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- Letteratura
Ennesimo intervento sul tema: La Poesia
Ennesimo intervento sul tema: LA POESIA di Ninnj Di Stefano Busà Ebbene, ammettiamolo, la poesia non è per tutti, ma solo per coloro che la amano, è un agglomerato di cellule mnemoniche, che come da struttura sinaptica passano direttamente dal cervello alla pagina bianca, dopo aver congiunto e collegato le cellule deputate all’attività di coordinamento; un’attività pseudocerebrale e linguistica che assolve questo compito, al quale si può aggiungere la predisposizione, il sincretismo della parola, l’attenzione per l’arte del linguaggio, la fantasia, l’estro. In poesia, <la parola> attende la nuova ipotesi disvelativa che le deriva dall’essere trascritta e trasmessa: l’input le giunge dal subconscio, l’appello della chiamata preposta a formularla origina dall’intelligenza del cuore, che le permette di collocarsi in una sua fisiognomica particolarmente gradita o la respinge, altre volte la rinnega, la contrasta, la svilisce, quante cose si compiono a suo danno! Quanta intolleranza, quanto lesionismo e ignoranza è costretta a subire la poesia! Mi fa rabbia vederla trattare con quel fare pietoso e umiliante, che recita: a che serve? Lo dichiarò Montale a chiare lettere, ma mi permetto di dissentire: la poesia è una delle innumerevoli doti umane che non dà fastidio, non scomoda nessuno, non s’impone a viva forza, non pretende nulla, non esige alcunché, si rifiuta di giungere a chi proprio la ignora, non la capisce, non la ama: se ne sta lì, quieta e silenziosa senza scomodare alcuno. Se c’è, si fa sentire, se è amata, riama con la stessa intensità, con grato e sincero altruismo. Spesso ripaga proiettando il poeta in una territorio sconosciuto che è l’iperuranio della sua ricerca. Lo ripaga delle tristi vicissitudini in cui tutti siamo costretti a vivere, sa donare con gioia quella pagina di armonie o di equivalenze che originano direttamente dal cuore, per riequilibrare contrarietà, sofferenze, dolori, solitudini. Se la chiami ti accompagna, viceversa se ne sta latente, in un silenzio quasi assoluto. La poesia non ha accesso all’utile, non ha predisposizione al vantaggio materiale, non s’intromette nell’economia, né si propone alle moltiplicazioni avariate e contraddittorie di un mondo finanziario losco e invasivo, che guarda alla materialità con avido ingegno, con provocante e pervasivo utilitarismo. La materia lirica non è viziata mai da diniego alla morale, neppure al più sottile e sofisticato meccanismo di risorse che concorrono alle vita greve dell’individuo. È solo una forza legittima che vuole venir fuori a sedare gli animi, a placare semmai il loro bisogno spirituale, intellettuale, un richiamo all’autenticità metafisica del singolo uomo, mira all’armonia, alla completezza, all’idealità del mondo, perché l’umanità ha bisogno di capire, di sincronizzarsi col suo essere, con la sua entità interiore. Ma proprio perché non ha nulla da spartire con l’interesse spicciolo, come si può facilmente supporre, (gli fa d’intralcio); è malvista in questo nostro momento storico così pervasivo, asfittico, sclerotico, fatto di un solo “input”creativo: la necessità di accumulare ricchezza...niente di più naturale che la vanagloria in un mondo così - (s)poetizzato – così avido, lontano dall’interesse creativo e lirico. Ma se ci soffermiamo qualche minuto a riflettere, come si può ben vedere, la poesia non ha mai fatto del male a nessuno, siamo noi che l’abbiamo esauturata, esclusa, sottovalutata, posta ai margini, perché priva di quella forza brutale, meschina, invasiva, deputata al benessere materiale: l’uomo di oggi propone se stesso, è ammalato di protagonismo che gli può dare solo la raggiunta ricchezza, il potere, il successo. La poesia non dà nulla di tutto ciò, nessuna delle tre ipotesi è raggiungibile con la poesia, perché essa è l’emanazione della nostra spiritualità, dell’ingegno; la particolarità unica ed esclusiva, generosa e mite della natura umana la richiede, per distinguerla a livello di superiorità dal genere animale. Nel coacervo esponenziale della menzogna, dell’ipocrisia, della contraddizione, la Poesia assolve il compito di regolatrice ed esploratrice della psiche umana che ha necessità di formulare il suo bene, la sua condizione di ricognitrice, di viaggiatrice in un mondo disorientato e reso succube dal male, la poesia manifesta il suo vigore, rivela il pensiero di esistere al di là del mondo materico e viziato, estrinseca l’implicito significato dell’intelletto “pensante”, la passione, l’atto espressivo del sentimento, che eloquentemente vuole contrastare l’insignificante, l’animo, il banale; lo richiede con impeto e, talvolta vi riesce, di saper dire l’inesprimile.
Id: 467 Data: 13/01/2015 16:57:03
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- Letteratura
La realtà del dolore
LA REALTA’ DEL DOLORE in Carlo Emilio Gadda di Ninnj Di Stefano Busà Nasce a Milano nel 1893, muore a Roma nel 1973, si laurea in ingegneria ed esercita la professione sia in Italia che all’estero dove soggiorna per alcuni anni. In qualità di ufficiale degli Alpini prende parte alla guerra (1915/1918) ed è lì che gli scatta l’impulso dello scrivere, la sua vocazione di narratore infatti prende l’avvio con la pubblicazione della prima opera: Le bizze del capitano in congedo (1918) al quale segue il romanzo: Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924); La meccanica (1926); Novella seconda (1928). Quasi tutte queste opere risultarono come lavori preparatori allo scrivere che costituiranno più avanti nel tempo, il tema e il profilo di ricerche filosofiche a posteriori: La cognizione del dolore (1963) che secondo il mio giudizio costituirà un’opera fondamentale nell’iter letterario dello scrittore milanese ne delinea la struttura, le linee essenziali e l’indirizzo culturale che più avanti verranno a dare la svolta del suo operato con l’altro romanzo: Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957). che esce al pubblico nel 1946 in 5 puntate sulla rivista La Letteratura, pubblicato oltre dieci anni dopo, nel 1957, da Garzanti. Con quest’opera a Gadda viene decretata la notorietà, per così dire, gli viene riconosciuta ufficialmente dalla grande critica, la capacità di abbracciare la narrativa da un punto di vista più acuto e ingegnoso, idoneo a rappresentare il disordine e i paradossi del tempo. Ciò, anche per il fatto, che esercita a Roma presso la RAI la professione di giornalista, la qual cosa, da sempre, ha regalato la visibilità. A mio avviso (e a quanto pare non solo mio), la sua opera migliore s’identifica con La cognizione del dolore; nella quale vi si riscontra una contaminatio diversificata, una sorta di miscellanea di stili, di virtuosismi sintattici, di barocchismi oltre che l’utilizzo ai vari livelli di scrittura, di taluni echi manzoniani allora in voga, il dialetto popolare, termini arcaici, obsoleti, e altri di pura invenzione, vocaboli desueti, che però risultano fondamentalmente utili nelle stesura del romanzo. L’autore nella sua scrittura così articolata e frammista volle rappresentare la complessa realtà di quei tempi, insieme a dati psicologici che per essenza e comportamenti costituiscono la società del momento storico: percezioni, suggestioni, allusioni, riferimenti che determinano l’involucro sorprendente e originario di una scrittura multiforme quale quella di Gadda, lasciano scoprire l’eco riflettente e comportamentale di un tempo (fin da allora fortemente compromesso) che ne delinea un linguaggio moderno attraverso l’analisi degli orrori, dei compromessi e inganni, della stupidità che disgustano e deludono, epperò, ne riflettono appieno l’asse portante di una società inconcludente e caotica, rivelatrice di un malessere che ne determina la complessità dell’alter ego, malamente insubordinato e reso estremamente insicuro e variamente allocròico dal sistema malato del dopoguerra. Si tratterà pure di una narrazione all’apparenza comica, ma sovraccarica di richiami manzoniani, d’infiltrazioni ingarbugliate e di costruzioni linguistiche di varia natura. Soltanto che qui Gadda riflette l’intricata matassa di taluni atteggiamenti anche ridicoli ancor più che comici, rivelando una condizione drammatica di esistenza, quasi inamovibile e deteriore. Seguono altre opere come La Madonna dei filosofi (1931) e Il Castello di Udine (1934). Successivamente in Adalgisa riprende tutti i temi psicologici di astrazione lombarda – il realismo- di ambientazione tardo ottocento strettamente connesso alla sua cultura scientifica, si può dire ebbe molta parte nella sua vicenda letteraria. L’abbandono dalla città di origine: con prima tappa Firenze e successivamente Roma, favorisce la sua presa di coscienza di un male più generalizzato che deriva dalle seconda guerra mondiale, con il retaggio di sofferenze, di ossessioni, fobie, contraddizioni private, disagi interiori che si riconoscono in atmosfera di catastrofi e drammi più universali, attraverso il senso del Male, del Disordine babelico e tumultuoso, disorganico della grande vigilia che rivoluziona la scrittura, che già investe la società contemporanea del tempo. Lo scrittore infittisce le tematiche e le implicazioni di una visuale storica della vita, nella quale s’inserisce una concezione che scava a fondo nello strazio di ognuno, e dall’autobiografismo tormentato dell’essere umano “individuale” si proietta verso il superamento della sottile linea di galleggiamento che riconduce lo strazio e la sofferenza masochistici del mondo, in un genere di più vasta interpretazione, che già si pone sullo sfondo, proponendo una linea meno baroccheggiante di narrativa, istruendo, dal punto di vista stilistico, la realtà del dolore. Con Eros e Priapo, Furore e cenere, (1967), lo scrittore Gadda inserisce il filone storico secondo cui dichiara apertamente la sua indignazione e opposizione alla storia tutta, qui s’intenda cronologica e diacronica che si mostra traditrice in tutti i tempi. A quel punto manifesta intolleranza e opposizione a quella che ritenne corruzione universale. Molto attiva in Gadda fu anche l’attività saggistica: con Il primo libro delle favole (1952); Novelle del Ducato in fiamme (1953); I viaggi e la morte (1958); I Luigi di Francia (1964); Sono noti i numerosi libri di lettere che conservano l’ossatura del suo pensiero e tutta l’ideologia immaginifica e l’essenza intimista del narrato, comprese le amplificazioni più estese dei suoi sviluppi linguistici: Lettere agli amici milanes; Lettere ad una gentile signora; Lettere a Ugo Bett; Lettere a Bonaventura Tecchi; Lettere a Gianfranco Contini; A un amico fraterno, proposti alla stampa nel periodo postumo alla sua morte 1983/1988. L’editore Garzanti pubblicò in 5 voll, l’edizione completa delle sue opere, diretta per l’occasione da Dante Isella.
Id: 389 Data: 10/03/2014 11:08:01
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- Poesia
Campo Lungo
Campo Lungo, di Ivan Fedeli, Ed Puntoacapo, 2013 di Ninnj Di Stefano Busà Questa nuova raccolta di Ivan Fedeli si mostra come un’ennesima dichiarazione di poetica, ma forte e chiara, come è nel genere di questo poeta vigoroso e schivo, saldo nei suoi principi e nei suoi progetti letterari. Il verso dello scrittore in esame è di quelli “presenti”, catapultato nella mischia del mondo, egli osserva, riferisce, si guarda in giro con un senso di sgomento e di rabbia, ma non lascia trapelare il suo disappunto la sua disapprovazione nei confronti del degrado, dell’alienazione, del divario tra gli uomini. Dal suo angolo di osservazione privato egli trova i minimali di una popolazione “assente” (quella dei nomadi, dei diseredati, dei transfughi dalle dittature) proiettata in un frastuono, in uno sconquasso insostenibili: uomini vagolanti, senza direzione, senza certezze, eppure con la fede che contraddistingue le loro povere anime frustrate, deluse, derise, una moltitudine che a dire della nuova società del Duemila non vale niente, quella che non conta, che corrisponde a numeri vaganti, a foglie in balia del vento, disperse e avvilite, senza storia. Sono discrepanze genetiche, paradossi che ogni poverocristo si trova a reggere senza interruzione di continuità, come a dire: “così è, -punto-”. Una legge della disuguaglianza che colpisce intere etnie, una ferita del progresso, una faglia di devastazione che rende la frattura di un popolo, di tutti i popoli delle diaspore eterni bersagli della miseria cronica, della disertificazione urbana, economica, generazionale. Ivan Fedeli tratta il filone di questa poetica in maniera sorprendente, li mostra tal quali sono < i martiri della nuova epoca>, non parla di sconfitte, ma di umanità che si trascina stanca per le vie del mondo, quasi calpestata e sempre ignorata, in subordine ad un sistema capitalistico che per loro rimane ai margini, nel rischio di una deriva unversale. Una debacle per la storia e l’esistenza di ognuno che deve registrare la vicenda personale della sopravvivenza come un fatto storico di ordinaria amministrazione. La loro esclusione resta la grande ferita del secolo: la sorte che si abbatte così ferocemente sulle loro fragilità è quella dei diseredati, dei profughi, degli emarginati. La loro marginalità però diventa la tragedia dell’umanità intera. Fedeli tratta con levità il tema dell’emigrazione: l’ostilità, la mancanza di mezzi di sopravvivenza appaiono sfumati, li descrive nelle loro forme di variegata sofferenza, nel dolore dei luoghi di miseria e di alienazione con delicato pudore, senza pronunciamenti altri, senza essere cattedratico, senza moralismi, eppure conosce bene – la grande colpa delle fragilità storiche, le loro inadempienze, il mercato delle ideologie che contrasta con il tema umano della Chiesa evangelica -. Scrive da poeta, si rifà alla necessità che rende marginale ogni rapporto; mette in vista la loro dignità, il decoro, l’adempimento di un’ospitalità necessaria ai fratelli d’oltreoceano. Mostra forte e chiara la voce segreta che li descrive e nel contempo li estrae dalla miseria morale, dagli antefatti paradossali del potere e del sistema delle uguaglianze e dei diritti. Ivan Fedeli mitiga i toni, si fa portavoce dei diseredati per la parte romantica e poetica di un mix di fragilità epica senza memoria storica: sono i nuovi martiri del Duemila, quelli che lui tratta con ritegno e pudore. Come è già avvenuto ai tempi della venuta di Cristo con i martiri erranti del Cristianesimo: la nemesi è lì, pronta a testimoniare che l’uomo non cambia, l’uomo è, e resta il peggior risultato di se stesso. Eppure, il poeta afferma: “credono al mondo ancora/.../ sono gli eroi dal profilo basso”, parole buone per dire il mondo è popolato di fragilità, di debolezza...basta un niente a rompersi a disintegrarsi...l’intero pianeta. Infrangibili, immutabili restano solo: l’aridità, l’indifferenza, il senso di irresponsabile protervia che spara nel mucchio per autolesionismo, poichè privo di coscienza e di morale cristiani.
Id: 388 Data: 24/02/2014 10:47:44
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- Letteratura
Verità come prassi o come categoria?
