Un sole bugiardo filtrava tra gli squarci del fogliame nella villetta comunale del mio paese, mentre io e la signora Concettina sedevamo su una panchina sgangherata. In realtà, mi ero sentita in dovere di farle prendere un po’ d’aria, visto che non usciva da casa da settimane, forse da mesi. Per tutto il percorso Concettina aveva camminato a testa bassa, tenendo le mani intrecciate in grembo. A tratti, girava verso di me il viso furtivo con un sorriso stupido, per poi continuare a fissare l'asfalto, quasi a voler scongiurare un pericolo dal basso. Circa poi ogni dieci passi si fermava sollevando le mani all’altezza del volto, mormorando parole incomprensibili, forse una preghiera. Allora le chiedevo se avesse bisogno di qualcosa e lei, di rimando, mi rivolgeva sempre il solito sorriso annacquato. Così smisi di farle domande, rassegnandomi allo strano rituale il cui maggior fastidio era dovuto al fatto che attirasse l’attenzione dei passanti divertiti.
Conobbi Concettina una mattinata di dicembre, soccorrendola per una storta alla caviglia. L’avevo accompagnata a casa intuendo, senza peraltro dispendio di immaginazione, che si trattava di una persona sola. Da allora, si era creata una speciale amicizia. Zia Concetta mi raccontò della morte di suo marito, che l’aveva lasciata sola nella casa grande e fredda. Da allora, aveva indossato sempre il lutto. Sapeva che l’usanza era stata abolita da tempo, ma lei sosteneva che non le importava ‘che', se altre donne avessero avuto la fortuna di avere un marito come il suo, avrebbero fatto per lui questo ed altro. Zì Concetta, infatti, oltre a tenere il lutto, aveva fatto anche altro.
La vedova tagliava i capelli solo quando la grossa treccia grigiastra raccolta a spirale le appesantiva il cranio. E lei sembrava farsi ancor più curva sotto il peso di quell’impalcatura monumentale. Inoltre, teneva sempre le persiane abbassate, schiudendole solo di qualche centimetro e un lezzo nauseabondo si infiltrava nelle pareti, alimentando l’atmosfera sepolcrale. Eppure, a giudicare dall’ampiezza della casa e dall’arredo, si poteva benissimo intuire che zì Concetta fosse tutt’altro che povera. E di questa opinione era anche la gente che l’aveva conosciuta ai famigerati tempi verdi. Vox populi, vox dei…
Terribile poi, vederla prima della toaletta. La chioma fuligginosa inghiottiva, come una nube, il viso giallo e ossuto, sul quale spuntavano baffi neri e spessi come setole.
Concettina, in realtà, usciva ogni mattina per andare a messa e lasciava la chiesa poco prima che passassero col cestino delle offerte. Questa abitudine, diffusasi come un vapore dal cenacolo delle devotissime, era diventata di dominio pubblico. Persino il sagrestano, a voce del curato, aveva espresso le sue lamentele. Ma… Che fare? Concettina era un mostro di coscienza critica e non confondeva lo spirito con la materia. “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”.
Da qualche tempo aveva una specie di canarino che, per i processi di adattamento all’oscurità, sembrava più che altro un pipistrello. Se qualcuno le portava della lattuga lei mangiava le foglie verdi e all’animaletto riservava quelle ingiallite.
“Nulla è da buttare, figlia mia. Peccato! Peccato!” diceva sgranando gli occhietti lucidi come olive galleggianti. E si faceva due volte il segno della croce rivolta all’altarino sulla credenza con l’icona del Volto Santo e la foto del caro Tonio. Se, per caso, mi scappava un’espressione poco ortodossa, vedevo i suoi occhi infiammarsi di uno strano scintillio e il suo volto irrigidirsi come quello di una statua. In quei terribili momenti sembrava quasi non respirare più. Allora, spaventata, le chiedevo scusa scuotendola un po’, e lei m’imponeva di giungere le mani e chiedere due volte perdono vicino all’altarino. Uno a Dio, e l’altro? Il fastidio delle sue dita artritiche sulle mie, che mi aiutavano a compiere il gesto, m’impediva di trovare subito una risposta.
