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Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

Argomento: Letteratura

di Anna Maria Vanalesti
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Pubblicato il 03/05/2012 19:03:50

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

(Omaggio ad Amelia Rosselli)

 

 

È la domanda che brucia sulle labbra della Saffo di Leopardi, ma è la domanda che brucia sulle labbra di ogni uomo, di fronte alle avversità della vita, all’ingiustizia e alla sofferenza che lo colpiscono, all’esclusione dalla felicità a cui si vede condannato, all’irrazionalità delle cose, a cui sa trovare una sola risposta: una colpa deve averlo macchiato prima ancora che nascesse, un peccato originale per il quale non può esserci redenzione o perdono. Quando un tale drammatico interrogativo passa dalla voce dell’uomo comune, a quella del poeta, si crea una condizione d’animo di estrema contemplazione del male esistenziale, che solo la poesia riesce a trasformare in accenti universali di dolore. È quello che accade nell’Ultimo canto di Saffo, ma è anche quello che accade nelle liriche di Amelia Rosselli. Lo scopre mirabilmente Giulio Ferroni, che in Passioni del Novecento, analizza la “vita perduta” della Rosselli e ne evidenzia le linee di fuga, di distanza e di estraneità dal mondo, assai vicine a quelle leopardiane. “È la sola poesia italiana –spiega il critico – che ha avuto l’audacia, il coraggio, la forza di tentare un’ inaudita risposta alla domanda terribile della Saffo di Leopardi”

 

Cara vita che mi sei andata perduta

con te avrei fatto faville se solo tu

non fossi andata perduta ( da Documento)

 

Sono versi che sembrano vagheggiare un altrove, un’altra vita perduta, una vita che si identifica soltanto con la poesia.

Sulla inquietudine della Saffo leopardiana, che dinnanzi alla placida notte e al verecondo raggio della cadente luna, traccia un bilancio, a ciglio asciutto, della sua esistenza, sentendosi rifiutata dalla bellezza della natura, invisa agli dei e vittima del cieco dispensator dei casi, si è molto parlato e ragionato da parte dei più illustri critici e letterati, ma sull’impossibilità di vivere di questa nostra dolce poetessa del Novecento, chiusa nel suo mondo interiore, pur colmo, di generosa disposizione ad amare e di intenso desiderio di essere amata, poco si è approfondito il discorso. Si continua a piangere e a commiserare la sua morte, anche da parte di chi l’ha conosciuta, ma non si comprende come ci sia un’incredibile coerenza tra la sua scelta di morire e la vita cantata e rimpianta nella sua poesia, una poesia che, come dice il Ferroni, “ mette in scena un io costretto a lottare qui, ad essere nel mondo….pur essendo effettivamente altrove, pur abitando un altro linguaggio”. Ed è appunto nel singolarissimo linguaggio della Rosselli che va ricercato il suo spirito poetico, perché alla parola e alla lingua ella ha interamente affidato il tentativo di ricostruire la sua vita e di includere la sua esistenza in quel mondo da cui si sentiva esclusa.

 

Cambiare la prosa del mondo,

il suo orologio intatto,

quel nostro incorniciare le giostre

faticose di baci

 

Hai inventato di nuovo la luna,

è una povera isola

ti chiama con contingenza disperata

imbastardita dalle lunghe cene. (da Appunti sparsi e persi)

 

