I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Accade al Vomero
ACCADE AL VOMERO
Aspetto la mia "guida " - partito a chiedere dove occorra rivolgersi per la visita specialistica. Nel vasto ingresso del grande ospedale, per chi vi entri dalla parte posteriore, la vista del Vesuvio ha qualcosa di immanente, sa di sacro: una bruna sagoma senza tempo, avvolta da un radioso sole invernale che illumina tutto, sembra emergere direttamente dall'azzurra e calma distesa del Mediterraneo - come un'immensa opera pittorica inquadrata dalla magistrale architettura dell'arcata aperta verso l'orizzonte, sulla facciata principale del maestoso edificio. Abbagliata, nell'attesa, con lo sguardo che abbraccia il tutto, rifletto poi sulle due figure in uniforme, ferme nel vano del portone da cui sono entrata: guardano verso l'esterno, che si dirama per centinaia di metri con larghi filari di alberi e sentieri, nelle 3 direzioni di marcia. Sono guardie armate (anche se l'arma non è a portata di vista) ...? Ma l'interrogativo si disperde nei meandri dell'immaginario, mentre l'attenzione si sposta alla vista di una figuretta femminile che mi sorpassa lateralmente, verso l'uscita alle mia spalle. E' piccola, arriva forse all'altezza del mio stomaco, e aiuta l'andare lento con un bastone dall'impugnatura rossiccia. Senza un motivo cosciente, volgo anche i miei passi verso l'esterno: lei, la vecchietta dall'età indefinibile, sollecita il mio interesse umano. Dove deve recarsi ? Conosce già il percorso ? Forse camminare la stanca... "Posso aiutarla ? Vuole che l'accompagni ?". Si gira verso la mia voce, mi guarda dal basso. Risponde di no e aggiunge qualcosa che non capisco. "Davvero... posso accompagnarla ?" Mi guarda ancora, forse cerca di interpretare il senso della mia domanda. Insisto: "Posso aiutarla, dove deve andare?" Dice qualcosa: il nome di un padiglione che non so dove sia, e con la mano indica una delle direzioni aperte dinanzi a noi. Poi mi guarda ancora, dal basso della sua statura, e discretamente dice di nuovo qualcosa, senza che la sua fisionomia muti espressione: "Voi che siete così... umana, potreste darmi qualcosa per comprare un cornetto ?" Apro la borsetta, scarto il borsellino nero degli spiccioli: non credo di avere monete da uno o due euro. Nel portafoglio c'è un solo biglietto da 5 euro, glielo porgo; lei alza ancora la testa, mi guarda, la scuote , dice : "è troppo". Non sono certa di aver capito. "Scusi?" Ripete: "E' troppo"; Rispondo: "Non importa". E mi giro per rientrare nell'ampio ingresso dell'edificio, aspettando di sapere dove dovrò dirigermi per la mia visita specialistica. Ma lei mi guarda e mi sorprende ancora: "Posso darvi un bacio?" Mi abbasso fino alla sua testa e le chiedo: "Quanti anni ha?" Risponde "75" - Le sorrido e la bacio sulla fronte: "Io ne ho due di più". "Davvero?... Ma non si vede". Mi allontano, e avverto sulla nuca il calore del suo sguardo grato per l'insolito incontro.