Concettina mi raccontava che suo marito teneva la cassetta dei risparmi col lucchetto. E che i soldi glieli dava lui, solo per il necessario. Né una lira in più né una in meno. Diceva inoltre che era stato un galantuomo e che, se l'aveva battuta, lo aveva fatto per raddrizzarla, sennò le femmine diventano sfacciate e se ne vanno in giro come donnacce a lavare i panni sporchi in piazza. E poi dimenticano che l’uomo lavora, e deve mangiare, e deve trovare la moglie a casa quando torna, e la mattina le scarpe lucidate sull’uscio, soprattutto a quelli che, come il suo Tonio avevano il commercio e dovevano comparire. Gli occhi le lacrimavano mentre lo descriveva col cappello a tese larghe e il sigaro in bocca il suo Tonio che, a quei tempi, era forse l’unico in paese a possedere la Belvedere. Benediceva a voce alta suo marito che le aveva insegnato ad essere femmina, ripetendo che le busche le prendeva per sua negligenza perché, in effetti, le meritava. Qualche parolaccia, aggiungeva, gli sfuggiva di tanto, ma solo lui poteva dirle che, se le lo avesse imitato, l'avrebbe subito sistemata come un vero maestro. Non avevano avuto figli benchè a quei tempi mancasse la televisione ma, nonostante tutto, erano stati una coppia felice, perché lei era stata sempre al suo posto, e lo giurava vicino all’altarino. Certo, ripeteva, suo marito era un uomo di società, girava, e può darsi che qualche scappatella l’avesse avuta. Ma, in fondo, ripeteva, lui era o non era un uomo vivo come quelli di un tempo? Bello, di certo, e mica fesso... Ma le scappatelle erano un conto, la famiglia un altro. In quel momento mi venne in mente la regola aurea dell’impero romano ”dividi e comanda”, ma non glielo dissi, tanto non avrebbe capito. E, poi, guai a biasimare l’anima del defunto che le aveva insegnato a diventare femmina.
Mi sollevai dalla panchina per prendere qualcosa dal bar, visto che era a due passi. Zì concetta, però, mi afferrò per la manica del giubbotto. Estrasse dalla tasca due confetti ingialliti e me li porse quasi con violenza. Li osservai e, per un attimo, ebbi come l’impressione che, su di essi, si proiettassero le stesse immagini sull’altarino e un fremito di mistero scosse il mio corpo. Ne ficcai comunque uno in bocca. Nel frattempo, passò una comitiva di ragazzi, fatta eccezione per una signorina bruna, slanciata, che si agitava dalle risate posando ora la testa sulle spalle di un giovane biondiccio, ora agganciandosi a un altro. Concettina lanciò alla ragazza un’occhiata luciferina. E, con la voce ansante per l’eccitazione della rabbia disse:
“Di femmn d joscia regghiè ( Riguardo alle donne moderne)
na s capsc chiu nodd: ( non ci si raccapezza più:)
su lor ca s men’n ngudd all’umm, ( sono loro che “seducono” gli uomini,)
l’umm hann alluccsciot. ( gli uomini sono allocchiti.)
Ahm, fegghia maje! N’ng ston chiè l’umm d na vot, ( Ah, figlia mia! Non esistono più gli uomini di un tempo)
m n’ng sapn né di jugghie né d sel. ( ora sono insipidi.)
A mgghier desc no, e chiechn a chep. ( La moglie dice di no e loro chinano il capo.)
I femmn d joscia regghie ( Le donne moderne)
nng sapn fa manc i rcchietedd. ( non sanno fare nemmeno le orecchiette.)
Rcchietedd?! C t la dà? (Orecchiette?! Non se ne parla nemmeno!)