Le linee della realtà, non sono intatte per la Rosselli, l’orologio del mondo non è preciso, una lacerazione profonda ha diviso e frantumato per sempre, nella mente della poetessa, l’unità dell’essere e le ha reso impossibile tessere intorno a sé una trama comprensibile e decifrabile dell’esistenza, in cui i rapporti umani possano avere ciascuno il posto giusto, aderendo perfettamente alla sfera affettiva, in un reciproco scambio di valori e di intese. Qualcosa dell’ingranaggio è saltato a monte, (torniamo alla colpa iniziale) e non ha consentito la lettura del mondo, se non attraverso il linguaggio “altro” della poesia. Destabilizzati i ritmi del vivere e non semplicemente da vicende personali e familiari drammatiche, ma da quella visione interna più esigente di luce, che nell’animo dei poeti spesso s’ instaura, la Rosselli ha dovuto ricreare questi ritmi, riappropriarsi delle chiavi di lettura e dei codici dell’universo e lo ha fatto dedicandosi con cura inesauribile, quasi maniacale, al linguaggio poetico, cercando di incardinare e coagulare, nella parola e nella metrica, il pensiero, mai sistematico, ma irregolare, anche se vigoroso, che accompagna costantemente il guizzo della sua ispirazione. Ha restituito, così, un ritmo a quella realtà perduta a cui sentiva di non appartenere, a quella vita perduta, che sentiva di non avere avuto e, in tal modo, lei che non ha saputo mai tenere il controllo sulla quotidianità del presente, ha tenuto invece il controllo costante dello scorrere del tempo nella poesia, ricreandone una scansione mentale, che si afferma e presiede sul ritmo fonosillabico.

 

L’alba si presentò sbracciata e impudica; io

la cinsi di alloro da poeta: ella si risvegliò

lattante, latitante.

 

L’amore era un gioco instabile; un gioco di

fonosillabe. ( da Variazioni belliche)

 

Il dominio della scrittura è indubbio e le consente il dominio dei propri sentimenti, almeno nel breve spazio della poesia. La poetessa può così rallentare cadute rovinose, accelerare la sua corsa, i suoi aneliti all’amore, fermarsi o ripartire verso il ritrovamento di un presente perduto, come leggiamo in alcuni versi tratti da Documento:

 

Blu nel vetro, una persona che pensa

avere tenuto duro dieci giorni contando

con le mani che oramai annaspavano

l’alluminio scomparendo dai tetti d’auto

reperibilità del tempo perduto vaticinando

quel tuo presente sempre irreperibile,

uncinando il grottesco gesto della

confessione.

 

Si noti il gioco ad incastro dei termini “reperibilità” e “irreperibile” che si annullano a vicenda, dando il senso del tempo perduto, proiettato nella scrittura e restituito attraverso di essa. Pure, nella ricostruzione ritmica del tempo perduto la Rosselli prende coscienza delle sue continue perdite, delle occasioni mancate, del permanere delle angosce e persino dell’insufficienza della parola e dell’incapacità di dire. Tanto più però lavora sulla lingua fino a giungere ad alcuni prodigi, come in questa lirica che segue:

 

 

La passione mi divorò giustamente

la passione mi divise fortemente

la passione mi ricondusse saggiamente

io saggiamente mi ricondussi

 

alla passione saggistica, principiante

nell’oscuro bosco d’un noioso dovere, e la passione che bruciava

 

nel sedere a tavola con i grandi

senza passione o volendola dimenticare

 

io che bruciavo di passione

estinta la passione nel bruciare

 

io che bruciavo di dolore, nel

vedere la passione così estinta.

Estinguere la passione bramosa!

Distinguere la passione dal

 

vero bramare la passione estinta

estinguere tutto quel che è

 

estinguere tutto ciò che rima

con è: estinguere me, la passione ( da Documento)

 

Qui non siamo di fronte ad un sapiente gioco linguistico, o ad un abile virtuosismo fonosillabico, ma ad una disperata tensione emotiva, che si sfoga e si scarica tramite un convulso ritorno sulle parole che, in un’ossessione ininterrotta, bombardano la mente della poetessa, costringendola a concentrarsi sul fuoco che la divora dall’interno e che via via si identifica con la sua vera natura: è ella stessa la passione. Il rincorrersi dei verbi, tutti appartenenti al medesimo campo semantico, bruciare, estinguere, distinguere, accelera l’incalzare del ritmo, creando un climax ascendente che culmina nella parola, iniziale e conclusiva, del cerchio poetico, segnando l’incipit, ma anche la fine della lirica: “passione”.

