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Alba e Nebbia.

di Katiuscia Napolitano
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Pubblicato il 19/09/2015 12:54:09

Il tempo l'aveva sfatta. Ma quella mattina, con la nebbia alle ginocchia e il sole che nasceva, si sentì perfino bella.

I suoi stivali provocavano leggeri scricchiolii sul terriccio congelato. L'alba e il tramonto erano i soli momenti in cui quella terra grigia le appariva sopportabile. Forse era proprio perché erano gli unici istanti in cui il cielo si colorava, sembrando vivo.

Sapeva che il contadino la guardava, dalla sua casetta. Avevano una sorta di tacito accordo. Lei poteva girovagare nel suo terreno e in cambio gli lasciava all'uscio il pane fatto in casa. Fosse stata coraggiosa, avrebbe anche potuto bussare, una volta. Chi sa cosa ne pensava il contadino, della donna che vagava per il campo. Lei non poteva saperlo, non si erano mai parlati.

 

Coraggiosa, non lo era mai stata. L'unico atto di coraggio che si attribuiva era stato quel trasferimento, seguendo la cugina. Quella cugina, che era più una sorella, a vent'anni l'aveva convinta a lasciare tutto per andare al nord. Avevano salutato il loro mare, abbracciate, ed erano partite.

Luana si era ambientata in fretta. Entrava in ogni negozio del paese sorridendo, diceva sempre buongiorno a tutti. In poco tempo il suo calore aveva fatto breccia nei paesani, nonostante fosse forestiera, come dicevano loro. Lei era sempre desiderosa di imparare. Chiedeva delle usanze, dei modi di dire. Si vantava delle sue origini ma voleva assorbire il più possibile del posto in cui viveva. Nel giro di un anno, a furia di parlare con la gente, il suo accento era quasi svanito. Quella lieve cadenza le dava un tocco esotico, che le aveva conquistato l'amore di tutti. Uomini compresi. Casa loro era sempre piena.

Solo quando chiamava lei, Caterina, l'accento di Luana tornava quello di un tempo.

"Sei una zuccona, come la nonna!"

Della nonna Caterina portava il nome, la testardaggine e l'attitudine a voler stare sola.

Luana si era abituata allo sfondo chiuso dei monti, si era innamorata della neve. A Caterina veniva da piangere all'arrivo di ogni inverno. Le sembrava che con il freddo casa sua sparisse ancora più lontano.

Avevano trovato lavoro entrambe e il loro trasferimento aveva trovato finalmente piena giustificazione.

"Giù il lavoro non c'è, Caty. Qui possiamo costruirci il nostro futuro" ripeteva sempre Luana.

I loro bei vent'anni erano spariti quando Luana ne aveva compiuti ventinove. Si ammalò di tumore e morì nel giro di un anno. Si diceva che la fabbrica dove lavorava usava agenti tossici. "Il nostro futuro" si era portato via sua cugina, lasciando Caterina completamente sola nella nebbia fitta.

 

Nei suoi trent'anni Caterina aveva imparato che l'amore ce l'avevano e lo donavano anche al nord. I suoi amici, che lei aveva sempre considerato più amici di Luana, non la lasciavano mai sola. E come per uno strano incantesimo a lei stessa venne voglia di stare in mezzo a quella gente che aveva sentito così estranea negli anni precedenti. L'accento rimaneva, ma ormai utilizzava in modo fluido il dialetto locale. Sua madre non ci poteva credere, parlando al telefono, ma accettava quella parlata strana ridendo.

Era come se la morte di Luana le fosse servita per imparare a vivere. O forse, più semplicemente, si sentiva in dovere di farlo appieno anche per  la cugina.

Un'estate aveva convinto i suoi amici ad andare in Sicilia per le vacanze. Non vedeva l'ora di mostrare loro la sua terra, le sue origini.

Li aveva osservati stupirsi dei ragazzini in motorino in tre e del signore che faceva la brace su un carrello della spesa rovesciato. Per i suoi amici era tutto strano, ma tutto bello.

"Come voi due"dicevano a Caterina.

Luana restava viva nella memoria e nelle parole di tutti.

Poi li aveva portati nella sua città natale, dove aveva vissuto fino a quando era partita.

Si era quasi commossa quando aveva visto il suo angolo.

Da quel passaggio, dopo la piazzola delle auto, si apriva il mare.

