Pubblicato il 06/05/2012 15:56:00
“La nascita, solo la nascita” di Luigia Sorrentino, Ed. Piero Manni, 2009
di Ninnj Di Stefano Busà
I versi di questo straordinario libro di Luigia Sorrentino entrano nel vivo come schiocchi sonori; hanno l’impeto e la capacità di calamitarti nel pathos di una percezione intimistica e non solo, perchè sono il segno di una maturità poetica che coglie il panorama e la irrequietezza emotiva in interiore, per proiettarli all’esterno di una memoria eccezionalmente visiva e olfattiva, increspata dal divenire delle cose, quasi a fermarne l’accezione privata e la ragione del coinvolgimento doloroso, a vivisezionare e decifrare il transeunte, a cesellare toni, variazioni ed emozioni che suggellino la dimensione temporale sempre in progress: “saremo un po’/ bianchi vicino al sole/ polvere con altra polvere!. La nascita, solo la nascita è un cangiante e articolato percorso della meditazione, una deflagrazione lessicale che coglie domande senza risposte, una testimonianza che tratta ragioni forti, mutevoli che si rincorrono nel tratto quotidiano del nostro itinere, in modo interrogativo e mai pretestuoso. Vi sono: la vita e la morte sempre ferocemente “in agguato” e in riferimento a quest’ultima: “morte che guardo/ e mi fa male/ ad ogni sillaba” e ancora: “// sia benedetta l’acqua, l’acqua che noi porteremo a casa/ sia benedetta l’acqua del diluvio”. Il senso d’acqua come elemento simbolico viene percepito in maniera fisica, quasi impresso all’idea della nascita (o rinascita) che imprevedibilmente accelera lo straordinario strazio di questo libro, il quale nel suo attraversamento vitale, nell’atto primordiale della venuta al mondo suggella l’estremo limite. Ab origine, presuppone gia lo schianto e il declino irreparabili, nei quali profondamente l’uomo intercetta la morte, la drammaticità dell’evento, il suo doloroso e affannoso “motu”. Ma è anche accesa di passione questa poetica che, dentro e fuori il paesaggio, sa donare suggestioni irripetibili, mostrando la profonda conoscenza dei mezzi espressivi, la finezza e la tenuta linguistica dello strumento retorico e metaforico. Non mostra compiacimento formale: il corpus lirico compatto di grande dignità sa aderire allo spirito del mondo con perturbante presentimento. Luigia Sorrentino sa entrare nello Spirito e nella Ragione dell’essere, sa coglierne i bagliori, farsi interprete di un’elegia che le fa onore per la finezza espressiva: “il silenzio della rosa, della pace ferma/ nel gomito sulla fronte di aprile/ nascesti imperlato nella casa doveva essere/ l’ultima in una primavera in cui fummo/ davvero soli/ portavamo lo stesso sangue/.../”(pag.41) Il referente appare sempre come morte immanente che slitta sulle cose e sui destini degli uomini, e le fa dire: “senza tregua/ il male è assoluto/ a questo passaggio non posso che assistere/ senza grandi espressioni/.../ non credo ai miei occhi per tutta questa/ sperfezione” ( pag.66 ),usa proprio un’accezione desueta per indicare la violenza della morte sulla vita. I legami interni tra una poesia e l’altra piegano al rimpianto, ma non alla rassegnazione passiva. È opera questa della piena maturità, per l’alta qualità del linguaggio, che raggiunge esiti felicemente compiuti, pur attraverso un pessimismo che s’identifica con l’assenza e il silenzio. Eppure, vi è sullo sfondo un panismo che a grandi linee evidenzia un barlume di fede, un pensiero che timbra la sua poesia di un’assenza apparente, perfino blandita, accarezzata, quasi sfiorata da un dio che l’autrice si affretta a scrivere in minuscolo, quasi a sottolinearne l’essenza maieutica di grande creatore e distruttore: “intorno a questo altrove/ fin dall’infanzia// entrano in qualcosa di ignoto/.../ e il dio che scende li lascia/ entrare, accoglie nutrimento/ il dio lieve.( pag.77). Epigrafico come una solenne sentenza questo testo: “ecco la pietra/ e il dolore/ ecco la donna e il corpo / nella veste di tela d’Olanda/../ecco il funerale degli occhi verdissimi/ l’odore acre/ la morte liturgica avvolta/ nel raso bianco” (pag.52). Vi è una dignità anche nel paesaggio brullo e scompaginato degli eventi che fanno parte della sez: Il peso della terra. Una poetica che ha la materica presenza della caducità, il peso della condanna, l’idea di un esilio feroce e greve nel limbo terreno, dove siamo chiamati a interrogarci, a presagire una seconda natura alla metamorfosi. Del resto lo sguardo del poeta riesce a trapassare la tragicità e la fragilità dell’esistente facendone materia di canto: un canto di incessanti bellezze, di architetture evocatrici e suggestive, che lasciano intuire Luigia Sorrentino come cellula di un microcosmo, per l’idea che permea la ragione e l’istinto alla relatività, tale da farla pronunciare nei termini:”da quelle braccia siamo caduti/ da quelle braccia siamo ritornati”, nel ciclo perenne della “sperfezione” ontologica di cui accenna.
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