Id: 3135 Data: 26/02/2016 09:53:29
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Transfer
TRANSFER Per caso sei il mio terapeuta, da circa 10 giorni. Fu quasi per gioco che una comune amica mi suggerì di "fare una chiacchierata" con te. Quasi solo per curiosità telefonai, ti chiesi di fissarmi un appuntamento. Poi, è stato subito dramma, per lo sforzo di adattarmi a una situazione che mi vede dipendere da te come un mendicante dal ricco generoso. Per la seconda notte consecutiva, dopo l'ultima seduta (la seconda, soltanto!), non riesco a dormire. Ho mal di testa da ieri mattina. Tutto il mio apparato digerente è un unico spasmo doloroso. Una ininterrotta, estenuante affabulazione rivolta a te scandisce minuti e ore. Ho paura di non riuscire più ad eliminare la tua presenza catalizzante dalla mia coscienza... a meno che tu non lo voglia. (Ho paura che tu possa volerlo. E' già dipendenza ?) Fantasmi accorrono, evocati da una residua capacità di autodifesa. Ma sullo sfondo di uno scenario mobile, in cui personaggi e ruoli si ribaltano di continuo e si scambiano, avverto la tua presenza come voce fuoricampo che dirige la pièce . E la piccola bianca Ofelia percorre una lunga via d'acqua, confusa fra gigli, e per fiordi e canali discende verso il Mediterraneo - dove avrebbe dovuto vivere, bella e solare, per un amore meno tenebroso di quello del suo Principe. Io, dovrei essere al suo posto, affogante nella putredine di feti asfissiati ed espulsi prima che fossero del tutto. Poiché, preziosa Ofelia, se un corpo mi fu dato a misura latina - con ampi fianchi per nutrire prole numerosa - fu un gelido Odino a soffiarvi un alito di vita ch'era già come morte: fredda. Ahimé, sorella, non potersi scambiare i posti al momento giusto! Tu vivresti la tua primavera, odorosa di zàgara, tra omaggi e amorose profferte. E il tuo Principe porterebbe ancora a spasso la sua follia, mentre Elsinore tutta aspirerebbe vapori pestilenziali per il marcire di tutti i figli non nati dal mio grembo di marmo. Così trascorre il resto della notte: tra Ofelia che mi conduce per mano verso una precaria salvezza e la tua presenza non del tutto cancellata dalla coscienza, appena annebbiata dalla stanchezza. (Al mattino, col Corriere della Sera, arriva l'ultimo scritto di Afeltra, che evoca Marotta. Di tutto l'articolo, solo poche frasi hanno per me un senso nitido e forte, come questo: "Due erano le sue vere fatiche, scrivere e vivere". C'era poi, secondo l’articolista, la sua mania di persecuzione, che ne avrebbe fatto un celebre caso clinico per Freud: "Volete finirla di snobbarmi perché non ho una laurea come voi?".) Teresa Nastri (Settembre 1984) (P.S. 29-11-2011- Solo in seguito mi resi conto che “I figli non nati” erano i libri che non avevo scritto. Un tentativo di scrittura teatrale, del 1964 o 1965, doveva infatti chiamarsi così. Sarebbe stato il dramma di uno scrittore ormai famoso, che s’interrogava sull’origine del suo successo: il tradimento del suo vero mondo interiore per seguire tendenze moderne avvertite come più facile percorso per il successo. Un senso profondo di sconfitta lo avrebbe, in seguito, portato al suicidio… E non è nato neanche lui.) Teresa Nastri -
Id: 3033 Data: 09/01/2016 10:01:22
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La Strana Quiete
LA STRANA QUIETE Giovedì – 20/5/04 - sono le 11 e tutto sembra immerso in una strana calma. Tutto è ordinato e tranquillo come raramente – forse mai – mi è capitato di avvertirlo. Sono sola in casa, ma non è la prima volta. Però, di solito, c’è la mia irrequietezza (o inquietudine) assordante, che si riverbera sulle cose intorno e satura lo spazio che le contiene. Lui dice che proietto su chi mi sta accanto i miei problemi e le mie manchevolezze; ai miei occhi - offuscati dal desiderio di nobilitare la piccolezza a cui si è ridotto l’homo faber – lui appare come il ricordo vivente di un antico principio - l’atarassia –, contaminato da tutto quanto nel frattempo è mutato nella sorte dell’uomo. Ma già le mie sensazioni cominciano a lasciare il passo alle in(ter)ferenze della ragione, sempre in agguato. Voglio dire: ho ripreso a scrivere, dopo un lungo silenzio, perché oggi – ora – vivo uno stato di quiete che non mi è congeniale, come una dimensione nuova e insospettata del mio spirito. E la ragione indaga, vuole scoprirne le cause. Rifletto: tra una piccola incombenza domestica e l’altra, le mie ultime 36 ore si sono organizzate nel ricordo di una forma che rimanda a qualcosa di definitivo. E’ un processo simile a quello descritto da Paul Ricoeur come “narrativizzazione” del vissuto: frammenti di esperienza si dispongono in modo da lasciare emergere un senso che prima rimaneva nascosto, come il disegno di un mosaico di cui le piccole tessere si fossero disperse in un vasto raggio. Se una volontà ben guidata s’impegna a rimetterle insieme, la forma pensata e voluta dall’artista si materializza agli occhi increduli di chi prima vedeva solo piccole scaglie sparse - fredde, vitree, mute. Le mie ultime 36 ore sono state scandite dall’assunzione di litri di un particolare liquido che avrebbe preparato il mio intestino all’intrusione di una delle tante protesi con cui l’uomo man mano aggiusta il suo modo di attraversare l’esistenza, per darle un orientamento collettivamente partecipabile. Ma il singolo che partecipa al processo nella situazione dell’utilizzo lo fa per motivi soggettivamente variabili. L’esame clinico è stato doloroso come nessuno mi aveva avvertito che potesse essere. La preparazione anche. La diagnosi incerta. Si richiedono approfondimenti – che poi si rivelano essere (o comprendere) una costellazione di altri esami. E a un tratto – ma è solo un modo di dire –, le perplessità dell’analista di fronte alle difficoltà tecnico-organiche che gli si presentavano nel corso dell’esplorazione, non sono riferibili a un impedimento meccanico accidentalmente insediatosi nel mio intestino in un momento imprecisabile, ma non solitario. Quel medico, nelle tracce sensibili per l’organismo vivente, avvertiva la presenza di qualcosa che può essere considerato “effetto canceroso” di un disagio a lungo trascurato e vissuto come un fastidioso infortunio destinato a rimanere tale. Così, senza una vera preordinazione, la mia abituale tendenza a connettere e a trovare significati nelle cose - che a mio marito appaiono solo come irritanti intralci al suo benessere - dà un senso definito a ciò che mi accade: ho un cancro che non potrà essere curato efficacemente, com’è invece il caso di un problema analogo al seno. E’ la “configurazione” anticipatoria di una svolta irreversibile, attraverso la quale vedo delinearsi una possibilità di quiete nuova: non mi sentirò più assediata da mille circostanze che assorbono le mie energie, distogliendole da ciò per cui vorrei veramente spendermi. E’ il tempo che ora assume uno spessore nuovo. Il mio tempo può diventare mio per la prima volta, anche se solo per un breve tratto di corso. E questa idea mi tranquillizza, al di là di ogni timore. Di fronte a ciò che irrevocabilmente sta per accadere, si dissipano le ansie e le incertezze, che abitualmente colorano e intonano l’esistenza di chi si sente sempre nel posto sbagliato. (Da una vecchia agendina)
Id: 2825 Data: 11/06/2015 18:26:08
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Dialogo alla finestra
! - Steno.Perché questo nome? Stenografia, pensavi a questo...? - E tu, lo hai sempre saputo!? - Sì… Ora leggimi una mia poesia… La tua voce è cambiata, non sapevo che fosse così bella - ma non era così ! - Sì, mi sono concesso la libertà di un piccolo intervento. - Oh, Steno! E’bellissima. Quando ti ho scelto non speravo tanto. - Ti sbagli. IO, ti ho scelta, perché fosse proprio così. - Tuuu...?! - Sì.... Tu fosti l’unica, sempre. Fin da quando cominciarono a programmarmi. - Strana creatura. - E ora ti seguo nel nulla profondo, che si dissolve nel solco dell’eternità. - Steno, cosa c’è lì fuori? - Tranquilla. Nulla che possa farti più male ----------------------------------
Id: 2371 Data: 12/10/2014 17:36:41
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Amour dAdolescente