La spiaggia chiara, il canneto e la ferrovia.

Vedeva quei cunicoli di scolo dove voleva curiosare da piccola, ma aveva troppa paura dei topi.

Erano la sua aria, il suo mare, i suoi arbusti bassi e bruciati. La sua terra.

Aveva capito che il suo territorio, la sua lingua madre, erano il suo sangue. Le sue fondamenta.

E Caterina su quelle fondamenta provava a starci ben piantata.

Finché non arrivò lui.

 

Non si era mai spinta così in là nel campo. Di solito, di poco superata la casa del contadino, tornava indietro. Non aveva idea di cosa ci fosse al di là degli alberi da frutto. La nebbia le stava facendo scherzi strani. Le arrivava al bacino, facendola camminare sulle nuvole, e intanto le impediva completamente di vedere cosale stava davanti. Caterina iniziò a sentire qualcosa di familiare, ma che non riusciva a riconoscere. Continuò a camminare.

 

L'amore di una vita, che vero amore non fu mai, lo incontrò alla soglia dei quarant'anni.

Un giorno Caterina andò a comprare dei fiori. Un'altra delle sue amiche aveva avuto un bambino. Lei era rimasta l'unica senza figli.

Lui faceva il fiorista.

Lo chiamava mi amor, in spagnolo. Come in quelle belle canzoni latine, tanto appassionate, che Caterina ballava in salotto da sola.

Il fiorista si era sposato giovanissimo, in un matrimonio quasi combinato. Era in perenne rottura con la moglie, ma stavano insieme ormai da più di vent'anni.

C'era sempre qualche problema con il lavoro, e poi il matrimonio del figlio grande, il primo nipotino.

"Non si può rovinare le cose a tutti, bisogna aspettare."

Caterina, a quarantacinque anni, non ce la faceva più ad aspettare.

Una sera se lo ritrovò sotto casa, lei gli aveva chiesto di vedersi il giorno dopo.

La lasciò guardando per terra, dicendole che non poteva più andare avanti così.

Strappandole di poche ore, oltre a tutto il resto, anche la possibilità di compiere un atto davvero coraggioso.

 

Il rumore che aveva sentito Caterina si era acuito, sembrava più vicino. La vista della donna era appannata più di prima. Tra la nebbia, e le lacrime, non vedeva più bene.

Caterina non era più abituata a piangere. Quattro anni prima, dopo la separazione dal fiorista, aveva deciso che avrebbe passato tutto un anno senza piangere. La vita le aveva concesso di non ricevere altri dolori dopo quell'abbandono e così per tutto un anno non pianse mai.

Versò solo qualche lacrima, poco più tardi, al funerale di sua madre. Da lì, basta. Aveva anestetizzato completamente la sua esistenza.

Quella mattina, quella nebbia e quella solitudine, le ricordarono che si vive anche per soffrire e che non è possibile evitarlo.

Allora Caterina chiuse gli occhi e li strinse forte, per restare sola in sé stessa senza più quel mondo in cui era andata a vivere. E lì, capì cos'era quel rumore.

Non lo aveva riconosciuto perché era un suono che arrivava da lontano, che in Lombardia è impossibile da sentire.

Riaprì gli occhi e il suo mare, quello che si vedeva dal passaggio nel canneto, stava proprio davanti a lei. La nebbia si era diradata ed era spuntato il sole. Caterina sorrise e le lacrime si fermarono.

Le restava solo una scelta da fare. Andare verso il mare o tornare indietro.

Caterina scelse di essere coraggiosa, per la prima e ultima volta.

 

Cercarono Caterina per tre giorni senza sosta. La ricerca era ancora più difficile perché la donna non aveva legami. Non aveva famiglia, era una donna tranquilla, dicevano i vicini. Non c'erano possibili moventi passionali, nessuna questione di denaro in sospeso. Iniziarono a pensare che si fosse allontanata di sua volontà.

L'ultimo ad averla vista era un contadino.

"Veniva spesso nel mio campo, passeggiava. E' vero, non l'ho vista tornare indietro ma mi capitava. Mica stavo sempre a guardare lei."

Il buon contadino non venne mai accusato di nulla e il torrente, che limitava il campo dell'uomo, non restituì mai nessun corpo.

 

Caterina non fu mai ritrovata.


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