucina molto probabilmente avrebbe lasciato perdere. Ma i viveri e il ghiaccio erano troppo importanti. Con un orecchio continuava ad ascoltare anche i rumori provenienti dai piani inferiori; non sembrava esserci niente di anormale, anche se i colpi alla porta d’ingresso continuavano imperterriti e a cadenze regolari. Il vetro era risultato essere più resistente del previsto. L’uomo cercò con cura le parole da rivolgere di nuovo alla persona barricata.
«Non ho alcuna intenzione di farle del male. Ma ho preso una storta al piede destro e mi serve del ghiaccio. Ho visto che qui avete ancora l’elettricità. Il vostro frigorifero funziona, non è così? – fece un piccola pausa ancora per ascoltare. Niente risposta. Allora mentì. – non ho alcuna intenzione di prendere né del cibo né dell’acqua. Ho già tutto quello che mi serve e in abbondanza. Sono anche armato, in cambio del ghiaccio potrei lasciarti una delle mie pistole. Noterai certo che ancora non l’ho utilizzata. Questo dovrebbe rassicurarti sulle mie intenzioni». L’uomo non si avvide che, meccanicamente, aveva impugnato la scure con entrambe le mani. Il piede infortunato, invece, veniva mantenuto ancora sollevato. Tutto il peso del suo corpo gravava sulla gamba sinistra. Pensò se fosse il caso di prendere la sedia e continuare la trattativa in una posizione più comoda. Decise che era una buona idea, si recò nella stanza più vicina (che risultò essere la mensa) e prese una sedia dal tavolo che doveva essere quello degli insegnanti. In meno di un minuto si trovò nuovamente nei pressi della porta. Posò lo zainetto in terra ma tenne la scure sulle ginocchia. Non sapeva se la persona dentro fosse armata o meno, altrimenti avrebbe già provveduto a sfondare la porta. Chiamò nuovamente ma non gli giunse alcuna voce.
Il tempo si stava esaurendo, così come la sua pazienza. Improvvisamente, dai piani inferiori, sentì quel rumore che sapeva prima o poi avrebbe sentito: il vetro della prima porta aveva ceduto. Il primo baluardo era crollato, anche se si trattava di quello meno resistente. Di certo quegli Esseri si erano feriti con i vetri, ma questo non procurava all’uomo nessun tipo di vantaggio.
Ci voleva ben altro per fermarli.
Il portone con le cattedre avrebbe fornito tutt’altro tipo di resistenza. Ma ora anche lui doveva agire.
Mille pensieri gli giunsero tutti insieme. Come avrebbe poi fatto ad uscire, a scappare? Sarebbe rimasto bloccato all’interno della scuola? È vero che di proiettili ne aveva a sufficienza, almeno per quelli in strada, ma cosa sarebbe successo se a Loro se ne fossero aggiunti altri? Anzi, ancora, cosa sarebbe successo se fossero riusciti ad entrare? Ormai il fatto di essersi rifugiato all’interno di un edificio non gli sembrò più una buona idea. Improvvisamente si ricordò del perché non l’aveva mai fatto, ma stavolta non aveva potuto comportarsi altrimenti. Ora doveva assolutamente entrare in quella dannata cucina. Fece un ultimo disperato tentativo, poi avrebbe provveduto con altri metodi.
«Senta, io la posso aiutare. Laggiù ci sono di quegli Esseri e io sono bene armato. Mi faccia entrare, io prenderò il ghiaccio e me ne andrò. Non dobbiamo stare per forza insieme. Sarà una questione di pochissimi attimi, poi non ci vedremo mai più» sapeva di non poter mantenere quello che stava dicendo, ma non voleva buttare giù quella porta. Ormai si era convinto che chi fosse dentro non fosse armato, altrimenti l’avrebbe in qualche modo manifestato. Ma la porta avrebbe potuto servirgli se fosse stato costretto a restare in quell’ambiente e a barricarcisi dentro. Calarsi dal secondo piano non sarebbe stata un’impresa così grande, una volta ristabilitosi con il piede.
