LA STRANA QUIETE
Giovedì – 20/5/04 - sono le 11 e tutto sembra immerso in una strana calma. Tutto è ordinato e tranquillo come raramente – forse mai – mi è capitato di avvertirlo.
Sono sola in casa, ma non è la prima volta. Però, di solito, c’è la mia irrequietezza (o inquietudine) assordante, che si riverbera sulle cose intorno e satura lo spazio che le contiene. Lui dice che proietto su chi mi sta accanto i miei problemi e le mie manchevolezze; ai miei occhi - offuscati dal desiderio di nobilitare la piccolezza a cui si è ridotto l’homo faber – lui appare come il ricordo vivente di un antico principio - l’atarassia –, contaminato da tutto quanto nel frattempo è mutato nella sorte dell’uomo.
Ma già le mie sensazioni cominciano a lasciare il passo alle in(ter)ferenze della ragione, sempre in agguato. Voglio dire: ho ripreso a scrivere, dopo un lungo silenzio, perché oggi – ora – vivo uno stato di quiete che non mi è congeniale, come una dimensione nuova e insospettata del mio spirito. E la ragione indaga, vuole scoprirne le cause. Rifletto: tra una piccola incombenza domestica e l’altra, le mie ultime 36 ore si sono organizzate nel ricordo di una forma che rimanda a qualcosa di definitivo. E’ un processo simile a quello descritto da Paul Ricoeur come “narrativizzazione” del vissuto: frammenti di esperienza si dispongono in modo da lasciare emergere un senso che prima rimaneva nascosto, come il disegno di un mosaico di cui le piccole tessere si fossero disperse in un vasto raggio. Se una volontà ben guidata s’impegna a rimetterle insieme, la forma pensata e voluta dall’artista si materializza agli occhi increduli di chi prima vedeva solo piccole scaglie sparse - fredde, vitree, mute.
Le mie ultime 36 ore sono state scandite dall’assunzione di litri di un particolare liquido che avrebbe preparato il mio intestino all’intrusione di una delle tante protesi con cui l’uomo man mano aggiusta il suo modo di attraversare l’esistenza, per darle un orientamento collettivamente partecipabile.
Ma il singolo che partecipa al processo nella situazione dell’utilizzo lo fa per motivi soggettivamente variabili. L’esame clinico è stato doloroso come nessuno mi aveva avvertito che potesse essere. La preparazione anche. La diagnosi incerta. Si richiedono approfondimenti – che poi si rivelano essere (o comprendere) una costellazione di altri esami. E a un tratto – ma è solo un modo di dire –, le perplessità dell’analista di fronte alle difficoltà tecnico-organiche che gli si presentavano nel corso dell’esplorazione, non sono riferibili a un impedimento meccanico accidentalmente insediatosi nel mio intestino in un momento imprecisabile, ma non solitario. Quel medico, nelle tracce sensibili per l’organismo vivente, avvertiva la presenza di qualcosa che può essere considerato “effetto canceroso” di un disagio a lungo trascurato e vissuto come un fastidioso infortunio destinato a rimanere tale.
Così, senza una vera preordinazione, la mia abituale tendenza a connettere e a trovare significati nelle cose - che a mio marito appaiono solo come irritanti intralci al suo benessere - dà un senso definito a ciò che mi accade: ho un cancro che non potrà essere curato efficacemente, com’è invece il caso di un problema analogo al seno.
E’ la “configurazione” anticipatoria di una svolta irreversibile, attraverso la quale vedo delinearsi una possibilità di quiete nuova: non mi sentirò più assediata da mille circostanze che assorbono le mie energie, distogliendole da ciò per cui vorrei veramente spendermi.
E’ il tempo che ora assume uno spessore nuovo. Il mio tempo può diventare mio per la prima volta, anche se solo per un breve tratto di corso. E questa idea mi tranquillizza, al di là di ogni timore. Di fronte a ciò che irrevocabilmente sta per accadere, si dissipano le ansie e le incertezze, che abitualmente colorano e intonano l’esistenza di chi si sente sempre nel posto sbagliato.
(Da una vecchia agendina)
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