VERITA’ COME PRASSI O COME CATEGORIA? di Ninnj Di Stefano Busà In questo periodo di grande instabilità emotivo-mentale e di smarrimenti ideologici molto spesso si confonde la categoria (dal gr. Kategoria) con la prassi. La filosofia ha sempre considerato la prima un modo essenziale della conoscenza, facendo essa riferimento agli aspetti con cui l’uomo interpreta e conosce la realtà che lo circonda. Essa può essere espletata attraverso vari elementi identificativi: qualità, sostanza, quantità, tempi e luoghi ai quali si riferisce etc. La prassi corrisponde all’azione pratica che interferisce e corrisponde a una o più indeterminate ideologie. La <Verità> è altra dal pragmatismo caratteristico sia nell’una che nell’altra. Mai come oggi se ne avverte la contraddizione, soprattutto per l’evidente discrasia della vita reale, logorata e plasmata su modelli di cultura globalizzati, massificati e incoerenti dal lato umano della specie. Celebrare il culto della verità ai nostri giorni costituisce una grande sfida, perché il mondo ha ristretto e ridotto la Verità nei limiti di una verità d’accatto, relegandola nel ristretto margine di una professione solo fideistica che trova il suo fine come atto di culturalismo a se stante, lontanissimo dalla sua ontologica conseguenza. Le due cose entrano in conflitto e riducono la Verità ad una frantumazione e contraddizione evidenti. Dal canto suo tutte le azioni liturgiche riferite alla Chiesa di Cristo (dette verità cristologiche) sono ridotte a semplici precetti del cristiano che, dal canto suo, è incapace di corrispondere al sacramento della fede come principio in sé. I fedeli e la Chiesa di oggi sono interessati all’ortodossia della religione, più che alla via tracciata dal Vangelo e dalle Sacre Scritture per giungere alla Verità da essi rivelata. Bisogna a questo punto chiedersi quale sia il teorema teologico che investe culturalmente e ideologicamente il credo di Gesù Cristo, riappropriarsi dell’identità di Cristo, della sua sostanza e chiedere ai processi della discontinuità storica quale potrebbe essere l’evento che riveli al mondo la Verità come categoria e come prassi, senza disgiungere le due cose che si devono mantenere unitarie nella posizione più contraddittoria del culto e del dogma relativi ad essi come dottrina. È necessario trovare le posizioni ideologiche sulla tradizione chiesastica, senza frammentazioni, in linea con l’ideologia e la categoria spirituali del culto cristiano che siano il più possibile coerente con la Verità tramandata da Cristo, e non dal sistema rivoluzionario ateo e perdente del mondo moderno, che all’aspetto formale ha immolato la Verità del processo biblico, riducendolo a mera prassi, senza imperativo categorico né dimensione evangelica, che si appalesa spenta o sul punto di spegnersi per le contraddizioni troppo umane che hanno imbrigliato l’uomo e sovvertito le condizioni sociali, politiche, religiose con il sigillo dell’illegalità, della mancanza di dignità e libertà.
Id: 385 Data: 11/02/2014 10:12:44
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- Libri
Nella Sicilianità il grande merito dellEditoria S
Nella sicilianità, il grande merito dell’Editoria Sellerio (di Ninnj Di Stefano Busà) È la continuità storica che fa il merito di questa Casa editrice palermitana, guidata sin dall’esordio da una donna in gamba, molto tosta che ha saputo fondare l’editoria siciliana, all’insegna di un grande marchio, quale quello che Elvira Sellerio ha saputo imporre a tutti i libri usciti per i tipi di questa impresa siciliana, molto fuori dalle righe. Un carattere forte e volitivo, quello della titolare, un carisma eccezionale (per quel tempo, in cui le donne sicule erano ancora rilegate a fare la calza), hanno fatto di questa Signora dell’Editoria palermitana un vero pilastro dell’intellettualità siciliana e non solo. L’amicizia con due grandi figure della cultura del momento: Leonardo Sciascia noto scrittore e Antonino Buttitta antropologo di rilievo rendono possibile dare il via ad un progetto accarezzato da questa donna di ferro, che non esita ad investire tutta la liquidazione della sua fuoruscita dal ruolo pubblico a quello “privato” in una programmazione economico/ commerciale e manageriale piuttosto incerta, assai lontana dalle sue competenze di allora e dunque, un campo di battaglia per neofiti, (quale può essere una Casa editrice che non si sta tramandando, ma si costituisce, s’impianta ex novo). Donna Elvira, affiancata e incoraggiata dai due amici, si mette sotto l’ala dei due grandi intellettuali. Ma sa trascrivere autonomamente e con grande abilità e grinta imprenditoriali la pagina più importante dell’impresa di famiglia: una risorsa umana, oltre che intellettuale, senza precedenti, per quel momento e per la sua storia, che si delinea già forte e vigorosa nel segno di una ortodossia editorialista di notevole pregio. Ha sempre perseguito poi negli anni quella sigla di eleganza e di versatilità che è la caratteristica principale, originaria della matrice storica e della filosofia del suo marchio. Un tratto di raffinatezza, nel coacervo di taluni aspetti non secondari dell’intellettualità siciliana hanno poi dato la possibilità di crearsi un alone di rispettabilità e di grande prestigio, anche fuori dal territorio nazionale. Fino all’ultimo, al 2010, anno della sua morte, Donna Elvira partecipa assiduamente alla vita culturale e civile. Frequenta i salotti degli intellettuali, viene eletta consigliere della RAI. Nel ’69 anno della fondazione forse non avrebbe potuto immaginare che, (da vero falco) con un colpo geniale e una scelta davvero coraggiosi, quanto ardua avrebbe realizzato la sua più grande fortuna: essere imprenditrice di una griffe che fa la differenza. Ne mantiene per sempre la dignità, il concetto morale, l’autonomia economico-finanziaria, non si aggrega: si defila solo dal marito Enzo, dividendo le rispettive attività, a seconda della congenialità: saggistica e narrativa lei, arte e storia il settore di lui. S’inserisce nel filone della Letteratura e nell’Arte con volumi di piccola tiratura per bibliografi. In poco più di un decennio s’impone all’attenzione di un più vasto pubblico diventando un’impresa culturale di carattere nazionale. Cominciano a fioccare i titoli come saette, prendono avvio i volumetti blu: “La memoria” formato tascabili, che hanno un successo straordinario. Ma l’anima, la vera anima di questa imprenditoria è Lei, donna Elvira: carattere forte e propositivo, temperamento tenace con un eccezionale fiuto ad afferrare gli autori giusti; captare le tematiche da scegliere e i libri da stampare. Il marchio contrassegnato da leggerezza e sobrietà non passa inosservato e si consolida anno per anno con titoli e autori di tutto rispetto come Gesualdo Bufalino, Andrea Camilleri, cui vanno ad aggiungersi Luisa Adorno, Alicia Gimenez Bartlett e molti altri, che raggiungono il successo e trasformano la Casa Editrice in un business di grandi proporzioni. Per trent’anni Donna Elvira Giorgianni Sellerio ha mantenuto la fisionomia e conservato gelosamente i tratti della sicilianità e le matrici mediterranee, occupando una fascia ragguardevole di mercato. Con le radici ben piantate nella Sicilia, da piccolo Editore si trasforma in Grande Sigla Editoriale con circa 3.000 titoli in catalogo. Ha conservato strettamente la sua indipendenza territoriale con un prodotto rigorosamente e quasi artigianalmente curato, in un ciclo produttivo di grande impresa commerciale. Il successo le ha arriso per circa quarant’anni: quasi una –creatura - per Elvira, che l’ha difesa ad oltranza da ogni attacco, conservandone intatta l’indipendenza e la qualità, in una impronta di ottima formazione intellettuale. Tutte prerogative che il figlio Antonio subentrato alla sua autorevolezza oggi mantiene quasi intatte: è stato in grado di conservare, le stesse caratteristiche appartenute al periodo Giorgianni. La grande madre è deceduta nel 2010, ma ha passato il “testimonial” al figlio che ne ricalca la struttura e la filosofia che ne hanno sempre caratterizzato l’attività. Donna Elvira aveva dedicato i migliori anni della sua maturità a mettere in moto, tassello per tassello, ogni tratto di questa impresa familiare, che oggi ha assunto attraverso il marchio che passa ai figli Antonio e Olivia un eccezionale prestigio. I due si dividono il compito di gestire una editoria ormai di fama internazionale, con testi di eccellenza in fatto di valore intellettuale, ma anche di carattere poliziesco, come quelli di Montalbano nella serie prestigiosa di un grande scrittore siciliano: Andrea Camilleri anch’egli grande estimatore e autore d’eccellenza di questo marchio, che ha raggiunto cifre incredibili e ha realizzato bestsellers di eco internazionale, nomi come Stevenson, N. Gogol, Giuseppe Bonaviri e tanti altri di ottimo livello, si sono poi aggiunti alla lunga lista degli autori selezionati, formando una pietra miliare nell’impresa libraria siciliana.
Id: 384 Data: 10/02/2014 09:21:24
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- Letteratura
di Rescigno il racconto infinito
RECENSIONE al saggio di Sandro Angelucci sul poeta Rescigno di Ninnj Di Stefano Busà Intervenire criticamente su un saggio, a sua volta, -critico- è quel che si può dire il clou in letteratura. Ma quando questo disquisire giunge da un esegeta accreditato come Sandro Angelucci, il fatto incuriosisce e si va a leggere con più pertinente attenzione l’autore segnalato. Non fosse altro che perché conosco da molti anni Rescigno, sarei stata per prima curiosa di apprendere una più profonda esegesi su questo autore: schivo, coerente al suo episodio letterario fin dall’esordio, interessato alle varie tappe della vita, profondamente naturale e fruibile in ogni suo testo poetico, che va a toccare avvenimenti, esperienze plurime dell’uomo, soprattutto, il suo dolore e il suo distacco dalla realtà, con la morte. Gli ultimi due libri si fermano su quella tematica o almeno la sfiorano con quell’ineluttabilità che è propria delle persone autentiche, nel voler valutare il passaggio nell’aldi là con somma chiarezza e senza dileggio. Vi è da sempre nel poeta Rescigno il sacro fuoco della poesia. La parola del poeta è fede e religio di una verità ultima che pone in rilievo la vita con i suoi molteplici aspetti peculiari, con la sua meditazione e speranza, con suo pianto e le sue gioie. Sempre, l’autore ha trattato il tema lirico con grande rispetto per i valori dell’uomo, e vista dal lato del sublime, la sua ispirazione rigorosamente attinge alla visione cosmica, ad un più dettagliato e lucido panorama del mondo, che è mistero e religioso stupore, amore e morte, amalgama potente e lungimirante di una contemplazione che si fa viaggio e passaggio dall’uno all’altro, da un aspetto all’altro, diventando memoria e ricordo come categorie ultime di un umanesimo che si ricompatta col mondo, con le sue varianti prodromiche e le sue esperienze temporali. Una ricerca lunga quanto la vita, quella di Gianni Rescigno, che da grande affabulatore è riuscito a dare l’interpretazione del suo lirismo in maniera esaustiva, sia idealmente che concretamente: i suoi superbi paesaggi terragni, le sue vigne, i suoi ulivi, la natura selvaggia e imponderabile di un Sud fatto a immagine di poesia, tra luci e ombra, tra passaggi interiori e suggestioni, tra emozioni e scoperte, tra lusinghe e dolore; si snoda la vita, e il poeta Rescigno la percorre in un fremito che tutta la raccoglie. Il suo impianto linguistico è moderno, contemporaneo, mai sperimentale, perché sa cogliere un panismo, un misticismo lirico che non sono di tutti. L’ermeneutica su cui si colloca l’esegesi di Sandro Angelucci è ricchissima di spunti che serviranno a incorniciare la figura di questo poeta entro l’ambito di una scrittura poliedrica e versatile, senza nulla togliere al viaggio reale della sua esistenza, al quale giustamente il Critico riserva tutta l’attenzione. É scevro da funambolismi ariosi e descrittivi questo saggio, va dritto al punto cruciale che è la personalità del poeta Rescigno: le sue carrellate di versi, tutti potenti, tutti immersi in un’armosfera lirica da lunga e pesante permanenza in poesia. Il critico ne ha saputo individuare linee e forme, categorie e passaggi cruciali, i flussi e i riflussi che ne hanno regolato le stagioni, i gusti, le sollecitazioni amorose, i dubbi, le speranze. A indicarne la camaleontica tranche de vie non potrebbero essere che le stesse parole del poeta: “forse è l’anima nostra in continua prova/ per raggiungere l’infinito (da: Nessuno può restare) Genesi, 2013. Quest’ultima è una raccolta lucida e ben delineata, una sintesi oserei definirla di quel percorso che Rescigno compie a rembours, per abbracciare l’intero percorso e donarsi infine nelle braccia dell’Ultimo Morfeo, come un guerriero stanco. L’esegesi di Angelucci è di quelle che non si fanno attendere, ne delimita gli assunti, ne ricrea le atmosfere, ne illumina i contorni con un’aderenza alla realtà tra le più straordinarie. E lì, infatti che si sentono l’abilità e la preparazione di un critico, quando questi ne avverte i segni, le interferenze, le angolazioni, i traguardi, le impalpabili sottigliezze, gl’indicibili rifrangenti dell’umano percorso che si fa carne e sangue della vita, ne assume i contorni, ne evidenzia i dati più eclatanti, per giungere all’ultimo stadio che è il più verosimile – come la nascita, infatti, anche la morte è un barlume di vita, anche se l’una dà, l’altra toglie, ma è l’inafferrabile, il mistero di ogni umanità ad attaccarsi al sogno, alla rappresentazione scrittoria di un progetto che si trasforma in poesia, come in arte. Un processo salvifico, un procedimento di gran lunga più misterioso e potente della stessa nascita. Angelucci sembra dire nel suo saggio: se un poeta dopo aver percorso il suo cammino, aver ostinatamente scavato per trovare la peculiarità del linguaggio, la chiave più opportuna offertagli dalla vita, ha saputo parlare con le sembianze di un uomo qualunque “umile” eppure elevato, dal perentorio bisogno del –dire- allora gli si può riconoscere l’immortalità dello spirito, la sua lunga permanenza nei territori dell’anima, che ne testimoni il grande privilegio della Poesia. Mi pare che un critico non potesse dare miglior giudizio di questo. Spero di averlo interpretato bene!