A questo punto non poteva più aspettare.
I rumori dal basso si facevano sempre più insistenti. Loro erano eccitati, si sentivano più vicini alla loro preda, anzi, forse si erano già resi conto che le prede potevano essere due invece che una sola; i colpi verso il portone erano più forti di prima.
L’uomo credette di aver sentito una delle scrivanie cadere dalla barricata.
Mise da parte ogni indugio. Sollevò l’accetta con entrambe le mani e abbatté il primo colpo contro la porta. Non sperava certo di farla cedere al primo tentativo, quindi continuò con vigore a colpire sempre lo stesso punto. Anche se la porta sarebbe stata distrutta avrebbe potuto, poi, sostituirla con una di quelle delle altre stanze. Aveva notato che erano tutte uguali, dello stesso colore celeste e medesimo modello. Aveva anche smesso di parlare, ormai la sua concentrazione era tutta rivolta verso i colpi.
In meno di cinque minuti creò un varco abbastanza largo da poter passarci attraverso. Il problema riguardava il gran numero di mobili ammucchiati dall’altra parte della porta. Erano pesanti e non avrebbe potuto spingerli via dalla posizione in cui si trovava; avrebbe dovuto scavalcarli. L’uomo si guardò il piede ancora una volta. Il dolore non l’aveva certo lasciato ma la paura sembrava fungere da anestetico temporaneo. Con un balzò penetrò nella stanza, facendo attenzione ad atterrare con il piede ancora sano.
L’uomo aveva poggiato la scure per terra, ma stringeva in mano l’altra arma, puntandola in ogni parte della stanza senza, però, riuscire a vedere nessuno. Le luci elettriche erano, qui, spente, ma la luce del mattino era più che sufficiente da rendere visibile tutto l’interno della stanza. L’attenzione dell’uomo si rivolse verso l’enorme frigorifero che era stato spostato dal muro. Forse chi c’era nella stanza avrebbe voluto poggiarlo contro la porta ma non era riuscito nel suo intento. Se anche il frigorifero fosse stato un suo ostacolo l’uomo non avrebbe certo potuto entrare, nemmeno dopo aver buttato giù la porta.
La cucina non era molto grande, chi c’era dentro era certo nascosto dietro il frigorifero, non vi era nessun altro posto che potesse celare una figura umana, nemmeno un bambino. Senza abbassare l’arma, l’uomo arrivò di fianco al grigio elettrodomestico. Era uno di quei modelli a due porte.
La pistola rimaneva sempre puntata davanti a lui finché non arrivò a vedere la persona che si era chiusa dentro e che ora si nascondeva, inutilmente.
Appena vide di chi si trattava abbassò subito l’arma: pensò si trattasse di una maestra, indossava un grembiule arancione e l’uomo si accorse che poteva avere circa cinquant’anni. Portava gli occhiali e i capelli corti e castano chiari, ma, ad un occhio attento, non potavano sfuggire i primi segni della ricrescita. La donna non si era nemmeno voltato a guardarlo, l’uomo la osservò attentamente in cerca di qualche segno di morsi; ma a prima vista non ne vide alcuno.
Le si pose davanti, e subito alzò nuovamente la pistola.
Alla donna mancava un intero braccio.
Dalla sua precedente posizione non aveva potuto vederlo perché la mutilazione rimaneva nascosta dal corpo di lei. L’uomo scorse i segni dell’infezione, ovvero la carne che non perdeva sangue ma che stava assumendo la tipica colorazione violastra.
Per la stanza si sentiva anche l’odore della putrefazione.
Si chiese come mai non si fosse ancora trasformata, ma non sapeva quando e in che occasione era stata morsa e mutilata.
Improvvisamente la donna lo guardò. Non sembrava aver paura ora che l’aveva visto, ma il suo sguardo era un misto di rassegnazione e tristezza.
Poi lei guardò la pistola e subito dopo gli occhi di lui.