Qual fallo, dunque quale nefando eccesso, macchiò la poetessa? Saffo lo sapeva e lo identificava con la sua esclusione dalla bellezza del creato e con l’impossibilità di raggiungere l’amore. Questa Saffo moderna, che è la Rosselli, conosceva la colpa originale, l’eccesso che la vita non le perdonava e ha reagito proiettandosi nella scrittura e donandosi completamente alla poesia, come stravolgimento di sé e delle cose, come unico futuro possibile e unico riscatto dall’eccesso iniziale che l’aveva tagliata fuori da quel mondo di amore che lei aveva sempre desiderato. E che l’amore sia il tema centrale della poesia di Amelia è evidente in Variazioni belliche, forse il suo capolavoro, dove il canto poetico è un perpetuo inseguimento dell’amore, un’inutile tentativo di difesa dagli agguati e dai tradimenti, un incessante anelito e un continuo stato di lotta, in un alternarsi di “variazioni”che impietosamente mettono a nudo l’io, lo pongono contro se stesso, lo lacerano, facendone emergere tutto il dolore nascosto.

 

o mio fiato che corri lungo le sponde

dove l’infinito mare congiunge braccio di terra

concava marina, guarda la triste penisola

anelare: guarda il moto del cuore

farsi tufo, e le pietre spuntate

sfinirsi

al flutto.

 

Il lettore può avvertire in questi accenti, colmi di pathos, la forza simbolica delle immagini, nelle quali è interamente trasferito il dolore della poetessa. E ancora si leggano i versi seguenti, in cui una trama di “se” introduce periodi ipotetici della realtà, che si succedono freneticamente, in un discorso franto e scardinato sintatticamente, ma sorretto da una lucida logica interna:

 

Se l’anima perde il suo dono allora perde terreno, se l’inferno

è una cosa certa, allora l’Abissinia della mia anima rinasce.

Se l’alba decide di morire, allora il fiume delle nostre

lacrime si allarga, e la voce di Dio rimane contemplata.

Se l’anima è la ritrosia dei sensi, allora l’amore è una

scienza che cade al primo venuto. Se l’anima vende il suo

bagaglio allora l’inchiostro è un paradiso. Se l’anima

scende dal suo gradino, la terra muore.

 

Nessuna scienza ha potuto sottrarre l’essere umano dal fallo che lo macchiò anzi il natale, nessuna scienza ha potuto liberare la Rosselli dal nefando eccesso di vivere per amare, per questo lei ha fatto ricorso alla scrittura e ha trovato nella poesia la liberazione. Non si capirebbe però, fino in fondo la sua opera, se non si richiamassero le fortissime implicazioni che in essa ha la musica, agendo sulla creatività poetica non soltanto come costante correttore, ma anche come inevitabile filtro di tutta la materia verbale. Lei stessa dichiarò nella premessa all’Antologia poetica pubblicata nell’87: “Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai scisso in realtà le due discipline, considerando la sillaba, non solo come nesso ortografico, ma anche come suono e il periodo non solo un costrutto grammaticale, ma anche un sistema”. Non v’è dubbio che i lunghi studi musicali, che la portarono ad essere compositrice ed esecutrice, abbiano lasciato in lei un segno indelebile, destinato a rimanere dato costitutivo della sua poesia.

Non va nemmeno tralasciato il lungo esercizio di traduttrice, svolto dalla Rosselli, come lavoro, unitamente alla consulenza editoriale, che le diede una vasta possibilità di frequentazione di autori stranieri e di giocare ampiamente con la sua grande padronanza del francese e dell’inglese. Pasolini, la definì “apolide”, come carattere positivo della sua personalità, e certo il suo aver vissuto molto tempo, oltre che in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, le consentì di legarsi ad altre tradizioni culturali, quella surrealista francese e quella metafisica anglosassone, che contribuirono a fare di lei un’irregolare e un fenomeno unico nel panorama letterario italiano. Sebbene abbia preso parte al movimento dell’avanguardia sperimentale del ’63, insieme a tanti poeti della sua generazione degli anni trenta, lo sperimentalismo non è mai divenuto nella sua produzione, elemento cospicuo e prioritario, anzi, la sua scelta fu sempre indirizzata, piuttosto che al suono e alla trasgressione, alla tensione emotiva da cui il linguaggio doveva nascere.

