Un meo avo litteraio si chiamava Aristarco Scannabue, mejo conosciuto ar secolo comme Giuseppe Baretti, il quale amava, metaforicamente, menar la Frusta addosso a tutti quei moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e prose e poesie d’ogni generazione, che non hanno in sé il minimo sugo, la minima sostanza, la minimissima qualità di renderle o dilettose o giovevoli ai leggitori ed alla patria.
Er meo avo, Aristarco Scannabue, avea in odio l’Arcadia, quella combriccola de’ poeti e poetastri, che amavan recitar certe pastoral poesie, travestiti da pastorelli e pastorelle, che perdeano il tempo a scrivere delle fanfaluche, così dicea Egli, amanti d’inutili notizie, e che, non sapendo come adoprar e impiegare bene il tempo, vanno appresso a delle corbellerie.
Er meo avo, Aristarco Scannabue, avea due gran mustacchi ch’ei portava sul labbro superiore, perché eziandio avea difetto nel labbro inferiore. Le donne del villaggio non lo trattavano familiarmente, e gli uomini di rado s’arrischiavano a parlargli. Il vecchio Aristarco sfogava la sua innata bizzarria su un fojio letterario, Egli avea studiato nell’adolescenza sotto il celebre Diogene Mastigoforo, alcune lingue orientali, dopo essersi bene insignorito del greco e del latino.
Er meo avo, Aristarco Scannabue, non amava gli inzuccherattisimi versi de lo Zappi, dicea ch’era poeta lezioso e galante; dicea anche che da un picciolissimo seme nasce una zucca molto smirurata, e che dei fondatori dell’Arcadia molti de’ quei nomi sarebbero miseramente sprofondati nel Lete, dicea, infatti, il buon profeta.
Ma ciò che er meo trisavolo, Aristarco Scannabue, non potea sapere è che l’Arcadia non è una stagione passeggera de la istoria umana, bensì è stagione perenne de lo suo animo, che ogni vorta torna puntuale a far sentire la sua voce. L’Arcadia, insomma, è forma di oziosità letteraria, male antico dell’Italica letteratura, portata sempre ad astratta e permanente inclinazione salottiera, accademica, formalistica, e di niuna utilità poetica.
Un altro meo avo litterario e filosofico se chiamava Giordano Bruno, al secolo conosciuto come Filippo Bruno, figlio de’ Giovanni Bruno, homo d’armi, e di Fraulissa Savolino, condannato a morte da la Congregazione de lo Sant’Uffizio, e abbrucciato vivo in un giorno di febbraio con la lingua “in giova” a Campo de’ Fiori.
Questo meo avo, omo piccolo, scarmo, con un pochetto de barbetta nera, che un insigne anglo clericale, roso da l’invidia, quasi pe’ desprezzo, solea chiamare omiciattolo italiano, non perdea mai occasione per sferzare quei dottori in gramatica e fare strame de’ l’istituzione ove regnava una costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica inciviltà.
Questo meo avo aveva insomma in uggia li pedanti, delli quali amava fare gran caricatura, e dicea che essi ne la ruota del tempo rappresentavano la notte dell’ignoranza che pretende de spacciarsi come il giorno della sapienza.
Dicea il meo trisavolo che questi personaggi sono al tempo stesso comici et tragici, e con la di lor mortal pedanteria finiscono sempre co’ lo uccidere lo sviluppo de lo sapere. Di lor fece gran scempio ne lo Candelaio, ove tratteggiò un mondo ordinato da uno principio arrovesciato.
Questo meo avo avea soprattutto in odio li aristotelici de li tempi sua, che avean orrore de varcare l’aria, discovrir le stelle e di trapassar li margini de lo mondo, ed evocava soprattutto lo declino morale dentro cui il mondo stava per incamminarsi e auspicava quanto fosse mai necessario l’opra salvifica di uno spirito libero.
Il meo avo, detto anche il Nolano, avea capito che la casistica, figlia de la aristotelica memoria, imponea rigidamente regole a fin de soffocar la ragione stessa dell’arte, e finia per contrastare e per contrarre de lo mondo la sua sterminata varietate.
Ei facea dir a Teofilo ne’ La cena de le ceneri che li omini rari, eroici e divini passano per questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la necessità a concedergli la palma de la immortalità. La via che porta alla vita un pensiero nuovo, e che conduce a riconoscere l’universo come infinito e vario, discendendo da uno principio eterno e non mutabile, è sempre irta e dominata da la vôta gramatica e dalla insensata pedanteria.
Il meo avo, Bruno Giordano, sapea bene che l’asineria non è mai condizione storica, e che, quantunque cambino usi et costumi e li omini e donne non so’ mai li stessi di tempi in tempi, e che mutazione et variazione scandiscano il ritmo dell’intero Cosmo, li pedanti so’ sempre uguali, di alea in alea, essi non cangiano mai.
A questo meo avo un tempo dedicai questo bel canto:
Tra lo infinito cosmo e questa vita breve
la stretta è uguale, niente si biforca
e tutto s'attorciglia, come due moti
che s'intrecciano in un nodo
viaggiano et spaziano nel vôto
senza meta e senza sosta;
ma la picciol/mente s'ostina
a ricercare ne lo immenso
la causa, lo principio, la fonte
che la salvi e che la elegga a Nume
prendendo della lettera di Pitagora
lo sinistro lato che la svia
e le fa perdere la vista de lo lume,
acciò non sa che togliendo lo limite
che divide l'essere da se stesso
la sua libertate si dischiude
ed essa mente come per magia
s'infinitizza vincendo la paura
che la teneva avvinta alla catena,
e nulla più frena lo suo fûror
che la conduce a discovrir del mondo
le perle et i moti, sue contrazioni et sigilli
et tutto quel che delplus-verso è vero signo.
Ma il più antico dei mia avi, e il più sempatico, è senza altro er Burchiello, al secolo conosciuto comme Domenico Di Giovanni, de’ Fiorenza, bizzarro rasoio, spirto avventuroso, chiassoso estroso, ma generoso e folle…
Er Burchiello c’avea alle calcagne testuggini e tartufi, e quanno le annava male avea contro tutti li birri de la repubblica senese, un po’ pecché avea in uggia l’italica lirica, aulica e dotta, un po’ pecché viveva mendico con lo suo mestiere.
Er Burchiello amava la poesia giocosa e le accozzaglie, e nella sua rimeria estrosa se divertiva a mettece ogni sorta de’ frattaglie. E così che se divertiva a scrivere Nominativi fritti e mappamondi. Er Buzzi meo un po’ è sbucciato da la burchia del burchiello, insomma, talvolta me sembra una vera burchiellata.
Er meo Burchiello più che al piacere de la rima, cedea alla messa in scena de la aulica letegata tra la Penna e lo suo attrezzo de mestiere, quello che le dava un tozzo de pane da magna’ la sera a lume de candela. Ah!, caro meo Avo, comme anchor son attuali le tue rasolate! Te, che mai potei sapere che anche lo discendente Tua non avrebbe fatto de la penna l’attrezzo del mestiere suo, e che se va ramingo ad incontrar chi vive a li margini de la repubblica litteraria.
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