«Pensavo fossero…» la donna non ebbe il tempo di finire. La pistola fece fuoco aprendo un buco nella parte destra della fronte. La donna non ebbe nemmeno il tempo di lanciare un grido. Semplicemente il braccio che teneva il moncherino le scivolò nel fianco e la testa s’inclinò dal lato del foro.
«Maledetta stupida, tante storie per niente» con il piede le diede un calcio per verificarne la morte. Ebbe l’improvviso rimpianto di non aver usato l’accetta e di aver sprecato il proiettile. Non si mise nemmeno a cercare il ghiaccio, sapeva che chi l’aveva ridotta in quello stato si trovava ancora all’interno dell’edificio, quasi sicuramente nel loro stesso piano. Ma allora perché non erano ancora usciti? Perché non l’avevano aggredito? Una leggera speranza cominciò a farsi largo nella sua mente: forse la donna era stata aggredita all’esterno e si era rifugiata solo dopo nella scuola. Eppure era senz’altro una che lavorava qui.
Ormai era tardi per fare inutili congetture. Avrebbe dovuto riprendere l’ispezione di tutti gli ambienti, iniziando proprio dalla stanza nella quale stava per entrare prima che sentisse i rumori dalla cucina. Uscì senza nemmeno verificare i contenuti del congelatore.
Cominciò ad ispezionare le stanze; nelle prime due niente di anormale. Il refettorio era già stato controllato, restava solamente la stanza in fondo al corridoio. La mera speranza stava cominciando a trasformarsi velocemente in certezza: il piano era vuoto. Certo rimaneva ancora il primo piano da controllare, ma perché accollarsi ulteriori preoccupazioni? Ci avrebbe pensato a suo tempo. Per ora gli bastava solamente il trovarsi al sicuro là dov’era.
L’uomo aprì con lo stesso meccanismo la porta dell’ultima stanza: lentamente e con circospezione. Era chiusa a chiave, ma la chiave era ancora inserita nella toppa. Con la mano destra continuava a reggere la pistola, alla quale aveva anche sostituto il proiettile già sparato. Con la sinistra andò a tentoni cercando l’interruttore nella parete. Appena l’ebbe trovato lo premette: niente, la luce non si accese.
Forse quella era l’unica stanza al buio di tutto l’edificio. Ebbe il sospetto che non venisse per niente utilizzata, vista anche la sua grandezza e la scarsità di mobilio. Almeno era questo che credeva di vedere dalla scarsa luce che penetrava nel corridoio. Fece ancora un paio di passi, sempre poggiandosi sulla sua scure. Poi avrebbe pensato a cercare una stampella migliore. Fece cadere la scure a terra e si tolse lo zaino dalle spalle; aveva già provveduto e metterci all’interno la sua torcia elettrica.
La tolse fuori e la accese.
La stanza doveva essere di circa una settantina di metri quadri, lui non aveva visto nessun mobilio perché la stanza non ne aveva: poggiati alla parete in fondo c’erano soltanto una quindicina di lettini. Avvicinandosi si accorse che erano poco più grandi delle semplici culle.
Era il dormitorio dell’asilo.
I letti erano tutti rovesciati, come se qualcuno impazzito li avesse scaraventati in terra.
L’uomo si passo la mano libera asciugandosi un po’ di saliva. Non aveva dubbi sulla sorte dei bambini.
Ormai si stava abituando a quell’oscurità, anche se non in maniera definitiva, la luce della sua pila elettrica non rendeva i suoi occhi abili a vedere le cose che avrebbe potuto osservare in una totale assenza di luce. Ebbe la tentazione di avvicinarsi alle finestre in fondo ed aprirle per rendere la stanza finalmente visibile. In fondo si trattava solamente di percorrere pochi metri, anche se avrebbe dovuto superare la catasta dei lettini. Decise che il gioco valeva senz’altro la candela. Si diresse filato verso l’avvolgibile più vicina quando, puntandola di nuovo verso terra, l’uomo si accorse che la torcia illuminava dei resti umani, e il pavimento era inondato di sangue. Niente di così straordinario, si sarebbe piuttosto meravigliato del contrario. Ma improvvisamente il fascio di luce portò alla sua attenzione qualcosa che non si sarebbe aspettato di vedere: spostando la torcia sulla destra l’uomo distinse un grosso qualcosa poggiato sul pavimento.