Leggendo i suoi versi, il pensiero corre ad Emily Dickinson, a quella voce così colma d’oblio della vita, così pervasa di stupore per le cose, così ardente d’amore. Ma la coordinata più vera tra la Rosselli e la Dickinson è la minuziosa scrittura poetica, lo sforzo di ricomporre e ricostruire, mediante la scrittura, una realtà incomprensibile, quasi a voler rifare un’autobiografia, un diario, restituendo valore e accettabilità alla quotidianità orrida e banale. La Rosselli visse la poesia, come sostiene il Mengaldo, “come abbandono al flusso buio e labirintico della vita psichica e dell’immaginario”in cui qualsiasi contenuto si affacciasse, si dilatava e si trasformava, abolendo i confini tra l’interiorità e l’esterno (l’altro da sé). A sorreggere la composizione poetica di Amelia c’è sempre il pensiero e a scandire il pensiero c’è sempre un tempo “psicologico musicale ed istintivo”, secondo quanto lei stessa affermò (in Antologia poetica ). La poesia avanza con intermittenze, frammentazioni, arresti improvvisi e riprese, con frequenti lapsus, con quella “continuità a singhiozzo”, che l’autrice si riconosceva, nel tentativo inesauribile di costituirsi uno spazio d’esistenza e in una disperata volontà di colloquio. Tale volontà di colloquio, o meglio volontà di tradurre il monologo interiore in colloquio, dà luogo a volte a raggruppamenti di strofe quasi aforistiche, assertive di una visione della realtà, in un contrappunto di immagini, che scandiscono la percezione delle cose esterne, sottraendole al loro spazio effettivo e ricollocandole in uno spazio ideale e fantastico.

 

I fiori vengono in dono e poi si dilatano

una sorveglianza acuta li silenzia

non stancarsi mai dei doni

 

……………………………

La speranza è un danno forse definitivo

le monete risuonano crude nel marmo

della mano.

……………………………

Mi truccai a prete della poesia

ma ero morta alla vita

le viscere che si perdono

in un tafferuglio

ne muori spazzato via dalla scienza

 

Il mondo è sottile e piano:

pochi elefanti vi girano ottusi. (Documento)

 

Si noti l’uso particolarissimo del verbo silenzia, si noti quel marmo della mano, termine che conferisce immediato rilievo all’immagine e la isola in forma scultorea, si noti quel riferimento grottesco alla sua custodia della poesia, mi truccai da prete, espressione altamente ironica e forte, ma che rende la dimensione religiosa avvertita dalla poetessa, si noti l’apparizione della morte, ero morta alla vita, infine la sproporzione tra la sottigliezza del mondo e l’ironia degli elefanti ottusi.

Alla poesia è affidato il ritmo quotidiano della vita, essa celebra un rito che si compie comunque, perennemente insidiato dalla morte, di cui la Rosselli avverte di continuo l’insidia, ma anche il richiamo, (si pensi al Dialogo con i morti, contenuto in Documento, in cui ella come figlia invoca i suoi morti, perché l’accolgano).

Ma è tempo di concludere questo breve omaggio ad Amelia Rosselli, consegnandone la poesia alla memoria storica, con l’auspicio che uno studio critico completo ed esauriente venga finalmente realizzato su quest’opera non ancora sufficientemente esplorata. Noi vogliamo ricordarla così, nella sua veste quasi oracolare, mentre protesa in una suprema richiesta d’amore, scrive questi bellissimi versi:

 

 

Perdonatemi perdonatemi perdonatemi

vi amo, vi avrei amato, vi amo

ho per voi l’amore più sorpreso

più sorpreso che si possa immaginare.



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