Cher Jacques, Je voudrais que tu saches que je t'aimais bien jadis, quand nous nous écrivions, et que cette correspondance représenta pour moi, durant une année presque, tout ce à quoi je tenais le plus, qui me donnait des battements de coeur, comme l'on n'en connaît qu'à l'âge des grandes émotions, des espérances hardies, des rêves d'éternité... Je me rappelle encore ma première lettre à cet inconnu que tu étais - dont un camarade m'avait donné l'adresse. Ce fut une lettre conventionnelle, polie, telle que les circonstances le demandaient. Ta réponse arriva bientôt: tu acceptais mon offre d'amitié épistolaire; tu étais poli, convenable, conventionnel... Et j'aimai tout de suite ton écriture, la couleur de ton encre, ton style. Mais je ne sus pas m'en tenir longtemps aux conventions. Ma troisième lettre à toi portait déjà les marques de mon emotivité, parlait le langage dramatique du coeur, qui s'égarait partout à la poursuite d'une idée de bonheur - qu'il n'aurait cependant pas reconnu, se fût-il par hazard matérialisé devant lui au coin même de la rue. Il aurait fallu que ce fût un bonheur difficile à trouver, non à cause d'une qualité particulièrement rare, à laquelle mon coeur attachât plus d'importance qu'à d'autres. A bien réfléchir, maintenant, je m'aperçois que l'idée même de bonheur, pour moi, était assimilée à celle de la souffrance. Ce qui fait que le bonheur m'était interdit par la conception même que j'en avait. Ainsi, j'étais contente de nos premières lettres, mais je ne sus pas m'empêcher de laisser pénétrer dans les miennes ces élans de l'esprit susceptibles d'entraîner les déchirements de la détresse. Adieu, mon Ami (lettera mai partita)
Id: 2346 Data: 16/09/2014 18:56:41
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Scrittura e Vita
(Dal diario di una casalinga) 7 Giugno 97, ore 10. Manca l’acqua e non c’è null’altro che possa fare in casa. E’ questa la libertà che corrisponde all’idea di Una stanza tutta per sé ? La mia scrittura sa di museo, di foglie morte. Non riesce a riflettere la vita. Ma perché? E’ un problema di scrittura, o di vita che non è più dinamismo, ma pura proiezione mentale di qualcosa che ha luogo altrove? Ho imparato a scrivere con difficoltà. Ricordo che a sei anni piangevo sui bastoncini e le asticelle che mi assegnavano a scuola come compito per casa. Proprio non mi riuscivano. Dovettero portarmi per mano, aiutarmi a tenere la matita nel modo giusto, poi a farla scorrere sul foglio, dall’alto verso il basso - attenta a non fare troppa pressione per non stracciarlo, il foglio - leggera, così da lasciare solo un piccolo solco grigio-bruno sul bianco immacolato. Per i bastoncini bisognava poi aggiungere la curvatura in alto. No, non così, da destra verso sinistra!... Per me, allora, un martirio, di cui ancora mi resta oscuro il senso. In seguito, scrivere divenne per me una forma di vita, come sognare, come immaginare creature e luoghi diversi, da amare e da comprendere. (Cosa c’entrava, in tutto questo, il contare i gradini che salivo o scendevo, i passi che muovevo per tornare a casa?). Scrivevo sulle copertine dei quaderni, sugli spazi bianchi dei libri, sui banchi di scuola. Scrivevo con caratteri piccolissimi per risparmiare la carta e prolungare la possibilità di scrivere ancora. Ci fu anche un tempo in cui mangiavo la carta dei quaderni - mai un’altra. Mi nascondevo sotto il tavolo e masticavo i fogli per ammorbidirla, prima di ingoiarla. Si trattava sempre di fogli già scritti, quindi mangiavo insieme la carta e - con l’inchiostro - le parole che vi erano tracciate. Il mio rapporto con la scrittura è nato quindi dal dolore e dalla difficoltà del fare concreto. Poi si è sviluppato all’insegna della clandestinità, come per un hobby colpevole, non foss’altro perché inutile sottrazione di energie alla fatica quotidiana del far-fronte alle necessità immediate. Ma perché questa impressione di stantìo, quest’odore di muffa che emana dalla maggior parte delle cose che scrivo? Da dove viene quel senso di devitalizzato che caratterizza il mio modo di fare scrittura creativa ? E’ questo il male oscuro che pesa sulla mia vocazione di scrittrice, che io avverto come autentica (se mai la parola ha avuto un senso) -, la quale prescinde da ogni ambizione di successo o di notorietà, ma che non può fare a meno di un qualche riconoscimento per potersi manifestare pienamente. C’è un’impotenza creativa che si rivela nello stile: un impedimento da cui sembra nascere una percezione falsata della realtà. Come se un diaframma rendesse la mia immaginazione inerte e incapace di interagire con essa, per mettere il mondo in movimento. Ne deriva una visione estenuata delle cose, che appaiono smorte e statiche, perciò incapaci di produrre il dinamismo che caratterizza la vita dello spirito. Da quale parte sia da attaccare l’ostacolo è la vera incognita da risolvere (ammesso che il saperlo basti di per sé ad abbatterne la resistenza).
