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Giotto

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 15/11/2014 17:34:25

Quando mi accinsi a scrivere “Giotto” capii che mi serviva una misura, un metro che  funzionasse da coibente, da limite oltre il quale non si potesse agire e quindi escludere tutte le possibilità che lo oltrepassassero. Scelsi l’endecasillabo essendo questo nella tradizione Italiana il verso della poesia epica e didascalica. Può sembrare anacronistico, di cattivo gusto, tuttavia la sua duttilità, la varia accentazione permette un canto disteso ma pure frammentato, sincopato, come certa musica jazz, adatto a un'opera che prometteva di essere varia e corposa. 

Antecedenti: nel 1997 il Corriere della Sera annunciava in un trafiletto che la Nasa aveva lanciato nello spazio una navicella di nome Giotto col compito di avvicinarsi alla cometa di Halley, di studiarla, fotografarla e quindi perdersi nello spazio.

Il racconto comincia nel momento in cui Giotto ha esaurito il compito assegnatogli e domanda che gli sia indicata la strada del ritorno.

Ha inizio così il viaggio della navicella nel vuoto spazio, il viaggio della mente umana negli incubi della propria storia.

 

 

 

 

                                                                                 

Quando si fu placata la tempesta

d'infocate faville che m’aveva

tormentato facendomi girare

su me stesso così che l’orizzonte

era un vermiglio cerchio fiammeggiante,

dire non so quanto in balia rimasi

dei terribili morsi del terrore,

quando fu spento intorno a me lo spazio,

rividi il sole splendido, la terra,

il bel pianeta i vasti continenti                             10                    

i bianchi poli scintillanti il mare                                                 

placido, allora mi rasserenai

e il ben calibrato volo ripresi.

Lieto un messaggio subito trasmisi

come saetta per l’etere tranquillo

“Passata ho la cometa senza danno

indicate la strada del ritorno.”

Tre volte dietro il sole si nascose

la terra intorno a se piano girando

galleggiando in silenzio nello spazio.                   20

Fu forse per struggente nostalgia

che vidi un balenio di bianche luci

come città dormienti nella notte.

Con più insistenza un messaggio inviai

e un altro e un altro ancora invano.

Onde roventi d’angoscia saettavo

contro il pianeta muto e l’allegria

s’era disciolta mentre lei fuggiva

fredda e incurante e la sua bianca chioma

di purissime gocce imperlinata                          30                      

in fondo al nero cielo si spengeva.

Quando nel cuore fondo, nella stanza

grigia scrutando, orribile ricordo,

vidi anneriti spettri fumiganti

biechi relitti gli strumenti ormai,

l’ansia mi vinse più aspra del metallo

della mia pelle, misurai la curva

dell’orbita terrestre e la distanza,

m’allontanavo inesorabilmente.

Il nero spazio m’invitava a un viaggio                         40

doloroso nel silenzio assoluto.

Le familiari immagini i pianeti

del sistema solare ad uno ad uno

mi venivano incontro e mi lasciavano

dietro le spalle grevi di rimpianti.

Affollata la mente di ricordi                                

della vita sicura dentro l'hangar

le amorevoli cure  i densi oli

carezzevoli e dolci al mio incarnato

le luminarie accese nella notte                             50

chiare stelle terrestre firmamento

più sicuro di questo cui volgevo

il mio incerto destino; forti brividi

mi scuotevano e infine vinto invaso

da una caliginosa sonnolenza

giunsi a sfiorare il cielo di Saturno.

Mi scossi allora e un ardito gesto

tentai, come il rocciatore infissi

i chiodi fortemente alla parete

alla fune s'aggrappa e con le braccia                  60

pencolando nel vuoto poi risale,

all’anello più esterno m'aggrappai

col potente magnete che dal sole

la flebile energia ricaricava.

Me infelice così rimasi appeso

condannato alla ruota di tortura

per giorni interminabili affondato

in feroci tempeste di sulfuree luci

fustigato da gelide ventate

percosso da metallici proietti                                                     70

in un mare di lava incandescente

che mi portò con sé per lungo tratto

fino a sfociare in un calmo estuario

di bianchissima luce abbacinante.

Fu certo un forte campo che percosse

lucente fluido misterioso il cuore

che percepii come un ronzio sommesso,

 dolce un limio .Quand’ebbi un po’ di pace

cercai tra i morti ruderi se forse

qualche contatto ancora, qualche segno                                  80

della vita passata era rimasto

sui vuoti schermi, nei contorti piani

delle tastiere, sopra la matassa

di fili arsi, policromi pensieri

d’una spenta memoria. Risuonava

nel mortale silenzio esile lume

la stessa nota dolce sinfonia

filo d’Arianna sottile e tenace.

Percorrevo dentro di me la strada

che dai più antichi calcoli e disegni                                           90

piana portò alla mia generazione

d’esseri forti adatti alla conquista

degli infiniti mondi, ora so quali.

Mi balenò vivissimo il ricordo

d’antiche fiabe, credenze remote:

rosso un computer sigillato dentro

al più segreto ripostiglio e fondo

dove racchiusa tutta la memoria

della nostra coscienza si celava.

Lo trovai infine splendido scarlatto                                     100

d’amianto in spesse lamine al riparo

caldi i contatti ancora inargentati

vibranti favi colmi di corrente.

Pesciolini guizzanti nello stagno

verdi cifre affioravano allo schermo

fluorescente gaia teoria di numeri.

Trepidante chiamavo le nozioni

che premevano dentro, la lettura

mi riempiva di palpiti e sussulti,                                              110

riconoscevo i piani del mio viaggio

di parabole piane di perdute

iperboli geometriche e di gelo

m’attanagliò l’angoscia quando scritto

funesto segno comparve indelebile

fino ad empir lo schermo l’Infinito.

Né a trionfali ritorni destinato

né  a tiepidi musei come nei sogni

dei monotoni giorni dell’attesa:

godere i cicalii di scolaresche                                                  120

mille mani di bimbi sopra i vetri

rami di pesco in fiore profumati,

ascoltare di notte nel silenzio

il sapido brusio d’azzurre lampade

vigili al sonno d’appagati eroi.

Un perfido disegno era già scritto.

Non fu errore di calcolo o fatale

guasto se contro la cometa inerme

e poi nel buio spazio all’infinito

fui proiettato odioso reietto                                                         130

consumato barattolo di latta

dell’immonda montagna di rifiuti

che disonora la periferia

di megalopoli fetide e grigie

dove uomini  soli e rabbiosi cani

hanno uguale disperata violenza.

 

Buona lettura. Il viaggio continua. Arrivederci il mese prossimo.

 

 


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