Id: 380 Data: 25/01/2014 17:59:00
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- Poesia
Eros e la nudità
Eros e la nudità di Ninnj Di Stefano Busà, Ed Tracce-Pescara, 2013 a cura di Floriano Romboli Eros e la nudità ( Pescara, Tracce, marzo 2013) mi ha confermato nell’idea della continuità e dell’alto grado di coerenza che caratterizzano la tua ricerca poetica. Ho pensato all’incipit di una lirica compresa nella raccolta pressoché coeva La distanza è sempre la stessa (Catanzaro, Ursini, maggio 2013), ove si legge: “Entriamo,/nel solo ineludibile linguaggio:/ quello del corpo, quando l’anima è affranta…”(vv. 1-3); è qui la radice – le due sillogi accolgono d’altronde due medesime poesie, di cui solo una lievemente modificata – dell’attenzione appassionata e approfondita alla dimensione corporea, carnale (“Col sudore e le carezze del corpo/contenderemo alla vita la sua mortale vanità”, Inganneremo la dolcezza del canto,vv.3-4) della tensione erotica, la quale a partire dalla fisicità sensualistico-naturale, da una nudità che è innanzitutto libertà e schiettezza afferma la propria rilevanza assoluta di fondamentale energia vitale. L’autrice coglie con perspicacia ed esprime felicemente il duplice “movimento” insito nell’esperienza di Eros, che è inizialmente auto-espansione, sollecitazione a uscire da sé, condizione di smarrimento (“Magico ciò che osammo:/ dentro la vertigine accecante/ di azzurre armonie, estranei al mondo…”,L’allerta è per quel viluppo d’ali, vv.7-8), e in seguito ritorno consapevole, accrescimento interiore che può rimotivare l’ordine delle cose e assicurare un vero significato all’esistenza: Solo un guizzo di luce nel tuo sguardoun lampo in cui vi ammutolisciil vento di soavi piaceri, di stordimenti.Qui è la spola, qui l’arcolaio per tessere la tela,dalla nostra carne sboccerà l’aurora. Mi pare che tutto il libro risulti percorso da un moto diadico, da un desiderio di sostare sull’ “orlo dell’abisso/ in cui morire e poi risuscitare”( Mentono ora le tue notti, vv.8-9, corsivi miei), giacché il valore si precisa contrastivamente nell’opposizione al suo contrario: l’unione amorosa alla solitudine, la luce al buio, il calore al freddo, la primavera all’inverno, la gioia al dolore; mi limito in proposito a una sola citazione: Se scrivo è per amore, per comporrele minime radici (…)E’ questa fedeltà ai luoghi, ai margini sottilidelle cose che ci affina il fiuto alla magìa,e poi lo strappo dalle tue braccia,migrare altrove, nel germinare mestodel dolore o della perdita ( Assente è la parola che sorregge il mondo, vv.3 e 7-11, corsivo nel testo) In altra occasione mi è capitato di sottolineare la centralità della figura dell’antitesi nella strategia formale-compositiva della Di Stefano Busà, e anche in questi testi le antitesi sono molto frequenti, indizio di un’elaborazione problematica che non conosce soluzioni definitive, sintesi pacificanti. Nei versi emerge talvolta l’aspirazione a una condizione più alta, a un altrove, a un oltre ( “Una canzone senza tempo, il punto esatto/ del nostro tracimare oltre il guado,/esser(ci) dono, riparo dal naufragio,/oltre noi stessi ”, Vorrei tra il divenire e il sonno, vv.12-15, corsivo nel testo), che però rimane indeterminato oppure si risolve nell’idea-valore dell’ “istante perfetto”, nella situazione manifestamente ossimorica della “breve eternità”, dell’esperienza momentanea e nondimeno indefettibile: Siamo fragili ed eterninell’amplesso impudico della passione,nell’eresia ardente dell’oblìoche scioglie i silenzi, come fragranza di rosa ( Strazia l’anima questa malinconia, vv.9-12) Attraversare il tempo ordinario forti di una grande carica intellettuale-morale, fecondandone l’impersonale opacità con intensi, creativi apporti soggettivi, significa assicurare ad esso tratti incomparabili, realizzare quella plenitudo vitae che un pensatore del primo Medioevo cristiano come Severino Boezio ne La consolazione della filosofia riteneva impossibile stabilmente nel tempo storico e tuttavia in certi momenti avvertibile pure in questo per emulazione dell’ideale della vita superiore. Più laicamente e modernamente per Ninnj Di Stefano Busà l’amore e la poesia possono conferire all’esistenza qualità e valore indimenticabili, prolungandone la durata oltre i limiti temporali. Floriano Romboli . . . . . . . . .
Id: 375 Data: 12/01/2014 10:10:02
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- Letteratura
Cuore spaccato
Cuore Spaccato, romanzo di Sandro Gros-Pietro, Genesi,2013 di Ninnj Di Stefano Busà L’ultimo romanzo di Sandro Gros-Pietro è di quelli che si lasciano leggere tutto d’un fiato, tali e tante sono le scene, le trame, le interlocuzioni, i fili che si riallacciano ai personaggi: ognuno compreso nel ruolo che gli spetta lascia trapelare la sua storia privata e personale, i difetti e le rovine morali di una società come la nostra che da tempo, ormai, ha abbandonato valori e significati, per correre dietro a chimere lucrose, a ruoli di ordine speculativo-finanziari assai più allettanti. È il caso del protagonista, certo Gualtiero Menotti, faccendiere intrigato in loschi affari, irriguardoso della morale e delle regole, che gravita attorno ad una Italia trasformata in un crogiolo di maneggiatori e di trafficanti di denaro sporco, speculando in affari economici assai loschi che si stringono attorno ad una condizione esistenziale precaria e corrotta da forme sempre più facili di indecenza e disonore. La scena si svolge nell’Italia degli anni ottanta. La trama del racconto ruota attorno al protagonista principale che si rende responsabile di fiancheggiare il fenomeno clandestino del terrorismo, che si trasforma dopo la parentesi del ’68 divenendo un coacervo di attivisti rivoluzionari e terroristi. Il personaggio è un doppiogiochista, un camaleonte della scena che, nel diversificato ruolo di fiancheggiatore e collaborazionista, consuma la sua esistenza nella veste immorale, quanto fantomatica e menzognera di dirigente commerciale di un Grande impianto di Raffineria alla periferia di Torino. Il registro non è nuovo alla cronaca giudiziaria e alla società di oggi. Se ne incontrano assai spesso personaggi squallidi con poteri enormi, tra le fila di un ecumene politico ed economico irriguardoso dell’etica e delle regole della giustizia. Gualtiero Menotti viene scoperto come fiancheggiatore e collaboratore di fondi neri a favore di un candidato corrotto in corsa per l’elezione a Capo dello Stato. In uno scontro a fuoco rimane ucciso e paga le sue nefandezze. Romanzo tra i più appassionanti, di grande attualità. Si nota subito la penna addestrata del romanziere Gros-Pietro. È una di quelle letture molto stimolanti ad effetto. Il rapporto dell’autore con la scrittura è di quelli emergenti, per disposizione di argomenti trattati, particolarmente curati nei dettagli e nelle trame. La sua vicenda letteraria non è più da esordiente, e per quanto possa valere il mio giudizio, consiglierei di seguirla attentamente. Da parte dei critici militanti potrebbe essere una sorpresa scoprire un vero talento tra le fila di autori nostrani, senza dover attingere sempre al contingente straniero che ci indichi le coordinate nella narrativa moderna. Soffermiamoci per qualche momento a pensare che anche la narrativa italiana può essere degna di figurare tra quelle meritevoli. Non leghiamoci sempre all’elenco preconfezionato dall’Editoria marchiata di “esterofilia”che c’impone nomi e gusti.
Id: 359 Data: 23/11/2013 09:40:27
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- Sociologia
La crisi della Chiesa va di pari passo con la cris
A CHE PUNTO STA LA SVOLTA DELLA CHIESA CATTOLICA SUL PIANO ECUMENICO E STORICO di Ninnj Di Stefano Busà La situazione della Chiesa cristiana sul piano liturgico, ecumenico è cambiata con l’avvento degli ultimi due Pontefici, ma il suo messaggio ancora oggi resta ancorato alla profonda crisi di fede che sembra attraversare in lungo e in largo tutto l’Occidente. Cinquant’anni fa si apriva il Concilio Vaticano II, che avrebbe dovuto imprimere una svolta nel panorama della civiltà ecumenica. Lo storico inglese N. Ferguson nel suo volume dal titolo Occidente: Ascesa e crisi di una civiltà (Mondadori, Mi, 2012) si pone l’interrogativo sul come una civiltà avanzata come la nostra sia riuscita a produrre un capitale enorme in fatto di ricchezza economica, politica, tecnologica, socioculturale, che abbia potuto contaminare con il vento della libertà e l’arbitrio del mercato azionario la forza produttiva del lavoro e dell’utile anche nel resto del mondo, cambiandone forse per sempre il profilo fisiognomico e strutturale. La risposta sta nelle mosse o per meglio dire negli strumenti di cui l’Occidente si è fatto strada. Esso lungo il corso della storia si è saputo organizzare per altre direzioni prospettiche allo sviluppo della società industriale tecnicamente più avanzata, per afferrare e competere in strategie monetarie e speculazioni finanziarie e intervenire nelle trasformazioni etico/socio/culturali del secolo che sempre più si sono allontanate dalla morale e dalla liturgia chiesistica. Un reale sviluppo ha caratterizzato e improntato il cambiamento epocale andandosi a scontare con la tradizione e il culto ecumenico sul piano liturgico. Impressionante e rapido è stato il cambiamento di rotta: la realtà si è andata sempre più orientando sui parametri dell’utilitarismo materialistico tralasciando altri valori insieme al culto della bellezza e della verità. Oggi da più parti si leva un interrogativo sulle nuove problematiche che attendono l’umanità e la storia. Sapremo uscire dall’empasse? ritrovare valori e significati? L’accelerazione è stata repentina. In un trentennio o poco più si è passati dalla devastazione dell’ultima guerra al clima sfrenato e ineludibile del <tutto è concesso> senza remore, senza reticenze, un libertarismo sfrenato e senza regole si è insediato nelle coscienze facendo proprio il diritto di felicità, di utile, di pienezza, “illimiti” di una classe sociale che aveva assistito alla caduta delle speranza in un clima d’impoverimento delle risorse mondiali. Oggi a cinquant’anni dal Concilio (11 ottobre,1962) le prospettive del mondo vivono una crisi profonda e ineludibile per la storia e per gli uomini i quali subiscono le conseguenze di un disastro finanziario senza precedenti. Il mondo è pervaso di ansie e di paure, il mutamento percorre strade inquietanti di guerre, fame e tribolazioni, il medioriente è un focolaio di sangue, le primavere arabe ne hanno versato molto. Il postmoderno assume il volto tumefatto di un malfunzionamento epocale che sintetizza solo un pragmatismo e una tecnocrazia aberranti, poichè viene a scontrarsi con una totale sfiducia nel mondo e nelle parole e negli atti della Chiesa. La società disincantata non risponde più con la fede in Dio, ma con la perdita sempre più ampia di consensi verso la parola di Dio, nel rifiuto della condivisione dei suoi valori ecumenici e nella comunione degli insegnamenti liturgici. Lo scontro è tra civiltà, soprattutto oggi che la postmodernità viaggia sull’etere con messaggi di guerra e minacce nucleari. La paralisi è alle porte in ogni momento. La crisi antropologica va di pari passo con la crisi evangelica, si ripudiano i dogmi della verità liturgica per abbracciare fantomatiche insidie e la totale sfiducia nella Chiesa di Dio ne è un esempio. Manca la volontà della fede, la teologia delle capacità di rapportarvisi, manca la vita volta al cristianesimo come stimolo verso l’offuscamento delle possibili cause di morte spirituale. Vi è in atto un ateismo teocratico che è stato per tanto tempo la base distintiva del Concilio Vaticano II in fatto di secolarizzazione. Il Dio biblico è andato scomparendo per dar vita ad una eredità di declino irreversibile che le lacerazioni in atto non potranno che aumentare.
Id: 348 Data: 28/08/2013 11:06:24
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- Poesia
Il passato è un luogo lontano
“Il passato è un luogo lontano” di Franco Celenza, Ed. Tracce (Pescara), 2013 a cura di Ninnj Di Stefano Busà Un libro interessante, tante e pregnanti sono le parole intese come assoluto irrinunciabile dell’essere, ma anche come bottino di chi riesce a trovare nel deserto dei tartari una via che sappia riunificare presente e passato, la formula per significare un più agevole rapporto con l’ego, con quella persistente malinconia che ci rispecchia in presenza della precarietà del tutto. L’accaduto fisiognomico della poesia vi fa da modello tridimensionale attraverso vaghezze metaforiche che realizzano trasalimenti e suggestioni, ma non scompigliano l’aplomb dell’autore che è sicuro delle sue emozioni, dei suoi ardui camminamenti, delle sue sfide e delle sue tensioni. Un individuo che raggiunge il punto focale (per così dire, l’apice del contrassegno) in cui sente “che il tempo ha raggiunto lo specchio” e di avvertire “il passato come lontano luogo” è indicativo di un disagio, ma non è un appiattimento esistenziale, ma un superamento coraggioso di un giro di boa che, pur rimanendo nell’alveo di una misura perdente, affronta senza clamore nè dolore la parte più tragica di tutta la sua storia personale, lo fa senza disperante disillusione, senza rimpianto, solo con una nota di amarezza che anticipa una scabra e attenta preghiera, che non è affranta, si mostra quanto meno “virile” e animata dal buon senso, quel “non darmi” reiterato e introspettivo che ipotizza la violenta lotta contro la memoria che si va smarrendo, o come qualcosa da smemorare. Il tempo non ha più i giorni “biondi” fiammeggianti e furiosi dell’attesa, ora s’incammina verso il tramonto in una scabro arenile, al riparo dalle temperie della vita, ma non per questo deve necessariamente essere greve. L’anima insonne e ardua del condottiero sa ancora vibrare in controluce, essere protagonista nel rimirarsi allo specchio con più pacatezza e sfidarsi a raggiungere il traguardo della notte, attraversando dimore che misurino “altre” forze in campo, “altri” luoghi a procedere: “aggiunte non farai al tuo destino” dice il poeta, ma almeno non sentirai le rovine, i crolli demolitori dell’impalcatura-uomo farsi fatali. Tenere a bada la morte è per Franco Celenza indispensabile perchè lo specchio rifletta l’anima e lo spirito la coscienza dell’essere, entrambi vanno difese da ogni contaminazione esterna. “Ut pictura poesis” espressione oraziana per indicare che ogni modello esistenziale è il riflesso di un’eternità, un’evocazione trasfigurante la cui trasparenza e compostezza si evincono dai ricordi e, semmai, dalla nostalgia con cui l’accento viene posto, con lucidità, ma anche con abbandono alla fede e alla speranza, affinché siano testimonianza anche sul piano letterario di un pensiero qualitativo alto, in una continua tensione verso la luce. L’opera poetica si realizza quando la sua parola diventa insostituibile e mi pare che Franco Celenza raggiunga il -clou- della scena, senza ricorrere a trucchi, senza instaurare pantomime; al tempo rapinatore oppone resistenza ma attraverso meditate pagine, fin dove giunge alla pagina più ardua, al dramma inequivocabile, al resoconto senza clangore, senza rumore, quasi in silenzioso stupore si recita l’ultimo dramma sulla scena e poi si svolta. Un breve epilogo la vita, ma è giusto viverla con dignità, arditamente. Il disincanto si volge alla dimensione cosmica partendo dal travaglio e giungendo all’unico destino che lega tutti gli esseri umani al suo infinito, che alla grande poesia ogni tanto è dato di evocare, e questo libro è uno di quei momenti: una cifra che sa individuare le discrepanze con discrezione, senza debordare, pur nella proiezione di scenari inquietanti che sviliscono, ma che sono in definitiva anche la stupefacente intelligenza della vera sostanza lirica, sostanziale autodifesa e non solo della parabola vitalistica dell’essere che diventa metafora viva, candore e fantasia in atmosfere stupefatte, in silenzi insondabili e in linguaggi che contraddistinguono da sempre il vero poeta e la vera poesia.
