Quando mi accinsi a scrivere “Giotto” capii che mi serviva una misura, un metro che funzionasse da coibente, da limite oltre il quale non si potesse agire e quindi escludere tutte le possibilità che lo oltrepassassero. Scelsi l’endecasillabo essendo questo nella tradizione Italiana il verso della poesia epica e didascalica. Può sembrare anacronistico, di cattivo gusto, tuttavia la sua duttilità, la varia accentazione permette un canto disteso ma pure frammentato, sincopato, come certa musica jazz, adatto a un'opera che prometteva di essere varia e corposa.
Antecedenti: nel 1997 il Corriere della Sera annunciava in un trafiletto che la Nasa aveva lanciato nello spazio una navicella di nome Giotto col compito di avvicinarsi alla cometa di Halley, di studiarla, fotografarla e quindi perdersi nello spazio.
Il racconto comincia nel momento in cui Giotto ha esaurito il compito assegnatogli e domanda che gli sia indicata la strada del ritorno.
Ha inizio così il viaggio della navicella nel vuoto spazio, il viaggio della mente umana negli incubi della propria storia.
Quando si fu placata la tempesta
d'infocate faville che m’aveva
tormentato facendomi girare
su me stesso così che l’orizzonte
era un vermiglio cerchio fiammeggiante,
dire non so quanto in balia rimasi
dei terribili morsi del terrore,
quando fu spento intorno a me lo spazio,
rividi il sole splendido, la terra,
il bel pianeta i vasti continenti 10
i bianchi poli scintillanti il mare
placido, allora mi rasserenai
e il ben calibrato volo ripresi.
Lieto un messaggio subito trasmisi
come saetta per l’etere tranquillo
“Passata ho la cometa senza danno
indicate la strada del ritorno.”
Tre volte dietro il sole si nascose
la terra intorno a se piano girando
galleggiando in silenzio nello spazio. 20
Fu forse per struggente nostalgia
che vidi un balenio di bianche luci
come città dormienti nella notte.
Con più insistenza un messaggio inviai
e un altro e un altro ancora invano.
Onde roventi d’angoscia saettavo
contro il pianeta muto e l’allegria
s’era disciolta mentre lei fuggiva
fredda e incurante e la sua bianca chioma
di purissime gocce imperlinata 30
in fondo al nero cielo si spengeva.
Quando nel cuore fondo, nella stanza
grigia scrutando, orribile ricordo,
vidi anneriti spettri fumiganti
biechi relitti gli strumenti ormai,
l’ansia mi vinse più aspra del metallo
della mia pelle, misurai la curva
dell’orbita terrestre e la distanza,
m’allontanavo inesorabilmente.
Il nero spazio m’invitava a un viaggio 40
doloroso nel silenzio assoluto.
Le familiari immagini i pianeti
del sistema solare ad uno ad uno
mi venivano incontro e mi lasciavano
dietro le spalle grevi di rimpianti.
Affollata la mente di ricordi
della vita sicura dentro l'hangar
le amorevoli cure i densi oli
carezzevoli e dolci al mio incarnato
le luminarie accese nella notte 50
chiare stelle terrestre firmamento
più sicuro di questo cui volgevo
il mio incerto destino; forti brividi
mi scuotevano e infine vinto invaso
da una caliginosa sonnolenza
giunsi a sfiorare il cielo di Saturno.
Mi scossi allora e un ardito gesto
tentai, come il rocciatore infissi
i chiodi fortemente alla parete
alla fune s'aggrappa e con le braccia 60
pencolando nel vuoto poi risale,
all’anello più esterno m'aggrappai
col potente magnete che dal sole
la flebile energia ricaricava.
Me infelice così rimasi appeso
condannato alla ruota di tortura
per giorni interminabili affondato
in feroci tempeste di sulfuree luci
fustigato da gelide ventate
percosso da metallici proietti 70
in un mare di lava incandescente
che mi portò con sé per lungo tratto
fino a sfociare in un calmo estuario
di bianchissima luce abbacinante.
Fu certo un forte campo che percosse
lucente fluido misterioso il cuore
che percepii come un ronzio sommesso,
dolce un limio .Quand’ebbi un po’ di pace
cercai tra i morti ruderi se forse
qualche contatto ancora, qualche segno 80
della vita passata era rimasto
sui vuoti schermi, nei contorti piani
delle tastiere, sopra la matassa
di fili arsi, policromi pensieri
d’una spenta memoria. Risuonava
nel mortale silenzio esile lume
la stessa nota dolce sinfonia
filo d’Arianna sottile e tenace.
Percorrevo dentro di me la strada
che dai più antichi calcoli e disegni 90
piana portò alla mia generazione
d’esseri forti adatti alla conquista
degli infiniti mondi, ora so quali.
Mi balenò vivissimo il ricordo
d’antiche fiabe, credenze remote:
rosso un computer sigillato dentro
al più segreto ripostiglio e fondo
dove racchiusa tutta la memoria
della nostra coscienza si celava.
Lo trovai infine splendido scarlatto 100
d’amianto in spesse lamine al riparo
caldi i contatti ancora inargentati
vibranti favi colmi di corrente.
Pesciolini guizzanti nello stagno
verdi cifre affioravano allo schermo
fluorescente gaia teoria di numeri.
Trepidante chiamavo le nozioni
che premevano dentro, la lettura
mi riempiva di palpiti e sussulti, 110
riconoscevo i piani del mio viaggio
di parabole piane di perdute
iperboli geometriche e di gelo
m’attanagliò l’angoscia quando scritto
funesto segno comparve indelebile
fino ad empir lo schermo l’Infinito.
Né a trionfali ritorni destinato
né a tiepidi musei come nei sogni
dei monotoni giorni dell’attesa:
godere i cicalii di scolaresche 120
mille mani di bimbi sopra i vetri
rami di pesco in fiore profumati,
ascoltare di notte nel silenzio
il sapido brusio d’azzurre lampade
vigili al sonno d’appagati eroi.
Un perfido disegno era già scritto.
Non fu errore di calcolo o fatale
guasto se contro la cometa inerme
e poi nel buio spazio all’infinito
fui proiettato odioso reietto 130
consumato barattolo di latta
dell’immonda montagna di rifiuti
che disonora la periferia
di megalopoli fetide e grigie
dove uomini soli e rabbiosi cani
hanno uguale disperata violenza.
Buona lettura. Il viaggio continua. Arrivederci il mese prossimo.
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