Accattn a past già cuscnet iend i sacchitt (Acquistano la pasta precotta)
e n’tusschescn mart e fel. ( e intossicano marito e figli.)
Nng sapn fa nu litt a crstien: l’abboc’cn (Non sanno fare un letto come si deve: lo rivestono solo esteriormente)
e i materazz l’aggr’n na vot all’ann ( e i materassi li rigirano una volta all’anno).
N’ng i ver na vot d strca n’terr ( Non le vedi una volta strofinare il pavimento)
com fasciamm nogg ( come facevamo noi donne di un tempo)
ca s spzzavn i ren sop i chiangul ( a cui si spezzavano le reni sui mattoni rustici)
e l’era strca tott a ion a ion ( e dovevi strofinarli tutti singolarmente).
Fatgghien, sen , ma… Cià fasc’n? ( Lavorano, ma in sostanza… Cosa fanno?)
Ston sop u computer, ( Utilizzano il computer,)
acchiang’n nu rsct, ( pigiano un tasto,)
e i ver semp esaur’t. ( e le vedi sempre esaurite.)
S mett’n do resct d stocc, ( S’incipriano abbondantemente il viso,)
iess’n pi culleg mascul, ( escono con i colleghi maschi,)
s fomn a sgarett, Crst megghie a d’amm arrvet ( fumano, Gesù a che punto siamo giunti, )
e ciò ca uaragn’n spen’n: ( e il guadagno lo spendono intero:)
na so sot ca l’avastn. ( i soldi non bastano mai.)
Po’ von a ches ( Poi vanno a casa,)
p’gghien a vaporett, ( utilizzano la vaporetta,)
ti tà, ti tà e hanna spccet. ( e in un baleno hanno terminato.)
I mar’t, cdd povr Crst, ( I mariti, poveri Cristi,)
fatgghien, s rtrn murt, ( lavorano, tornano esausti)
e n’ng l fascn acchia manc na gramm d past n’callsciot. ( e non gli fanno trovare nemmeno un po’ di pasta scaldata.)
N’ng sapn manc attaccà nu button. ( Non sanno nemmeno attaccare un bottone.)
E i robb? ( E i capi?)
Bianc, gnor, ross, vird, ( Bianchi, neri, rossi, verdi,)
i scaff’n iend a lavatrsc e i fascn a pgnul. ( li infilano in lavatrice e li infeltriscono fino a ridurli a un pugno.)
Lavà a men? ( Lavare a mano?)
C t lè dà? ( Non se ne parla nemmeno!)
Quann i robb so dlchet, ( Quando i capi sono delicati,)
sobt a tintori. ( subito li portano in tintoria.)
T li dtt: ( Lo ribadisco:)
n’ng sapn ammnstrà na ler… Vulev dsc nu cntes’m. ( non sanno amministrare una lira… Volevo dire un centesimo.)
I fegghie femm’n po’ su com i mamm. ( Le figlie, poi, sono tali e quali alle madri.)
E cià putev assè da sott? ( Non poteva essere altrimenti.)
Von à discotec, ( Vanno in discoteca,)
maledett a c’la nvntet, ( maledetto chi l’ha inventata,)
iess’n pi uagnon, na s’mmen i ion natas’mmen i nat, ( escono con i ragazzi, uno alla settimana,)
e all’ atten l scatt u cor. ( e al padre gli scoppia il cuore.)
Na s capsc chiu nodd ( Non ci si raccapezza più,)
d sti femm’n d joscia rgghie! ( riguardo a queste donne moderne!)[1]
Un piccione si avvicinò alla panchina. Sollevò la testolina tremante e, subito dopo, cadde al suolo stramazzato.
[1] La trascrizione del dialetto martinese è, qui, approssimativa e legata all’ironia del racconto. Questa verrà fatta seguendo le regole di trascrizione dello stesso successivamente, nella prospettiva della pubblicazione del racconto in una raccolta.
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