Id: 346 Data: 22/08/2013 21:26:09
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- Letteratura
Il passato è un luogo lontano
“Il passato è un luogo lontano” di Franco Celenza, Ed. Tracce (Pescara), 2013 a cura di Ninnj Di Stefano Busà Un libro interessante, tante e pregnanti sono le parole intese come assoluto irrinunciabile dell’essere, ma anche come bottino di chi riesce a trovare nel deserto dei tartari una via che sappia riunificare presente e passato, la formula per significare un più agevole rapporto con l’ego, con quella persistente malinconia che ci rispecchia in presenza della precarietà del tutto. L’accaduto fisiognomico della poesia vi fa da modello tridimensionale attraverso vaghezze metaforiche che realizzano trasalimenti e suggestioni, ma non scompigliano l’aplomb dell’autore che è sicuro delle sue emozioni, dei suoi ardui camminamenti, delle sue sfide e delle sue tensioni. Un individuo che raggiunge il punto focale (per così dire, l’apice del contrassegno) in cui sente “che il tempo ha raggiunto lo specchio” e di avvertire “il passato come lontano luogo” è indicativo di un disagio, ma non è un appiattimento esistenziale, ma un superamento coraggioso di un giro di boa che, pur rimanendo nell’alveo di una misura perdente, affronta senza clamore nè dolore la parte più tragica di tutta la sua storia personale, lo fa senza disperante disillusione, senza rimpianto, solo con una nota di amarezza che anticipa una scabra e attenta preghiera, che non è affranta, si mostra quanto meno “virile” e animata dal buon senso, quel “non darmi” reiterato e introspettivo che ipotizza la violenta lotta contro la memoria che si va smarrendo, o come qualcosa da smemorare. Il tempo non ha più i giorni “biondi” fiammeggianti e furiosi dell’attesa, ora s’incammina verso il tramonto in una scabro arenile, al riparo dalle temperie della vita, ma non per questo deve necessariamente essere greve. L’anima insonne e ardua del condottiero sa ancora vibrare in controluce, essere protagonista nel rimirarsi allo specchio con più pacatezza e sfidarsi a raggiungere il traguardo della notte, attraversando dimore che misurino “altre” forze in campo, “altri” luoghi a procedere: “aggiunte non farai al tuo destino” dice il poeta, ma almeno non sentirai le rovine, i crolli demolitori dell’impalcatura-uomo farsi fatali. Tenere a bada la morte è per Franco Celenza indispensabile perchè lo specchio rifletta l’anima e lo spirito la coscienza dell’essere, entrambi vanno difese da ogni contaminazione esterna. “Ut pictura poesis” espressione oraziana per indicare che ogni modello esistenziale è il riflesso di un’eternità, un’evocazione trasfigurante la cui trasparenza e compostezza si evincono dai ricordi e, semmai, dalla nostalgia con cui l’accento viene posto, con lucidità, ma anche con abbandono alla fede e alla speranza, affinché siano testimonianza anche sul piano letterario di un pensiero qualitativo alto, in una continua tensione verso la luce. L’opera poetica si realizza quando la sua parola diventa insostituibile e mi pare che Franco Celenza raggiunga il -clou- della scena, senza ricorrere a trucchi, senza instaurare pantomime; al tempo rapinatore oppone resistenza ma attraverso meditate pagine, fin dove giunge alla pagina più ardua, al dramma inequivocabile, al resoconto senza clangore, senza rumore, quasi in silenzioso stupore si recita l’ultimo dramma sulla scena e poi si svolta. Un breve epilogo la vita, ma è giusto viverla con dignità, arditamente. Il disincanto si volge alla dimensione cosmica partendo dal travaglio e giungendo all’unico destino che lega tutti gli essere umani al suo infinito, che alla grande poesia ogni tanto è dato di evocare, e questo libro è uno di quei momenti: una cifra che sa individuare le discrepanze con discrezione, senza debordare, pur nella proiezione di scenari inquietanti che sviliscono, ma che sono in definitiva anche la stupefacente intelligenza della vera sostanza lirica, sostanziale autodifesa e non solo della parabola vitalistica dell’essere che diventa metafora viva, candore e fantasia in atmosfere stupefatte, in silenzi insondabili e in linguaggi che contraddistinguono da sempre il vero poeta e la vera poesia.
Id: 345 Data: 22/08/2013 15:43:38
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- Letteratura
Amalgama di Valeria Serofilli
"Amalgama" di Valeria Serofilli a cura di Ninnj Di Stefano Busà Una scrittura pregnante, fuori dalle righe, dalle monotonie liriche di tanti pseudopoeti, di tanti elargitori di parole... Mi riferisco alla raccolta: Amalgama, che leggo con particolare partecipazione e attenzione. Si tratta di un libro colto e vigoroso, la scrittura si avvale di uno stile e di un contenuto altamente affinati, ha dalla sua parte lo sviluppo armonico di tutti i suoi elementi linguistici. Rievoca, sottolinea, coinvolge con la sua umana auteticità e il suo equilibrio formale, in cui tutto semanticamente si disarticola in una temperie di allusioni, di metafore, di colloquiali inserti tra il sé e l’altro di sé. Conoscevo la poesia della Serofilli sin dalle sue prime prove letterarie e devo ammettere che nei versi più recenti s’insedia con una mira più centrata, nelle ragioni liriche di un percorso più maturo ed esemplificativo. La sua autentica umanità vi si dispiega e diventa una sorta di privilegio leggerla. “Morsi di parola sazino spazi bianchi/lenzuola E tu leggimi mordimi impastami e sarò il tuo più prezioso manufatto bilanciato dolce impastamento: frase/ inchiostro, acqua e terra cemento.” La parola cantata, per intensità, è giunta ad una parabola eccelsa, si è fatta suono, orchestrazione di varie forme sintattiche, di un messaggio intrinseco di sensibilità della sua psiche. Lo stile è sempre composto, teso a realizzare quella simbiosi più genuina e più vicina alla confessione del proprio “io”, sorretto sempre da una profonda cultura e da un perfetto realismo linguistico. Valeria Serofilli, come pochi, sa raggiungere i meandri della realtà ed abbracciare con rinnovato fulgore, ma anche con rassegnata malinconia le fragili sponde del vissuto. L’autrice con immediatezza espressiva raggiunge esiti felici nel dosare le emozioni, apre squarci di azzurro e disegna delicate nuances nel tormento generazionale e nel caos tormentoso di tanta sofferenza e fragilità: “Crea per te il bianco di un silenzio ma colmo del più acuto sovrasenso e circuisci lo spazio che ti pesa centometrista senza la sua asta Una poetica ricca di tematiche, che sa realizzare il senso della vita con ampie circonvoluzioni e volare alta in atmosfere che, per quanto surreali, talvolta, vivacizzano la scena e permettono al lettore di godere di un lirismo che non si accontenta di ripetere gli schemi consueti: BEN ALTRA CONTROVERSIA
Risparmia il verso che corre controvento riscopri il senso che nutra di risveglio il giusto pane, lievito / impastamento per non rischiare cadute di non senso falsi richiami a miti desueti ferri lisi che non tessono divieti freno che non unto si consumi Tieni a ricordo il tempo del tuo gioco di calcio, vicoli, urla e di risate Tingi d'inchiostro il tuo accorato coro e non ti curar di loro ma vivi in ben altra controversia per cinger tempie del più verde alloro. Valeria Serofilli sa registrare e metabolizzare la frattura tra il nostro tempo e l’io, che si apre al mondo in maniera non ostica e ostile, ma calda e appassionata, in grado di superare buio e solitudine. I quali sono, diciamolo subito, l’eticità dichiarativa di una saggezza che va oltre le fandonie del mondo. Il lirismo viene percepito, pertanto, come scavo interiore verso una luce chiara, in movimento cosmico, nella valutazione di un -bene e di un male- che orientano la parola universale verso un’assimilazione morale che è anche coscienza individuale, certezza di un comune itinerario in cui le due forze si equivalgono e con esse la vita, l’esistente di ognuno, e dove il travaglio si fa meno cupo e più intensa e accorta la rivelazione limpidissima del componimento. Ninnj Di Stefano Busà
Id: 344 Data: 18/08/2013 11:18:01
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- Poesia
Dicotomie
a cura di Ninnj Di Stefano Busà Nazario Pardini: DICOTOMIE. The Writer Edizioni. Milano. 2013. Pp. 320 Si può dire che ormai Nazario Pardini si presenta come uno dei poeti di grande e notevole spessore del secondo Novecento italiano. Ciò che colpisce di primo acchito è la sua capacità espressiva rigorosamente sintetica che ha conservato, delle prime opere, la schiettezza e l’incanto stilistico, oltre che l’efficacia di una fervida creatività e fantasia. La sua poesia è profonda, illuminata, incisiva con un nitore e una fluidità eccezionali. Si tratta davvero di un libro diverso, insolito e stupefacente, il suo Dicotomie perché fuori dagli schemi, nonché diverso anche dai suoi precedenti. Dunque, ritengo sia l’opera della piena maturità, il “clou” della sua attività poetica, incardinata nel senso della vita di cui ha percorso ogni tratto di strada, ogni sentiero impervio, ogni segmento vitale e ogni morte del passato, tra interiore ed esteriore, tra sacro e profano. Il poeta è perfettamente in sintonia con quell’idea di “poesia onesta” di sabiana memoria, una parola che non sia artefatta, arzigogolata e non si compiaccia del proprio potere magico che pure ha a iosa, ma che aderisca alla vita, all’idea di onestà del linguaggio, in una prospettiva storica e umana che ne contenga principi spontanei e linearità, visione della realtà e condivisione con gli altri. In questo libro Nazario Pardini raggiunge la perfezione senza nulla perdere in termini di fascino, d’eleganza della scrittura. Il poeta possiede il carisma come strumento di suggestione poetica, vi si evincono precisione d’immagini, testi memorabili e folgoranti. Sufficienti pochi versi per capire come l’autore sappia coniugare alla perfezione tutti i capitoli della sua storia con estrema semplicità, con sofferta e matura sensibilità emozionale, consegnandoci spaccati di vita e di memoria inossidabili. La poesia di Nazario Pardini è intessuta di nostalgia, si respira in abbondanza una diffusa serenità, in atmosfere calde e suggestive. “non profumano più quei bocci bianchi;/ ci sono uccelli a branchi/ che roteano largamente sui detriti/ dell’ingordigia umana”. L’accento viene posto con lucidità, ma anche con tenero distacco, con sensazioni e pensieri che si avvalgono di un linguismo chiaro, nitido, semplice, raffinato che possiede la grande capacità di testimoniare sul piano letterario un livello che salta all’occhio, per la grande compostezza del modulo espressivo, la trasparenza e la levigatezza del verso. Segno di grande maturità e autentica vocazione, voce limpida che sa giungere direttamente al cuore del lettore: “Facemmo un ombrello di carta e la sera ci avvicinò con l’aria seviziata dai guizzi del tramonto. Restammo assieme a lungo sotto il battito di quella volta fragile. Poi il silenzio di me che non sapevo il giorno, di te che ti affidavi a sera delle parole al volo, ci cullò quasi vestito dei fremiti del mare. Andare, andare era il tuo sogno. Al semaforo un emigrante lavavetri cercava tra i colori delle case un qualcosa che portasse al suo paese.” Anche il pensiero poetante illuminato dalla luce spirituale è un tratto distintivo di Nazario Pardini: i toni epico-lirici sono pervasi da una tensione orfica e di un trasfondere di coscienza che si evince e si individua come autentico e matamorfico coacervo di storia, che indaga il tempo e gli eventi, l’umanità e la divinità dell’universale che non si limitano a descrivere momenti solo alti, ma va al di là, oltre la ferita umana, oltre la fatica esistenziale per rivendicare un po’ d’infinito, quantomeno, la sensibilità di un “perdono” a qualche nota stonata, a qualche rievocazione di silenzio trafitto, che evidenzia e mette in luce il pianto e il dolore universali, tra i riconoscibili segni di questo ottimo poeta. Insomma un libro che c’è, è presente, si fa riconoscere, raggiunge note alte, armonizzandosi alla coscienza planetaria. Si presenta carismatico col segno preminente della pietas, tra gli aneliti estremi del perdono che si configura come immagine di un simbolismo misterico assoluto che pare redimere e del quale tutti ne costruiamo la spiritualità e i sentimenti, umanizzandone solitudini e assenze e aprendo il cuore alla bellezza del creato. Superlativi ad es. questi versi in memoria della madre: “Non di rado, alla sera, il tramonto si gonfiava per toccare coi suoi colori d’oro la mota di quei solchi. E mia madre si stupiva davanti a quei colori, davanti a quella volta iridescente. Con il falcino in mano, e il volto stanco, ammirava, stupita, quei giochi del tramonto sopra il campo. La straordinarietà della poesia di Pardini consiste nel voler sottrarre la bellezza della natura, del sogno, del mito agli annichilenti artigli del tempo, alle incidenze delle scoloriture e recuperarle alla vita, limitandone l’entropia e la corruzione, prolungando fin dove possibile le accensioni sublimi delle sue cromature, dei suoi riverberi, fermandone le note essenziali in atmosfera d’anima, con la struggenza ineluttabile e tragica della partecipazione, attraverso il sortilegio del ricordo o di una parola intensa e metafisica che possa limitare i danni della sua autodistruzione nei correlativi analogici oggettivi di eliotiana memoria. Ninnj Di Stefano Busà 15/04/2013
Id: 339 Data: 04/07/2013 08:36:00
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- Poesia
Intervista concessa a Miriam Binda da Ninnj Di Ste
In occasione dell'uscita alle stampe del Consuntivo Storico a cura: Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo edizioni: Kairos - NA INTERVISTA CONCESSA da Ninnj Di Stefano Busà a Miriam Binda di "AMINAMUNDI" Qui di seguito evidenziamo alcuni questiti molto interessanti che rimandano, anche se in una forma abbreviata, all'analisi sull'arte di oggi a contatto con le tecnologie (soprattutto internet) utilizzate per la divulgazione culturale in ambito editoriale. Si ringrazia la curatrice dell'Almanacco "L'EVOLUZIONE DELLE FORME POETICHE - la migliore produzione poetica dell'ultimo ventennio 1990-2012 (Kairos editore) dr.a Ninnj Di Stefano Busà che da anni si occupa di arte e letteratura; essendo ella "poetessa" ci ha dato ragguagli e precisazioni che approfondiscono il discorso sull'evoluzione delle forme poetiche a contatto con la comunicazione resa sulla rete "web". Domanda: L'evoluzione delle forme poetiche è un Almanacco edito dall'Edizioni Kairos di Napoli. Raccoglie le poesie di molti autori-poeti italiani. Lei, in qualità di Curatrice, insieme al Prof. Antonio Spagnuolo, perché nella prefazione sostiene che la poesia nell'età post-moderna sta attraversando sentieri nebulosi e asfittici? Questi sentieri come lei sostiene riguardano soprattutto il mondo della scuola, oppure, lei individua altri ambiti in cui l'indifferenza o meglio il menefreghismo toglie vigore al pregio artistico abbinato allo studio e approfondimento dell'arte epica e/o poetica? Ninnj Di Stefano Busà: la responsabilità di questa grave crisi che io denuncio nell’introduzione dell’Almanacco Storico da me curato è da addebitare soprattutto alla latitanza ed emarginazione del mondo editoriale. Lì, si crea la frattura tra la Poesia e la Storia, tra la cultura e la non cultura della parola poetica, che sta per estinguere il suo ruolo di apertura e di rivelazione di un sistema linguistico, che rendeva viva e mirabilmente intensa la pagina letteraria dei secoli passati: Lì, bisognerà insistere e tracciare segni di persuasione, perché non respingano tout court la poesia adducendo il motivo che non rende commercialmentesul mercato. E’ vero, la poesia non rende, (perché non è tangibile, non è prodotto combustibile), ma è molto più grave non offrire la possibilità di cimentarsi, piuttosto che avere un secolo senza poesia. In ogni modo sono convinta che se le case editrici offrissero la possibilità di istruire collane di medio/grande spessore, si stupirebbero di quanto sarebbero affollate le redazioni, e quanto denaro potrebbero incassare (in termini di mercato!!!). Invece i loro organi direttivi restano sordi, incapaci di captare l’esigenza della poesia, come la Russia ad es. che promuove e apprezza il messaggio poetico al di là della sua reale capitalizzazione in termini economici. Il che, in tempi di crisi, sarebbe auspicabile. Il poeta è l’unico a voler pagare di tasca sua il libretto di poesia e anche considerando il rigore economico fa un certo effetto...ma dall’altra parte trova un muro, una negazione netta e precisa, fatta esclusione per piccoli editori che ci speculano alla grande. La poesia non serve per gli addetti ai lavori del ns. secolo e non se ne parla di pubblicarla. In effetti sono gli addetti, i famosi direttori editoriali a decretarne la fine, lenta e inesorabile. La nuova figura del Web entro l’ambito della poesia ha decretato quasi del tutto l’esclusione del “cartaceo”. Oggi l’edito poetico si rivolge all’editing online, all’e-book soprattutto. La nuova generazione dei giovani poeti, vista la riluttanza e latitanza dell’Editore elitario, fa leva sulle tecnologie e strumentazioni del web, che sul piano tecnologico risulta valido a dare pubblicazione e divulgazione maggiori e di buon rendimento d’immagine. Domanda: Le nuove tecnologie e strumentazioni elettroniche "web" possono favorire la divulgazione di nuove forme poetiche anche attraverso la pubblicazione di testi e riferimenti bibliografici degli autori. Un tale servizio tecnologico era impensabile, nelle epoche passate, perché l'opera letteraria riceveva il consenso, per l'eventuale pubblicazione, dagli editing e dai critici letterari al servizio delle case editrici. Molti autori, soprattutto critici letterari squalificano l'uso delle nuove tecnologie perché sulla rete o nella rete di internet, manca la "garanzia di qualità" garantita invece dalle case editrici che pubblicano i libri di noti autori selezionati. Eppure se andiamo a vedere gli sviluppi delle arti figurative, anche musicali l'uso di impianti tecnologici e strumentazioni d'avanguardia sono utilizzati per creare opere d'arte che ricevono consensi internazionali. E questo aspetto tecnologico abbinato all'arte non offusca minimante l'avanguardia artistica anche del passato. Esempio: Benedict Radcliffe ha presentato una creazione o installazione reticolare con schemi web-elettronici, in collaborazione con una nota casa automobilistica ha poi presentato, questa sua opera d'arte, a Milano in occasione del Design Week. Lei pensa che per l'arte - poetica - non ci sia la possibilità di creare forme di comunicazione artistica o nuove installazioni in grado di unire l'arte della parola epica alla tecnologia informatica ? Ninnj Di Stefano Busà: certo, il “nuovo” che avanza a grandi passi, soppiantando l’antica supremazia e offuscando la priorità e il potere editorialistico del passato, viene respinto a priori e declassato, additandolo come squalificato o solo avanguardistico. Ma sono stati loro per primi a trattare la poesia così marginalmente, e, al contempo, così elitariamente da escluderla dai canali di rappresentazione e includerla tutta entro gli ambiti della conoscenza e delle congreghe strumentalistiche amicali, tali da ridurre le pubblicazioni a mere rarità, rarefatte a tal punto da contarle annualmente sulle dita di una mano. Non possono davvero lamentarsi ora che la poesia sfugge loro dalle mani, per avviarsi su sentieri tecnologici di sviluppi ulteriori e di diversificati canali di distribuzione e di ricchezza culturali. Riguardo poi l’ultima parte della sua domanda, perché no? Internet ha aperto orizzonti di vastissima connotazione moderna. Le nuove installazioni tecnologiche sono in grado di unificare il concetto d’arte, rendendolo accessibile a tutti. In tal senso può sopperire alla mancanza dell’editoria che “non ha capito” la fonte virtuale di mercato, in quanto bacino sotterraneo di grandi risorse e di alfabetizzazioni linguistiche proprie dell’evoluzione delle forme poetiche. Scopo della mia opera è di stimolare ai vari livelli la più ampia diffusione del fattore “poetico”, sollecitando la voglia di aprirsi ad una palingenesi di forme di scritture e di linguismi più evoluti.
