Ti parlavo dal versante della steppa minuscola
il lungomare dei rettangoli pietrificati
cosmogonia di ombrelloni ad ore
come dissipare il senso vero delle ombre
in portapacchi sul gradino-gemma della ruota dorsale
dove andare è un fremito all'altrove dei pensieri
onde viste dal bordo che inquietano di un mare limitrofo
al costa a costa accostato di uno sguardo primordiale
ultrasonico e sue derive, luna calante degli apostoli
dei plagi canuti di vite danzanti il costato esposto
agli ultimi soli d' autunno.
Ti parlavo per non sentirti o sentirti di più
o sentire la mia voce o anche provarmi
che fosse vera la tua macchia, forma di pelle in apnea
e non mentisse il suo pulsare d' accademia
al mio respiro rotto in più punti sul petto
e verso la bocca, le labbra, la lingua e i denti.
Dissodare l'aria per i semi di qualche parola vegetale
prima che un ascolto carnivoro potesse banchettare delle mie idee.
Ma il corpo non vuole vivere in funzione del pensiero
reclama una sua natura precedente negli istinti
forse fu per quello che improvvisamente ci abbracciammo
per sopravvivere al tramonto
nella speranza che stretti insieme sarebbe stato più difficile
sparire al presente in lamette di tempo da vene.
E poi gli occhi, vennero per ultimi, i tuoi occhi lucidati a specchio
a illudermi che avresti saputo consolarmi per sempre
dell' abbandono senza scampo ad essere mortale
e che solo tu mi potessi perdonare l'intrigo sensuale
con l' infinito e le sue note lunghe, gemme di Venere.
Quando il tramonto poi passò e un buio tenue di stabilimienti ci avvolse
ancora vivi, quello stesso abbraccio ci sembrò
un' esagerazione drammaturgica
tutto questo perchè paure più piccole avevano preso il posto
della paura della morte, sacra e sconsacrata dall' evidenza
che al giorno seguiva ancora la notte, nonostante tutto.
Tornai a casa da solo e in fin di vita ma di buon umore
perchè ancora capace di ridere del fatto di essere così ridicolo.
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