Il corpo di un’altra insegnante.
L’uomo si chinò per osservarlo con più attenzione: la povera donna non aveva più nemmeno il viso; il resto del corpo era ricoperto da circa una quarantina di morsi. La torcia non forniva certo una luce ideale, per questo l’uomo credette di sbagliarsi credendo di vedere dei morsi molto piccoli, quasi fossero stati lasciati o da gatti o cani di piccole dimensioni.
Per quello che l’uomo poteva vedere la donna era completamente spoglia.
Il suo grembiule, ormai ridotto a brandelli, era sparso là intorno, in pezzi non più grandi di una presina da cucina.
Ma c’era qualcosa che non tornava, qualcosa che rendeva questo spettacolo diverso da quelli cui aveva assistito almeno una decina di volte : perché la donna non era stata completamente spolpata?
Il terrore lo invase come una scarica elettrica.
L’uomo capì che, entrando, aveva interrotto un pasto.
Fece dei passi indietro ma cadde in terra: senza volerlo aveva fatto leva sul piede malconcio e il suo corpo non aveva resistito a questo sforzo. La torcia gli scivolò di mano lui seguì la traiettoria della luce: la pila illuminò il braccio mancante dell’insegnante trovata in cucina.
L’uomo era circa al centro della grande sala; si mise subito in piedi e cercò di correre per guadagnare l’uscita. Ormai poggiava indifferentemente entrambi i piedi per terra, ora provare dolore era un lusso che non poteva permettersi; rovinarsi il piede sarebbe stato il male minore, era anche un calcolo facile da fare. Ma pestò qualcosa di morbido, qualcosa che lo fece di nuoco cadere a terra.
Era come se avesse calpestato un bambolotto… o un bambino.
In quel secondo che impiegò per arrivare di nuovo al pavimento capì il motivo per il quale nessuno dei letti, nemmeno un lenzuolo, era macchiato di sangue.
Non erano stati degli esterni, non uno di Loro a rovesciarli, ma coloro che ci dormivano dentro.
Capì cosa aveva tentato di dirgli quella maestra: lei non aveva paura degli Esseri fuori, ma di quelli che erano già all’interno della scuola. Bambini dei quali si era occupata fino a poco tempo fa.
Con i gomiti cercò di guadagnare l’uscita, non tentò nemmeno di rimettersi in piedi; ma sentì che qualcosa stava afferrando le sue gambe, delle piccole strette ma forti come delle tenaglie. Lanciò un urlo ma nessuna delle prese venne meno. Tentò di scalciare ma, sebbene colpisse qualcosa, sentiva che nessuno di quei piccoli esseri aveva lasciato la presa.
La pistola fece fuoco, illuminando con i lampi gran parte della stanza. L’uomo mirava nella direzione dove sentiva le sue gambe prigioniere.
Tutti e sei i proiettili.
Riuscì a colpire quattro dei piccoli Esseri che si stavano chiudendo verso di lui, ma solo due di Loro vennero colpiti alla testa. Gli altri dodici erano sempre più vicino a lui, aggiungendosi a quelli che già lo mantenevano. La loro stretta era talmente potente che si sentì legato a tante piccole catene.
I suoi pantaloni vennero ulteriormente strappati da quelle piccole mani, poi fu il turno delle calze e delle scarpe; sentì dei denti da latte che si chiudevano sui suoi piedi; solo le sue urla riuscivano a coprire il rumore dei piccoli pezzi di carne che venivano lacerati dal suo corpo.
Le sue dita furono le prime cose ad essere strappate via dai teneri denti dei piccoli Esseri.
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