Id: 324 Data: 08/02/2013 09:07:13
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- Letteratura
Intervista a Ninnj DiStefano Busà
Intervista alla scrittrice-poetessa Ninnj Di Stefano Busàa cura di Franco CampegianiLei è una scrittrice affermata e notevolmente conosciuta, come interpreta il bisogno di poesia in un mondo che è divenuto alieno da ogni forma sentimentale, lontano anni-luce dalle suggestioni interiori che disegnano la mappa dell’emozione e del privilegio di scrittura. Come spiega che la poesia resiste in un mondo così telematico, carico di messaggi multimediali, di comunicazioni via etere, in tempi reali, crede che la Poesia possa avere ancora ascolto? oppure viene messa da parte come obsoleta?La poesia non sarà mai obsoleta, possiede quel fascino strano, tra il magico e l'esoterico che fa la differenza, la distanzia dalle altre espressioni umane. Comunicare con la poesia è un evento irripetibile, quasi soprannaturale, l’incipit oa suggerisce un Ente superiore sconosciuto, il resto lo scrive il poeta con la sua umanità, la sua sensibilità, analizzando e scrutando quel suo mondo interiore fatto di deterrente stratiforme, che accompagna questa sorta di messaggio sulle ali del vento, lo fa vibrare, lo trasferisce agli altri come "dono" intermediario tra sé e l'ignoto, tra il sé egoistico e insincero e la voce dell'umanità che ascolta, che interloquisce attraverso la lingua del poeta ad un incanto primordiale di cui nessuno sa dare spiegazione. Sarebbe come dire che il messaggio della Poesia proviene dal profondo, dall'incognita genetica di un destino umano che non è stato creato per deludere la forma, ma per creare armonia e bellezza -tra le forme stesse-. Perciò non resterà mai ai margini di un processo culturale in evoluzione se si vuole continuare a istruire il concetto di progresso intellettuale, umano e storico dell'umanità. Dico sempre che : finché c'è un poeta sulla terra, la poesia vivrà e verrà diffusa nel cuore e nella mente come suprema bellezza del creato, supremo elogio dello spirito contro la materia.Ogni tanto si vede realizzare dalla TV, in modo del tutto occasionale qualche programma di poesia, qualche lettura. Lei ritiene che introdurre nel linguaggio mediatico la Poesia sia un modo per coinvolgere più lettori? cosa ne pensa?Se è vero che in Italia esistono secondo sondaggi Data-Media dai 13 milioni ai 15 milioni di scrittori di poesia, o pseudo tali) è anche vero che come minimo si prevedano 60.000 lettori, (per pareggiare quei famosi 4 lettori di manzoniana memoria). Ma nessuno di noi poeti immagina di avere quattro lettori, a dire il vero, è già tanto, se ci legge anche uno solo. Riguardo l'introduzione di programmi poetici così estemporanei e rarefatti nei format televisivi è un pessimo esempio di cultura, questo sta a significare che l'ascolto dei programmi culturali è sottovalutato e disatteso. In Italia non c'è la cultura lirica, (che è l'entroterra della cultura stessa, il suo antefattto, l'humus), non c'è preparazione a capire la Poesia e a renderne partecipe il pubblico, si ritiene (a priori, e a torto) che la cosa non interessi nessuno. Perciò la espongono in ore inconsuete, a notte fonda, o quando non hanno di meglio da proporre. Se qualche dirigente RAI la propone è perché ne è sensibilizzato individualmente, non perchè ritiene abbia "audience". La cosa sorprende, perché a interessarsi di poesia sono parecchie migliaia di autori, e con un apparato editorialistico, da indotto, che lascia intravvedere un mercato gonfio di lauti guadagni da parte di Editori, ma si ritiene (e ripeto a torto) che la Poesia interessi solo un pubblico d'elite, lasciando intendere che c'è una grande massa di utenza che non gradisce e non capisce. Non è affatto così, ma l'emarginazione coatta dei canali mediatici monopolizzati da soubrettine, veline, passaparoline,e dirigenti-mercanti senza eccessiva cultura ci hanno ormai abituati a livelli di arretratezza tali da essere considerati cavernicoli.Come viene recepito il messaggio poetico dal pubblico medio per intendersi, quello che non fa poesia?La poesia tra il pubblico medio è bene accolta, perché non vi può essere nel genere umano chi non la sappia apprezzare. La poesia è parte dell'esistente di ognuno, la parte più nobile e subliminale della storia spirituale, la più vicina a Dio, la più dotata di bellezza e di fascino, perché sa parlare al cuore e alle menti, sa dare un'accelerazione al vuoto che incombe, alla solitudine che attanaglia, al male che pervasivamente affrontiamo nel quotidiano. La poesia lenisce, rende il progetto d vita più denso, più ricco, più accettabile dal lato intellettiv e umano..Quale ruolo ha la poesia nel nostro tempo?I tempi che viviamo non sono i più favorevoli alla poesia, non ci orientano verso episodi di luce e di conciliazione interiori. Sono portatori d'inquietudine, di malcontento, di disagio sociale e morale. Il tessuto umano è lacerato da troppe incongruenze, inadeguatezze, assenze, distrazioni, corruzioni. Ognuno vive il suo malessere come qualcosa di ineluttabile, quasi con rassegnazione e passività. Bisognerebbe amarsi di più, invece. Amare ciò che di bello ci circonda, anche la Poesia ad es. perché ci porta un minimo di conforto e di compensazione che gratifica il nostro stato d'animo così martoriato e in perenne afflizione. La poesia equivale alle note alte di un violino, come la musica non può essere ignorata, perché tocca le corde sensibili dell'io, allo stesso modo la Poesia ci rende partecipi della cosmogonia, della vastità del nostro essere "cellula" dell'infinito, esuli temporanei in una terra che non ci appartiene. Il ruolo della Poesia dunque è di primaria importanza perché interagisce con un extraterreno, con un ultramaterico che è la condizione -sine qua non- della nostra essenza, della nostra esistenza.Il sentimento coinvolge la Poesia, questo è risaputo, ma il mondo dei giovani, soprattutto oggi, è disposto a seguire un “astratto”, subliminale, che non dà quasi nulla in termini di gratificazione immediata, di successo, e di guadagno facili?Tocca un ganglo scoperto della società di oggi. Una società fatta a immagine di celluloide, di interessi, di immagine, di guadagni facili. Per fortuna, i giovani non sono tutti così. Mi capita spesso, durante i vari incontri nelle Scuole di ogni ordine e grado, alle quali vengo chiamata per introdurre il tema poetico, di trovare giovani molto interessati alla Poesia, qualcuno di essi addirittura dotato di talento e pronto per dare il meglio di sé, certo con un po' di tirocinio e di buone letture. Il bisogno di Poesia è inversamente proporzionale alla necessità del guadagno. Vi sarà sempre chi preferirà il vile denaro ad una bella poesia, ma in ogni modo il mondo delle scuole è salvo, i nostri ragazzi sono migliori di quanto loro stessi sanno. Non sono marci dentro, vi è in loro la coscienza di un futuro migliore, l'alba di un giorno che verrà e non sarà di spregevole pecunia, ma di meravigliose armonie sulla terra dei padri. Non è perduta in loro la speranza. Non spegniamo la luce nei loro occhi, sottovalutando i loro immensi patrimoni intellettivi.È lo spessore intellettuale a creare la Poesia? o si nasce Poeti?La poesia è altro persino da se stessa. La poesia non la crea l'intelletto a tavolino, a freddo, attraverso il cerebralismo tout court, non la crea l'intellettualità astratta e aliena dal sentimento, è parte integrante di un patrimonio, intellettivo, sì, che definirei <percettivo> perché accoglie su di sé le maggiori, le più intense e ricche suggestioni, le più alte e meno abiette virtù dello spirito. Vi è una parte dell'intelletto, detta: "Area di Broca" (dal suo scopritore) che è deputata al linguaggio. Ragione questa che la mette al riparo da scempi di natura estranea alla poesia stessa, che è armonia, sinergia con i fattori interni all'essere, che sono la fonte dell'ispirazione perfettibile. In poche parole, lo spessore intellettuale vi è coinvolto, ma in minima parte, per il resto è un occhio vigile sul mondo, una finestra aperta nel nostro immaginario, nel panorama delle nostre indagini interiori che qualifica e rende unica e irripetibile la buona Poesia. Si può nascere poeti, ma si può scoprire di esserlo in più tarda età, bisogna solo essere dotati e sensibilizzati al poiein, cioè al fare, al creare in poesia.Bisogna riscoprire il valore dell’anima, l’eccellenza di una virtù al di fuori dalla mediocrità del quotidiano, per allargare gli orizzonti visibili della celebrazione dell’essere e del ruolo della Poesia.
Id: 319 Data: 28/12/2012 14:38:44
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- Poesia
Saggio sulla Poesia
di (Ninnj Di Stefano Busà)
Vi sono momenti nella vita di ognuno che hanno bisogno di ossigeno per respirare, di linfa per irrorare le arterie e le vene, di Poesia per potersi scaldare a un fuoco che, ad occhio nudo non c'è, ma invece, arde dal di dentro, scalda di una sua luce primeva, che non è pari a nessun'altra, e qualifica l'essere umano ai più alti rami della conoscenza, portandolo molto vicino al sogno, al mito, all'ideale che la consapevolezza di motivi interiori premono e fanno apparire gradualmente dalle profondità delle logiche del viaggio terreno, idealizzandolo o raffigurandolo come un concetto che si apre all'eternità, alla coscienza dell'essere. La tecnica non è essenziale, come lo stile, che in realtà sono strumenti al seguito della poesia, non la poesia in sè. Quello che realmente vale, oltre ogni altra considerazione, è l'acquisizione chiara e autentica di un raggiungimento gnomico: la differenza è notevole perché la storia della Poesia nasca e si configuri come elemento che, nato con l'uomo, lo sostituisce "poeticamente" nella sensazione, nella visione del mondo e lo trasforma, lo fa altro da sé in un contesto di manifestazioni umane che si accavallano, si snodano, si avviluppano nel raggiungimento finale più o meno brillante, più o meno armonico e individuato di oggetto lirico che, deve per sua natura, generare la Poesia. Il concetto parte dalla spitualità dell'individuo, il quale ad un certo punto della sua vita si pone domande, s'interroga sul mistero della vita e della morte, rivolge la sua attenzione all'enigma dell'esistente e si chiede la ragione del suo porsi nella scala della creazione, della giustificazione del dolore nel mondo, del bene e del male che l'uomo tenta di capire, oltre la cortina di ferro del suo limite materico. Il concetto stesso di Poesia non ha nulla di condivisibile con la matericità dell'uomo, la sua accezione e strettamente acquisita da una categoria pensante che possiede gli strumenti della logica e dell'intelligenza del cuore, ma strettamente correlati alla spiritualità, all'infinitezza dell'anima, al mistero infinito dell'universo e delle sue creature che vivono nel solco della terra le miserie ineludibili della materia, ma tentano nonostante tutto di ridurre la forza centrifuga che li trascina e travolge, attraverso una sorta di anelito ultraterreno, che qualifichi e ponga in alto le debolezze di creatura terrena, ne utilizzi suggestioni, sentimenti, visioni, immagini creando impalcature di sogno, luoghi dove ossigenarsi alla luce del sole, esponendosi a ricognizioni di cielo che sono impossibili ai NON POETI. La gravidanza della poesia, sia che essa venga avvertita in tenerissima età, o in età adulta, quando i giochi umani sono stati maturati al fuoco delle esperienze più disparate, è sempre la stessa. Viene alla luce un prodotto che ha del miracoloso. La parola lirica parla un linguaggio che ìmpari alla lotta stessa per farlo tacere. Non si può mettere il boccaglio ad un Poeta, come non si può sedare il pianto di un bambino. Entrambi avvertono incoercibile il richiamo a manifestarsi, perché entrambi i casi origina ed esplode con la stessa forza e lo stesso indefettibile orgoglio di volersi sottrarre al silenzio. Il poeta è amabile cantore, quanto il bimbo è amabile guastatore. La voce origina dalla sofferenza, dal dolore, dall'imponderabile necessità di farsi ascoltare, di lanciare un messaggio, di esprimere ciò che si sente dal di dentro. La Poesia è un canto della nostalgia, un proposito di trasformare la materia grezza del linguaggio comune in preziosissimo tessuto di gioia, di pianto, di eternità, di amore, di coraggio. Piccole schegge, tracce infinitesimali di noi ci avvertono che non siamo nati solo per spiegarci -la morte- ma per darci qualche momento di -buona morte- La vita non è solo crudezza e nudità è, anche, espressione vitale di una sofferenza incoercibile, ma saggiamente amministrata dalla mente che può dare i suoi buoni frutti, attraverso una sequenza di parole tendenti quanto più possibile alla perfezione, che orienti alla singolarità del bene, proiettandoci fuori dalla miseria, dalla povertà e pesantezza dell'orbita terrena, gravitazionale e desolata di solitudine mortale. Chi scrive poesia non è mai solo, si strugge di mal d'amore, di rimpianto, di assenza, di solitudine, soffre d'invisibili trascinamenti verso il basso, conosce il turbamento, il tormento, la delusione, la nostalgia, il disincanto, ma tuttavia, riesce a delineare dal nulla una forma di vita meno sgradevole e conflittuale. La Poesia per il poeta è come l'acqua per l'assetato: il poeta ha bisogno dell'oasi per rigenerarsi, per riadattarsi di volta in volta al deserto che dovrà attraversare fino alla morte. La pagina poetica non si affida mai al contrappunto smagato di passione, non è curiosità che si agita vanamente, non è coincidenza di simboli e di parole vuote in libertà; è condizione intima di un soggetto che avverte dentro di sé l'illimite patrimonio del sentimento, dei margini stretti in cui ci tiene rilegata la vita, l'assenza d'innocenza, di purezza, l'insidia che domina il nostro paradiso artificiale (mondo temporale) è vista in chiave di legittimazione per offrire alla pagine il nostro senso di libertà, di sfida, di delusione o di smarrimento, di monotonia, di consumate passioni. Le primizie dell'ingegno fortificate dalle parole poetiche stentano a farsi largo nel nostro ristretto mondo terreno. Ma la lezione attiva di una poetica che sappia vibrare e dare sensazioni più eternanti, meno svuotate e più fruibili è condivisa da tutti. Vi sarà sempre chi dice male della poesia. E'qui, in questo solco che bisogna proteggerla, bisogna darle l'impronta di continuità, considerarla testimonial da consegnare al futuro della storia. Chi è teso ad un approfondimento di coscienza, consapevole che l'assenza, il lutto, le traversie appartengono all'umano non vedrà mai la poesia come una minaccia, al contrario avrà un motivo in più per restituirle attraverso una chiave di lettura, la formula magica per la quale è stata chiamata , che è poi la coerenza autentica fra l'essere e il dover essere, fra la certezza e il dubbio, fra la tesi e l'antitesi, fra il bene e il male.Proprio in questa frammentazione di sé, in questo spezzarsi oltre le parole udibili e provvisorie sta la grandezza della poesia. Un'attribuzione di diritto va per definizione a coloro che accogliendo il segno poetico lo regolano e lo trasformano in vertici alti di letterarietà, potenza di linguaggio sostitutivo della realtà miserevole che la determina. Non si tratta di mettere in dubbio la sincerità o la verità dei poeti, ma di entrare nel loro mondo, carpirne i simboli, le immagini, le funzioni del linguaggio per poterli proiettare in una cronologia (a)temporale che sia l'oggettivazione del soggetto poetico.
... Seconda puntata del 31.3.2009
Che cos'è Poesia l'abbiamo spiegato tante volte. Sono stati spesi fiumi d'inchiostro per chiarire, dissentire, spiegare, esplorare il pianeta Poesia. Ma vi posso assicurare che è una goccia in un mare, quando si tratta di dissertare o tentare di avvicinarci a questo mondo misterioso del nostro organigramma interiore ci troviamo nell'empasse, avvertiamo che non è possibile fare valutazioni o dare spiegazioni di un "qualcosa" di così vasto e imponderabile, quale solo può essere l'organismo umano che è fatto di materia e di spirito, e proprio la spiritualità sta tutta racchiusa in questo reperto referenziale, in questa parte del nostro D.N.A che ci contraddistingue e ci qualifica. Hanno definita la poesia in mille modi. Ma si ha un bel dire, la poesia è la vita che se ne fugge via, è la parentesi còlta del nostro più umano sentire, il raggio di sole che s'infila nel nostro quotidiano grigiore e lo rende più tenue, più morbido, ne sfuma i contorni, regge il paragone con la vita, con la salute, con la bellezza del mondo. Il principio su cui si fonda non ci è dato saperlo, l'origine esatta di tale compulsivo momento di grazia, non ci avverte della sua specifica natura, da dove viene, dove và l'illuminazione poetica, perché si delinea. Credo di non sbagliare avvertendo il lettore che è un raro privilegio dell'anima, una proiezione all'infinito del proprio -io- più profondo che vuole esprimere con parole molto vicine alla perfezione un tratto del proprio apparato interiore che altrimenti passerebbe inosservato. Si distacca e distanzia notevolmente, allora, la parola lirica dal linguaggio comune che è inquinato da scorie verbali, banale, visibilmente contaminato dal vernacolo, dalla matrice culturale di ognuno, dei popoli che sono diversificati fra loro per i loro dialetti, per le interferenze culturali e le differenze socio/ambientali, dai moti del cuore che per quanto avvertano gli stessi stimoli, non hanno in comune le stesse reazioni al dolore, alla gioia, alla speranza, al bene e al male. Sono differenti gli usi e i costumi, l'ambiente, il grado di civiltà e di cultura, anche in fatto di Poesia. Prendete ad es. i Poeti stranieri, assolutamente distanti dalla nostra realtà, eppure alcuni di loro di eccezionale valore, o quelli francesi come Baudelaire , o spagnoli come Garcia Lorca, ognuno con una sua storia diversa, ognuno col suo profilo biologico/intelletuale che lo contraddistingue. Uguali solo nella misura del livello artistico di altissima rilevanza, nella vastità lirica che li identifica o nel patrimonio intellettivo che li definisce. Ma, perché solo pochi Poeti hanno il lauro dell'eternità? Perché solo in pochi giungono alla pagina Storica della Letteratura?perché sono immortalati così pochi nell'immenso mare della Poesia? La risposta è presto data. Solo in numero limitatissimo riescono a sfuggire dalle maglie della banalità, dalla palude dell'anonimato per giungere agli altari del vaglio storico e, dunque della consacrazione a livello, se non mondiale, almeno nazionale. Questo avviene perché Poeti Veri si nasce, poeti discreti si può diventare, poeti grandi si può, se si hanno entrambe le due condizioni e magari un pizzico di fortuna. E però, una marea montante di poeti giunge ogni anno al traguardo di una pubblicazione (a pagamento), un numero rilevante di autori si pone in dirittura d'arrivo presso le Grandi Case Editrici, sperando nel miracolo, che non si compie quasi mai. Gli Editorialisti elitari li rifiutano in massa, sperperando riottosi in un esclusivismo di categoria, anche quel numero esiguo, forse, "dieci poeti" sui quali andrebbe appuntata l'attenzione dei critici di valore, onesti e obiettivi, anch'essi garanti in un futuro ormai prossimo del passaggio testimoniale, del vaglio storico che ovviamente li vedrà responsabili di omissioni e li taccerà da incompetenti. Cosa distingue allora un poeta della domenica da un Montale, un Ungaretti, un Quasimodo? tanto per restare nel nostro territorio nazionale. Bè, decisamente il valore del loro verbo, quando per verbo (o Verba) s'intenda quell'unicuum, quell'elevato potere linguistico che fa la forma, la categoria pensante, il privilegio di saper dire cose che altri vorrebbero e non sanno esprimere (perlomeno con la stessa intensità, con la stessa capacità espressiva, con la grandezza impareggiabile del loro idioma poetico. Ecco allora, perchè ogni secolo ne sforna pochi, la ragione sta nell'assoluta, inderogabile, sublime forza della loro interpretazione personale. Come ogni attore esprime la sua artistica performance sul palcoscenico, o un Velasquez o un Tintoretto sulla tela, una Maria Callas o un Giuseppe Di Stefano nel genere lirico/melodico. La verità del merito emerge e si fa strada nel percorso artistico culturale delle varie categorie, che come punta d'icesberg svetta in alto. La capacità del linguaggio implica innanzitutto una preparazione di fondo, una cultura generale che prepara e fa da humus ad una diversificazione genetico-intellettuale che differenzia le facoltà della parola, le capacità del sentire, le modalità spressive che, vengono raffinate a tal punto da realizzare le diversità metodologiche. La luce dell'intelligenza e della sensibilità non sono per tutti eguali. Vi è un sottofondo di talento, di creatività che la fa da padrone sulle risorse umane, sulle caratterizzazioni della specie. Per tornare all'argomento poetico, occorre nel caso specifico avere il fattore genetico appropriato, ma anche una felicità inventiva, una creatività logico/intellettiva che sappia sfruttare al meglio il territorio che si va ad esplorare. Tutti si nasce allo stesso modo, quando si viene al mondo si è ignari di tutto: sta poi alle risorse dello spirito, dell'intelletto e della fantasia sviluppare quel patriminio statico che è di tutti, ma che diventerà di gran lunga superiore in taluni piuttosto che in altri. Come la luce che scalda non è uguale per tutte le longitudini e le latitudini, per via della diversificata conformazione e posizione cosmica dei pianeti intorno alla terra e della terra intorno al suo asse, così la poesia si materializza sublime in certuni, che andranno a costituire il nucleo lirico di rilevanza mondiale e mediocre o quasi nulla in altri che non possiedono il privilegio del dono. Perché di dono si tratta, malgrado tutto, checché se ne dica, la poesia con l'A maiuscola, quella che Luzi definì in pochi, emblematici versi: "Vola Alta Poesia, cresci in profondità,/ tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi " . E vi aggiungo di mio pugno: "tocca le controversie, l'inferno delle tue vicissitudini per innalzarti all'immensità dell'attimo". Ed è in quell'attimo che si diventa immortale, a volte per due parole, un sintagma, una frase si passa alla storia, si autodefinisce la profondità che ne rappresenta il fine ultimo, l'identificazione solo a se stessi: Pensate a quel verso:"ognuno è solo nel cuore della terra ed è subito sera" Così sboccia la Poesia, in versi, in desideri, in sfavillìi metamorfici fluttuanti, in lampeggiamenti estemporanei, ma possono essere brandelli di felicità che il pensiero traduce in Poesia. Come la terra senza dolcezza d'alberi e d'acqua diventerebbe arida e spenta, anche il mondo senza la Poesia sarebbe dissipato viaggio senza approdo. Il Poeta parla per immagini, per metafore, come il rabdomante scava nelle viscere della terra l'acqua del suo misterioso dominio invisibile -il sottosuolo-. Ed è proprio dal nostro sottosuolo privatissimo, dalle oscure latebre del nostro essere, dalle profondità abissali della fantasia, del sogno, dell'immaginifico che si profila e canta forte e chiara la grandezza del poeta. L'immenso sta alla Poesia, come il sole sta in bocca al suo mattino più radioso.
....1 aprile 2009 Per tornare al tema centrale della Poesia in quanto vita, in quanto carne e sangue del nostro percorso terreno vi sottolineo le capacità, le intime e lucide commistioni e fusioni che il Poeta deve creare dal suo mondo interiore. Il poeta è colu che dal nulla sa estrarre l'oro della terra e portarlo al di fuori di sé attraverso le parole indicative di uno stato d'animo che spesso è miccia al suo interno, gli ardono dentro come un fuoco. Il momentaneo passaggio attraverso i territori impervi fino alla scrittura si può chiamare ispirazione, e il poeta senza l'isìpirazione e un ciocco di legno spento: si dà fuoco attraverso un flusso di sinapsi o (collegamenti interni) alla zona del cervello adibita comunemente al linguaggio, sia esso espresso in parole di uso comune, che in scrittura poetica. La scrittura poetica è un fattore interno alle reali pulsioni dell'individuo, che ne è sollecitato o non da una spontanea schiettezza di.matrice istintuale. Il poeta lascia la traccia del suo ornamento sulla terra attraverso l'ordito della sua scrittura e ospita in sé la parola incantatrice che oscilla fra il dolore e la speranza in un territorio assolutamente ostile, quale la terra in cui abitiamo. L'ostracismo che si fa ai Poeti in questo momento di passaggio, di transizione epocale fra un sistema che chiamerei emotivo/umanistico nella categoria dell'intelligenza e quello informatico/astrattodel Ventunesimo secolo è caratterizzato da un rifiuto, che mi appare del tutto fuori luogo. L'umanità dell'homo sapiens è ormai un fatto acclarato, incontrovertibile; c'è e resisterà agli attacchi dell'informatica per tanto tempo ancora. L'uom moderno pure se attratto e calamitato dalvideogame, dalla rampa satellitare, dagli astrusi congegni avveniristici avrà sempre bisogno d'interrogarsi, di parlare al cuore delle cose, di dialogare dal vivo col suo prossimo per sentirsi vivo egli stesso, per saggiare la compattezza del suo sogno, per modellarsi all'esigenza di una Bellezza estetizzante e sublimante, e che decisamente lo qualifica, e lo affranca dalla bestia. Non può escluderla questa bellezza che avverte come parametro dentro di sè per non guastare e compromettere il tessuto umanizzante e cognitivo della sua intelligenza, per non escludere il meglio di se stesso - lo spirito- Vi sono ostinazioni ben più temibili dall'ostinazione di voler fare i poeti: Il progetto dei Poeti è visitato da una consuetudine a voler indagare, cercare in sè verità ultime che ci trascendono. La Trascendenza è un territorio inesplorato come la metafisica o il Mistero Divino, l'infinitezza della Fede. Il Poeta è un visionario, viene tacciato per vanesio, per un abitatore di nuvole, ma è proprio lo stato di grazia che occorre per visitare luoghi di indagine ai confini con la realtà, enigmi di gran lunga percorribili col solo intuito, col sesto senso, con l'intellegenza del cuore. Ecco perché non è da tutti fare poesia. Sarebbe fin troppo facile mettere giù a tavolino o come dico sempre < a freddo> le note meravigliose di un Mozart o i versi eccellenti di un Leopardi, di un Dante di un Petrarca. La vita ci consegna uno o due autori eccelsi per ogni secolo, ed è già un grandissimo privilegio saperli riconoscere, saperli apprezzare e amare.
Id: 316 Data: 23/12/2012 20:34:01
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- Letteratura
Lopera poetica di Ciro Vitiello
L’Opera poetica di Ciro Vitiello è proiezione e trasfigurazione delle forme che la caratterizzano di Ninnj Di Stefano Busà É un corpo unico la poesia di Ciro Vitiello, come roccia di minerale durissima che taglia nettamente il traguardo da altre forme di linguaggio, nel riformulare una voce che unifica e trasferisce il messaggio lirico nella sua limpidezza, nonché nel poematico spazio di un pensiero che si fa di volta in volta riflettente, immaginifico, recettore di un mondo apparente che però ha la capacità di trasformarsi in tensionale, sentimentale, inquieto, interpretativo di processi mentali che hanno il senso della realtà, ma l’attitudine ad essere altro da sé, in un altrove immaginico, fino alle massime punte della visionarietà. È un procedimento mentale che sa cogliere la visione del mondo e orchestrarla per suo conto, con l’emotività che gli è congeniale, attraversando tutte o quasi le occasioni di percezioni valoriali, morali, sociali, amorose. Il componimento si erge con tutta la carica prorompente del tratto fisiologico-biografico. Una stesura essenziale, una inquietudine e un travaglio che gli derivano dall’essere per tentare elementi di reinvenzione iconografico-espressive. Vi sono tensioni a livello emozionale nella sua produzione poetica. Ciro Vitiello si mostra in tutta l’ampiezza del suo territorio interiore, fatto di travaglio e di tormentato stupore, di abbagli e consapevolezza, di apparenti sondaggi all’interno della propria esperienza di vita che direttamente si connettono alla matrice profonda del suo verso. Invece che interpretarla egli la determina la parola, in una scrittura ampia e ben dosata nei dettagli, che sa ottenere un esito compiutamente e felicemente raggiunto a mezzo di un lessico visivo, sofferto, senza essere mai destabilizzante, vigile, maturo, fruibile in tutta l’ampiezza del contenuto metaforico e dell’apparato correlativo, attraverso adeguate e trasfigurative rappresentazioni. La scansione e il ritmo sono l’antefatto di una sigla letteraria perfettamente autonoma che sa variare la scrittura a seconda delle circostanza e delle esperienze, evidenziandone una puntuale e acuta totalità d’intermediazione tra i vari elementi. Colpisce di questo autore la grandiosa e sapiente modalità di concatenazione che avverte in profondità un rapporto privilegiato con la poesia, e ne sa conquistare l’anima mundi, ne sa estrapolare e agglutinare l’esemplificazione verbale, attraverso il gioco interferente dei raffronti delle componenti lessicali, aprendosi all’indagine a 360° per approfondire le dinamiche delle immagini, donarsi alla vita con tutta la carica ontogico/ sperimentale che ne moltiplica la potente e definitiva sintassi espressiva. Si evince la compostezza del verso che riproduce in motivazioni vaste e ben delineate le istanza amorose più intime, così come quelle sociali, morali, coniugandone l’archetipo della pagina con le modalità delle diversificate sinergie liriche. “Quando il sole taglia il viso e s’inerpica sugli aranci,/ tu non fingerti eco di pene, ma rivèstiti di luce, Jole-/ circoscritta di grazia nella bionda chioma”. (pag.30, Todestrieb). Vi è in tutta la produzione lirica di Ciro Vitiello ben delineata la configurazione allegorica che si mostra ad un andamento costitutivo dell’io e del noi, una formula felice che contempla l’esistenza di un altrove, di un abbinamento tra noi e il Nostos, tra l’impianto erotico e la vita, tra il bene e il male, tra la verità e il dubbio. Ben individuati sono i raccordi e le concatenazioni di pensiero che cercano il congiungimento metafisico con la realtà circostante, trepidanti giochi di solarità appaiono certi enjambement, certe controversie che detengono andamento di narrazione, nella cangiante partitura delle accensioni testuali. L’invenzione immaginifica resta sempre alta e presuppone un’astrazione di riverberi talvolta abbrividenti, altre solari: “Mi fonde alla luce la soave luce/ del crepuscolo” (Rflesso magico e anche in Ripiegamento). Molto ben costruiti questi versi che sanno coniugare stratificazioni e significati di una introspezione non secondaria, che si ricollega al processo mentale attraverso la scomposizione degli elementi di saldatura: “ Dissolversi è destino, ma basta una sillaba, /una sola, perché il tempo si ripeta e duri! //...// dissipo le fervide vocali, sfioro l’amaro/ istante, ritaglio le forme del nostro fiato per incidere” ( Dissolversi è destino). Notare il continuum tra la simmetria dell’insieme e la rarefazione di certi stadii preesistenti, la quasi vivisezione, che determina la scissione delle istanze simboliche e la trasfigurazione concettuale si articola dalla proiezione dell’io stesso dall’altro di sè nell’imperturbabilità mimetica della ragione antinomica che s’instaura, tra la verità e il suo nulla, in cui si dibatte l’io indifeso quando dall’assenza riformula la coesistenza del riscatto liberatorio, per superare l’analogismo della -- perdita e la dimensione morfologica metastorica del logos, dei simboli -- Vitiello è senza dubbio una voce ampia e forte nel diorama della poesia del secondo Novecento perchè la concrezione si avvale di procedimenti linguistici che sono percettivi e ispirativi di tutta la sua soggettività individuale. Ninnj Di Stefano Bu
Id: 311 Data: 04/12/2012 10:12:31
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- Letteratura
I poeti di Vico Acitillo
I Poeti di Vico Acitillo, di Alessandro Fo, Poetry Wave, Napoli 2009 di Ninnj Di Stefano Busà D’incomparabile bellezza e stile queste poesie di Alessandro Fo. Hanno insieme la tenerezza e l’asprezza di una carne dilacerata che si va ricomponendo da sé, si va richiudendo dalla sua stessa cicatrice, dalla pacata dolenzìa di un reperto appartenuto a non so chi o a che cosa. Enigmatica, profonda, abissale, ma anche magmatica, estrema, avventurosa, fluente, come di fiume che scorre tra due argini che non si toccano mai, ma che nell’equidistanza, nel parallelismo trovano la forza di coniugarsi e trasfondersi. Così mi appare la poetica di Fo, un raro connubio di “fioriture” mutevoli e “mutandi”, dentro un linguismo che incide notevolmente sulle sfumature, insiste sui minimi particolari, sulle orchestrazioni, sui ritmi sempre intensi, accompagnati da costruendi dettami che mostrano la realtà nuda e remota, ma dentro una liturgia sacrale che li trasfonde e li immortala Fo è uno di quei poeti che utilizza l’apparente quotidianità dei luoghi, dei tempi, delle cose pur minime, per dar loro un’aurea d’eternità, ridare loro smalto e potenza. Lo fa con tale maestrìa da imporre loro (alle cose) una veste regale, una forza e vivacità che vanno ad imprimere ai versi un corrispettivo armonico, uno stile suo personale abilmente messo a “punto” da un coordinamento di immagini che sono l’esclusione assoluta di ogni infingimento di scrittura. Fo è molto abile ad utilizzare strumenti di (re)strutturazione mnemonica che sanno cogliere l’intera gamma del reale e la prospettica visione delle cose. Pochi poeti come lui hanno la capacità di saper impostare e tessere un tale canovaccio tra l’ironico e la parodia, tra l’affabulazione e il sarcasmo, tra il bene e il male, tra la luce e l’ombra, tra la verità e il nulla: una poesia polisemica che non vive di luce riflessa, ma è fonte luminosa, dà splendore, prospettiva, in forma marcatamente quotidiana; sfiora la gamma completa degli avvenimenti umani, estraendone di ognuno la qualità dell’anima (anima mundi), perché ogni sentimento, ogni verso esprima le caratteristiche peculiari di un messaggio universale, intriso, sì, di tristezza e affanno, ma anche solare in cui vige e si trasforma il vissuto di ognuno, attraverso una perizia (la sua) che incanta, astuta quanto basta, illimpidita da un virtuosimo formale che fa la differenza, fatto di giochi e alliterazioni(?), di metafore e allegorie profonde, quasi ai limiti di un più gozzaniano momento lirico, che interloquisce dal profondo col suo “io” intimo e meditativo. In definitiva, trattasi di un poeta intellettualmente colto, preparato, con un (so)strato culturale molto elevato che usa la parola come lama quando affonda nel miele, la tratta con la provvisorarietà imposta dai tempi e dai luoghi che inevitabilmente la vita impone, ma con una nota distintiva di eleganza, di super raffinata padronanza del linguaggio poetico, come mi pare oggi ve ne siano pochi.
Id: 301 Data: 01/09/2012 17:49:13
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- Letteratura
Bertgang, di Luigi Fontanella
Bertgang (fantasia onirica) di Luigi Fontanella, pref. di G. Pontiggia, Moretti & Vitale, 2012 Di Ninnj Di Stefano Busà Con “Bertgang” (Fantasia onirica), Luigi Fontanella ci presenta la sua ultima fatica lirica, che, a dire il vero, sembra andare oltre le forze e il fascino visionario di un deja vu, verso un mito irrisolto, oltre la sfumata, eppure, viva e presente allegoria di una figura prepotentemente impressa nella sua mente di sognatore e di poeta, per quella fluida metamorfosi erotica che lo contraddistingue. La -donna- s’inquadra in un reticolo di fantasia, di perenne smarrimento di fascino e di teorico dissolvimento che entra nelle spire di un immaginario astrattismo, ma al contempo imprime un melodioso, quasi magico richiamo all’Eden primitivo della specie umana: Adamo ed Eva cacciati attraverso l’ignobile azione della disobbedienza, sono protagonisti della loro vicenda personale, ma anche di quella dell’intera umanità che rivelerà ed evocherà i punti più salienti dell’inconscio freudiano. Compagni di sventura, in un delirio di ebbrezza, che va a perdersi nei sensi e nella forza dell’Eros, essi vivranno l’esilio del sensi e della carne che ideologicamente e psichicamente deformano la figura dellEros delirante e contraddittorio del mito moderno. La parabola è rivisitata da Fontanella con grande e delicata fantasia onirico-sentimentale: vi sono tutti gli elementi per catalogarla entro un labirintismo di sogni, di desideri, di aspirazioni che ognun si porta dentro, seppure in un pensiero teorico di astrattismo votato a sentimenti seducenti e impalpabili. La psiche viene (ri)visitata alla Freud: una compagine di fantasie sul punto di esplodere al primo alito di vento...e Fontanella nel suo poemetto mostra chiaramente che Zoe Bertgang gli ricorda il modello, quantomeno il <fantasma> di una realtà che prende forma e purezza poetiche dalla rivisitazione di metamorfosi oniriche: il sogno si traduce in un’idea di danza e di camminamento, identificabili in Gradiva, come evocazione di una figura che è scolpita nell’anima tal quale il simbolismo lo mostra: epifania e vertigine di un mondo che rilancia la bellezza dell’Eros: un amore o una narrazione di felicità immaginifica mai raggiunta, che il desiderio coglie nel suo interessante <transfert> : “Vano sogno dunque il mio e solo vera/ la mia follia?” un sogno, un criptico smarrimento, un’apoteosi del ricordo che dell’amarcord restituisce interamente tutta la gamma della sensazioni virtuali o non, della passione salvifica dell’autore o del suo allusivo riferimento, quale archetipo trascolorante o in via di estinzione, sciolto da ogni qualsivoglia trama, purtuttavia, doloroso e pungente, avulso dalla felicità stringente e arcana di un simbolismo, più vicino all’atmosfera quasi idilliaco-metafisica del poemetto, che vuole rappresentare le zone oscure di una vertigine velleitaria e visionaria, atta a sperimentare i contrappunti, le orchestrazioni, le narrazioni visionarie e le atmosfere surreali, magiche e composite di questa poesia ricca di note dolcissime, che sanno ben bilanciare un linguaggio, aulico, denso di note misteriche e di suspence, di aree magiche, surreali, carico di desiderio insopprimibile, atto ad esplorare le vie mnemoniche per portare alla luce in un gioco di dissepolti e deliranti riferimenti la carica erotica del protagonista, il quale vi costruisce il disegno di una fanciulla rassomigliante, probabilmente amata dal poeta: una "reverie" ripresa nel movimento fluido di danza e nella grazia che le imprime il suo camminamento. L’emblema tragico del mito, la fuggevole consapevolezza di una magìa, di un’elegia che non tornano, (sembra non sia stato risolto del tutto entro l’ambito psicologico dell’autore il nodo della trascendenza psicoanalitica), di cui ancora ne riconosce i segni, ne porta tracce indelebili, ne intuisce presenze oniriche, fantasie "erotiche" attraverso l’evocazione di Gradiva/Zoe. Norbert o Fontanella amano lo stesso modello femminile, ne sono attratti fino a trasfigurare l’Eros. Il suo richiamo, attraverso il fantasma icastico e seducente di un passo rapido e leggiadro che sa fluttuare come aria dentro la psiche, ne analizza ne indaga i contorni, parla tutte le lingue del cuore, ed è tanto intenso e tenace da ispirare l’alta poesia di questo poeta.
Id: 295 Data: 13/08/2012 10:55:07
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- Letteratura
Identificazione Biometrica
di Ninnj Di Stefano Busà Una personalità poliedrica e preparata, una penna che sa dosare e ritmare in forma di scrittura la condizione dell'esistente e dell'assente che, dalla sua dissertazione, prende forma "biometrica"appunto, come lui stesso titola il suo volume. La scrittura e la poesia di Mario Lunetta sono il contrario del lirismo affabulante e mieloso: vi si riscontra una poetica affilata, tagliente, presente che mostra appieno la società scardinata e impotente di una generazione in declino, paranoica e multimediale, basata sulla precaria condizione del genere umano, votato ad un ultramodernismo smisurato, quanto privo di connotazioni interiori, di assenze valoriali, sterile e incompiuto, di un tecnologismo sofisticato, ma arido, fatto di misure aliene al vivere civile, sottoposte ad attriti, a sforzi, a conflitti, a disuguaglianze, a disordini invero inamovibili, con una scarsa o nulla propensione a rimuovere alcunché, che possa imprimere una sterzata di verità, di giustizia, di superamento sociali e umani. Una società e umanità, le nostre, drammaticamente povere in spiritualità. Infatti, "in interiore homini" vi appare come una forma aliena di protagonismo irreversibile: una società slabbrata, inadeguata ad una vita senza qualità superiori, ma indifferente all'azione, inconsapevole del suo inenarrabile "seccume", pur ammetendo l'arsura in cui è immersa, e di cui è la prima forse a riconoscerne l'esacerbata sterilità, l'impreparazione a porvi rimedio e ad avvertire qualsiasi forma di realtà viva e fisiologica. Viviamo in un limbo in cui si sente pericoloso il dominio delle forze avverse, ma si è incapaci di reagire, di apportare una correzione di rotta alla nave in deriva. un mondo che sopravanza in pigrizia e nel sonno riparatore di una amorfa e ignava raffigurazione dell'essere in profonda mutazione di sé e da sé. Una focale enucleazione dei motivi che soggiacciono al pragmatismo dei sentimenti, degli affetti valoriali dell'uomo, una perseveranza all'inerzia che fa rischiare l'implosione in sé. Mario Lunetta ingloba un pensiero forte, ammonisce e addita spesso responsabilità dell'uomo vanaglorioso e vacuo, perso in un mondo irreale, da cui non può che adeguarsi ad una incongrua situazione di stallo della civiltà, di necrosi quale esito di un fallimento culturale e umano che ha determinato lo svilimento e l'anarchia di un periodo storico tra i più difficili e mistificatori sul piano culturale della specie. La scrittura di Mario Lunetta è il cuore pulsante del suo sentire in controcorente, attraverso una potente rimozione dell'omologazione colletiva, che in poesia è ben lungi dal dare risultati autentici, perché, come bene afferma lo scrittore, ne diviene il perpetrare di un male supremo di degenerazione non solo linguistica, che non dà scampo alla visione d'insieme e cresce a danno di un mondo, che si ravvisa estraneo alla logica, all'autoconsapevolezza, alla dottrina e libertà di pensiero e d'intelletto. Infine si estenua l'idealità del vissuto, perché non corroborata da forze vitalistiche al bene e al giusto. In uno dei suoi affondi, il poeta Lunetta afferma che le parole "sono ordigni esplosivi a tempo" (Depistaggi pag.4), proprio a significare il genere di miccia o di polvere che innesca il dramma di un mondo in disordine, divorato dal "sistema" inerme, che non fa nulla per ottemperare a rimedi o rendersi immuni dalla drammaticità invasiva e pervasiva che incombe.
Id: 294 Data: 30/07/2012 17:04:51
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- Cultura
Non cè tempo per il Messia
Da: Ninnj Di Stefano Busà
Altra “piece” teatrale di grande spessore lirico, come ormai ci ha abituati Carmen Moscariello, la quale dopo il suo recente “Giordano Bruno, sorgente di fuoco”mette in versi una rivoluzionaria indagine metastorica in grado di offrire la potenza della voce introspettiva.
Quella di “NON E’ TEMPO PER IL MESSIA”infatti, non è comune sceneggiatura o regìa per declamare nelle platee del mondo, è poetica che squassa i timpani e lascia tracce di Trascendenza dai contorni sfumati, ma carichi di un’emozione musicale propiziatrice al dire, che va oltre: origina dalla reinvenzione di segni che avvertono l’ampia misura del dissenso di oggi, nei confronti di un Ente Superiore quasi dimenticato o rimosso, (da qui il titolo), che vigila le nostre forze nello scenario di un canto, quasi primordiale, votato alla notte dei tempi, a quella Verità fatta di ipotesi, ma anche di aperture alari verso il cielo.
La poetica di Carmen Moscariello lascia stupefatti, perché sa trovare la formula più idonea della comprensione verso una tematica difficile e ostica come è quella a sfondo religioso, che adempie al compito di indagare sul Mistero della fede, dentro quel credo subliminante e divaricante quale può essere l’esplorazione nei territori dell’Incognito.
Un tuono, per così dire, un boato d’immense proporzioni, che intende portarsi oltre il limite della parola provvisoria, banale, sterile; sviare dalla miseria umana, verso lidi più estesi in differenziali di energia spirituale, rinnovando un coro d’angeli, intonandolo ad una Misericordia, ad una Pietas che vanno oltre, ben oltre, il limite della percezione di un clima ad effetto.
L’opera dell’autrice intende accordarisi a pause di riflessione e di scavo nei luoghi di Dio: “Il poeta ha solo la parola/.../ vorrebbe egli gridare per i mille che non hanno volto.”
La poetica di Carmen è matura, è limpida, è cristallo di rocca dentro l’oscurantismo cronicizzato del nostro miserevole margine terreno, sa imprimere una svolta alla logica di una indagine cristologico/fideistica/ecumenica come pochi.
La natura stessa dell’autrice sembra portata ad affrontare problematiche aspre, vette impervie, visitare altari dimenticati, luoghi inconsueti, nicchie oscurate dal perdono, abiurate da un’eclissi di Luce, dove il misfatto e il Male si accumulano per inerzia dei sopravvissuti o per allontanamento dai luoghi di culto: noi che ci assumiamo l’impegno di evadere dalle cose sante e giuste non teniamo mai d’occhio -la verità dell’oltre- la parte più accorata dell’ io che ci avverte di un’assenza o di una presenza occultate dalle tenebre o, che dir si voglia, da uno scetticismo agnostico e dall’indifferenza verso Dio.
Carmen Moscariello si fa interprete di una speranza, portavoce di una premessa nobile che è quella di divulgare la parola profetica all’interno dei lettori di poesia: e “ il dies irae ,/ spogli davanti a Dio”, lo mostra in tutta la sua equazione -sine qua non - : niente Dio niente salvezza, pare voglia intendere l’autrice.
La sonorità del suo canto è come quella di un òboe che suona musiche celestiali, tali da distogliere dalla noia e dall’ignavia, riflettere sulla luce sempriterna di una Gloria superiore, a fronte di una cecità gnoseologica.
E’ significativo affrontare l’Assoluto, avendo integro il senso della vita, la tipologia di una riconciliazione in Cristo, una chiarezza tensionale verso una creazione di Grazia che sia un itinerario dello spirito, un travalicamento della parola, in modo che essa sia forgiata a strumenti gnoseologici che riconoscano la trasmutazione mortale, sanno l’impedimento di ognuno nel guardare “oltre”
Allora, è l’anima il progetto della Pietà cristiana? l’illuminismo della ragione assente che ne formula il dissidio con la corporeità materica? corpo e anima troveranno un’intesa, un’armonia che instauri quella sorta di scintilla? può mai divenire catarsi salvifica l’attuale perseverante diniego delle regole?
Avere forti radici è necessario per arginare il Male, identificarsi alla Purezza dell’aldilà, alla connotazione ultima che effonde un richiamo di forte ispirazione cristiana.
E’ necessaria una devozione ai principi fideistici che coincida con il significante, scandito a lettere d’oro nel panorama della speranza, nella metamorfosi di una libertà che, dall’Immanenza costruisca la Trascendenza, attraverso il Concetto unitario, inamovibile dell’Eterno.
Sul piano etico, questa poesia è anche un canto alla vita, uno squarcio pigmentato dal dolore, dal dubbio che nella visione storica cerchi il pensiero della creazione, la sigla del de rerum sapiens.
L’acutissima sensibilità dell’autrice ce ne dà numerosi esempi. La dignità stilistica sa sprigionare istanze di vero fervore: l’ignoto si dà dimensione analogica, metaforica, senza trascurare il disegno dell’ambiguità lirica, che è davvero sorprendente, per tutti i testi di questa superba raccolta lirica: “Nessuno ha pietà./
Il poeta attraversò lo Stige./ Nel buio la morte del mondo senza Dio.” infine conclude con “Eterno è il pensiero di Dio” epigrafe di genuina espressione letteraria che, pur nella sua semplicità, intravede nella figura di Dio la visione e la dignità del suo contraddittorio, l’indivisibile condizione d’inquietudine solipsistica e metafisica, come trasfigurazione e dimensione più umane. carmecar
Id: 286 Data: 14/05/2012 10:17:11
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- Poesia
La nascita, solo la nascita
“La nascita, solo la nascita” di Luigia Sorrentino, Ed. Piero Manni, 2009
di Ninnj Di Stefano Busà
I versi di questo straordinario libro di Luigia Sorrentino entrano nel vivo come schiocchi sonori; hanno l’impeto e la capacità di calamitarti nel pathos di una percezione intimistica e non solo, perchè sono il segno di una maturità poetica che coglie il panorama e la irrequietezza emotiva in interiore, per proiettarli all’esterno di una memoria eccezionalmente visiva e olfattiva, increspata dal divenire delle cose, quasi a fermarne l’accezione privata e la ragione del coinvolgimento doloroso, a vivisezionare e decifrare il transeunte, a cesellare toni, variazioni ed emozioni che suggellino la dimensione temporale sempre in progress: “saremo un po’/ bianchi vicino al sole/ polvere con altra polvere!. La nascita, solo la nascita è un cangiante e articolato percorso della meditazione, una deflagrazione lessicale che coglie domande senza risposte, una testimonianza che tratta ragioni forti, mutevoli che si rincorrono nel tratto quotidiano del nostro itinere, in modo interrogativo e mai pretestuoso. Vi sono: la vita e la morte sempre ferocemente “in agguato” e in riferimento a quest’ultima: “morte che guardo/ e mi fa male/ ad ogni sillaba” e ancora: “// sia benedetta l’acqua, l’acqua che noi porteremo a casa/ sia benedetta l’acqua del diluvio”. Il senso d’acqua come elemento simbolico viene percepito in maniera fisica, quasi impresso all’idea della nascita (o rinascita) che imprevedibilmente accelera lo straordinario strazio di questo libro, il quale nel suo attraversamento vitale, nell’atto primordiale della venuta al mondo suggella l’estremo limite. Ab origine, presuppone gia lo schianto e il declino irreparabili, nei quali profondamente l’uomo intercetta la morte, la drammaticità dell’evento, il suo doloroso e affannoso “motu”. Ma è anche accesa di passione questa poetica che, dentro e fuori il paesaggio, sa donare suggestioni irripetibili, mostrando la profonda conoscenza dei mezzi espressivi, la finezza e la tenuta linguistica dello strumento retorico e metaforico. Non mostra compiacimento formale: il corpus lirico compatto di grande dignità sa aderire allo spirito del mondo con perturbante presentimento. Luigia Sorrentino sa entrare nello Spirito e nella Ragione dell’essere, sa coglierne i bagliori, farsi interprete di un’elegia che le fa onore per la finezza espressiva: “il silenzio della rosa, della pace ferma/ nel gomito sulla fronte di aprile/ nascesti imperlato nella casa doveva essere/ l’ultima in una primavera in cui fummo/ davvero soli/ portavamo lo stesso sangue/.../”(pag.41) Il referente appare sempre come morte immanente che slitta sulle cose e sui destini degli uomini, e le fa dire: “senza tregua/ il male è assoluto/ a questo passaggio non posso che assistere/ senza grandi espressioni/.../ non credo ai miei occhi per tutta questa/ sperfezione” ( pag.66 ),usa proprio un’accezione desueta per indicare la violenza della morte sulla vita. I legami interni tra una poesia e l’altra piegano al rimpianto, ma non alla rassegnazione passiva. È opera questa della piena maturità, per l’alta qualità del linguaggio, che raggiunge esiti felicemente compiuti, pur attraverso un pessimismo che s’identifica con l’assenza e il silenzio. Eppure, vi è sullo sfondo un panismo che a grandi linee evidenzia un barlume di fede, un pensiero che timbra la sua poesia di un’assenza apparente, perfino blandita, accarezzata, quasi sfiorata da un dio che l’autrice si affretta a scrivere in minuscolo, quasi a sottolinearne l’essenza maieutica di grande creatore e distruttore: “intorno a questo altrove/ fin dall’infanzia// entrano in qualcosa di ignoto/.../ e il dio che scende li lascia/ entrare, accoglie nutrimento/ il dio lieve.( pag.77). Epigrafico come una solenne sentenza questo testo: “ecco la pietra/ e il dolore/ ecco la donna e il corpo / nella veste di tela d’Olanda/../ecco il funerale degli occhi verdissimi/ l’odore acre/ la morte liturgica avvolta/ nel raso bianco” (pag.52). Vi è una dignità anche nel paesaggio brullo e scompaginato degli eventi che fanno parte della sez: Il peso della terra. Una poetica che ha la materica presenza della caducità, il peso della condanna, l’idea di un esilio feroce e greve nel limbo terreno, dove siamo chiamati a interrogarci, a presagire una seconda natura alla metamorfosi. Del resto lo sguardo del poeta riesce a trapassare la tragicità e la fragilità dell’esistente facendone materia di canto: un canto di incessanti bellezze, di architetture evocatrici e suggestive, che lasciano intuire Luigia Sorrentino come cellula di un microcosmo, per l’idea che permea la ragione e l’istinto alla relatività, tale da farla pronunciare nei termini:”da quelle braccia siamo caduti/ da quelle braccia siamo ritornati”, nel ciclo perenne della “sperfezione” ontologica di cui accenna.
Id: 285 Data: 06/05/2012 15:56:00
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- Letteratura
LArto-fantasma prefaz. Giovanni Raboni
Lo straordinario viaggio di Ninnj Di Stefano Busà (a cura di Marco Forti) Finalmente, nei giorni delle Feste di fine anno ho potuto estrarre dalla pila troppo alta dei libri che mi aspettano, il Suo libro che ho letto durante alcuni giorni come alternativa e tregua, al troppo doveroso lavoro che stavo ultimando. Il suo lavoro lirico mi ha interessato, incuriosito e affascinato, e ha avuto non pochi miei apprezzamenti per la sua compattezza, la linearità verbale, la liricità continua e continuamente minacciata di riassorbimento, da un suo bisogno ulteriore, che non potendo essere completamente metafisica si dibatte a incidere nel reale, che è tanto suo quanto estraneante fino a mischiare la calce e la pietra di un esito sublimante, tranne poi rivisitarlo col relativo e ulteriore vuoto quotidiano. Pertanto fin dal suo primo testo poetico "Barbaglio", sono stato colpito da una continua peculiarità di luce e di ombre che vi si mischia. di letterarietà di immagini e di parole che vi s'innervano e si fondono, fino a convogliare "l'oro" dei suoi mattini poetici, in un finale "corpo morto" che palpita conclusivamente, per poi annichilirsi in un dolore latente che è del mondo, inteso in senso, universale. Un "corpo morto" per riprendere il suo emblematico titolo che altrove è più lieve e aereo, come ad. es. nell"`ala di un passero" o in "Pianoro" più semplicemente "conturba" il canto della vita; o l'anima poetica che è in "Le brade terre perdute" alterna le sue felici aperture agli "azzurri displuvi" come lei tende a definire le soste di un viaggio ancora da compiere. Un viaggio poetico, naturalmente, che pur ritmato da una parabola di movimenti e da una musicalità sorprendentemente percepibile, del novenario endecasillabico che lì e altrove assume spesso il passo di un doppio settenario nitidamente cromatico; come in "Fioriture di greti", per poi sfumare in un'asprezza di valichi spesso ardui da superare. Un'alternanza di toni sempre alti, più che percepibili nel verso squillante e metaforico che orienta "La rosa", con i suoi lampi e i suoi ardori che, imprevedibilmente si macerano nel disagio esistenziale, contrariamente alle "Creature" del testo successivo, cui "l'ondosa tenerezza" della fine, imporpora di pudore le guance: "Di una loro bellezza si ornano tutte le creature, | Di una sfrontata verginità che le sfiora | come bava d'eliso sulle fronti roride di sole ". Solo pochi esempi, dunque, per confermarle che la sua poesia autonoma e personale, quanto sottile e limpida vive di un suo pensiero lirico metaforico felice, e balugina in proprio, senza peraltro voler regredire in veri e propri simboli o esempi primo novecenteschi. Così non sorprende in lei il ricorso alla grande centralità montaliana, che le permette in piena autonomia di sviluppare la necessaria lucidità di pensiero e di parola, la relativa asciuttezza di flash paesistici o figurali, o il murmure ulteriormente poematico di componimenti di memoria o speculari, resistenti fin nel loro continuo serpeggiamento animistico. Così, vedi, esemplificando "l'ala del cormorano" odi "Il fiore della valle" l'affinità elettiva col nostro grande Montale, ma riassorbita e resa fluida docilmente da un miele materno che nutre le radici mediterranee, muovendosi fino a conoscere "l'orma dell'oblio" e scomparire in fondo a sé; senza lasciare tracce. Un mondo poetico, dunque, molto ben strutturato, che ben conscio letterariamente della lucidità linguistica e metrica che ne ingloba l'impegno e la volontà, non manca poi di registrare la spirale interiore di un esito che ne coinvolge l'anima, fino a un proprio annullamento, a una propria morte naturale, fino a cogliere un gioco ossimorico affacciato a un proprio insuperabile e statuario muro. Vedere in proposito il fascinoso movimento in tante variazioni nelle poesie centrali, forse le più culminanti e intense del libro. In testi importanti, anzi decisivi come i lunghi anni de "Il tempo", la cui "vampa" ridesta "la verginità dei pargoli", o come "il perire lento" ne "L'assenza", un tema appunto che ha attraversato gran parte del libro con la sua antitesi creava di fondo, con i suoi intrecciati motivi di lirismo e realtà narrata ad un tempo, di corpo e anima, dell' io che parla e del continuo dialogato lirico di chi parla con l'altro o gli altri. Una materia in cui il corpo poetico esiste enigmaticamente, proprio' nella simultanea identità e intangibilità della propria parola, nata da una solarità astrattiva altrimenti inesprimibile. Non sorprende, allora, che la molteplicità delle metafore, la fruibilità degli esiti, s'intersichino fino al limite della favola e della visionarietà, quando non sull'orlo emblematico e montaliano del flash, odi una memoria poematica dell'infanzia, che anch'essa attraversa la prima ampissima sezione di L'arto fantasma non venga infine superata dalle poche poesie conclusive del suo libro in cui senza più emblemi e misteri il sogno s'incarna e si acquieta. Così il titolo del libro al termine della Sua spirale, si troverà a significare solo se stesso, o la voce narrante di Ninnj Di Stefano Busà che crea le ragioni del suo urgente affondo, mentre incide la consapevolezza di un no-limite ovvero il superamento della condizione di naufragio. Forse solo ora fissando eufemisticamente "l'arto fantasmatico" che rievoca l'enigma metafisico dell'esistente percettivo o no, della sua vera essenza lirica, Lei s'interroga sulla materia cantabile, sull'unicità del concetto di essere anima/corpo di un tutto drammaticamente nudo che si trasfigura per sconfiggere la frammentazione, la divisione, il relativismo. Un esito cui solo l'inafferrabile emblematicità degli ormai lontani Mallarmé o Valery, e da noi la lezione di un Montale, opportunamente indicata da Raboni nella sua prefazione, ha potuto offrirle un quadro più generale, un fondo di scena verso cui proiettare la sua pur bene individuata e sentita ricerca, fino a rifonderla in un esito completamente (ri)strutturato e risolto. Mi scuso se ho analizzato anche troppo lungamente l'Arto fantasmatico che intitola il suo libro. Ma mi ha molto interessato la sua straordinaria autonomia frammista alla sua grande originalità, nonché l'identificazione sua propria e la distanza dai corpi poetici altrui. Lei, come ha affermato Raboni è notoriamente se stessa. Mi auguro di poterla incontrare e di conversare con lei di quanto così straordinariamente anima la sua poesia e me la fa leggere e rileggere con sempre rinnovato interesse e ammirazione.
Id: 266 Data: 16/02/2012 10:43:46
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