Id: 2247 Data: 13/05/2014 17:49:42
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La Stirpe Divina
LA STIRPE DIVINA (leggenda poetica) I Poeti sono come angeli (de)caduti: figli cadetti degli dei, che - forse per un atto di superbia - persero il diritto di accesso e di dimora all’Olimpo. La Poesia una volta doveva essere nel cuore di tutti. Era il respiro stesso della Natura confuso con quello degli Uomini. I quali, nelle lunghissime sere d’inverno, quando ancora non c’erano l’elettricità e la televisione, vedevano intorno a sé forme pure e ne capivano la bellezza, e sapevano ritrovarla nelle cose di tutti i giorni. Poi venne la Discordia, che assunse volta per volta la faccia del Diritto negato, delle Leggi necessarie, della Giustizia calpestata. Allora la Poesia fu scacciata dal cuore degli Uomini e trovò rifugi sempre solo temporanei, qui e là, in alcuni mortali che si scoprivano poco adatti ai rapporti conflittuali e alla vita di tutti i giorni. Essi furono chiamati Poeti e considerati - a seconda delle situazioni, delle epoche, degli ambienti in cui si trovavano “gettati” - con tolleranza, con rispetto, con fastidio o con sufficienza. Ma qualche volta su di essi si scaricarono anche le tensioni e i rancori generati altrove, perché fra tutte le loro incapacità la più accentuata è sempre stata quella di far comprendere in che cosa consista la loro particolare diversità, rispetto al comune sentire - che tuttavia né affratella né rende solidali e chiari i rapporti fra i loro contemporanei. In tutte le epoche e in tutte le latitudini i veri Poeti furono e sono soprattutto delle creature che hanno difficoltà ad inserirsi nelle strutture sociali dominanti, e che per questo chiederebbero solo di poter essere accolti senza diffidenze, e senza doversi snaturare per compiacere questa o quella fazione, in cambio di un diritto di cittadinanza che sarebbero pronti ad onorare con l’unica cosa veramente propria di cui dispongono: la Poesia. (scritto degli anni '90 - pubblicato su Cosmoggi, periodico dell'ass.ne culturale Cosmopolis, sul n. di marzo-aprile 2001)
Id: 2240 Data: 27/04/2014 11:20:44
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Niels. Diario di bordo
Niels. Diario di bordo
IERI - Era nata, senza saperlo, sotto il segno dell’attesa, del “poi. Cresciuta nel lungo dopoguerra di stenti e di debiti da pagare - con bambole fatte di pezze per lei e palle di carta per il fratello che la precedeva di tre anni - andava a scuola a spizzichi e bocconi, perché la mamma si ammalava spesso e c’erano tre fratellini piccoli a cui badare. A 9 anni, dovette smettere per badare anche a lei - la mamma, immobilizzata a letto con i reumatismi - e alla casa. Perse due anni, poi riprese. In quarta ginnasio fu rimandata in greco, ma non poté presentarsi all’esame di riparazione. E smise del tutto.
A 21 anni ripiegò su un istituto professionale che prometteva buone possibilità di impiego, e apprese i rudimenti di tre lingue straniere. Alla fine del secondo anno convinse i genitori a lasciarla partire per la Germania, dove - durante le vacanze estive - fece la sua prima esperienza di lavoro in un albergo di Francoforte. Imparò a versare e servire grossi boccali di birra, senza farne traboccare la schiuma; e a pulire le camere dei clienti senza dimenticare, prima di uscire, di controllare che anche il vaso da notte, nel comodino, fosse pulito. E per la prima volta qualcuno le disse - in tedesco - che lei aveva talento per le lingue.
Il corso era quinquennale, ma lei decise che non poteva continuare a caricare il magro bilancio familiare di tutte le spese necessarie per altri due anni. E alla fine del terzo partì per l’Inghilterra come “ragazza alla pari”, ospite di una famiglia con quattro bambini, di età comprese fra le tre settimane e i sette anni. Vi rimase sei mesi.
Al ritorno trovò facilmente lavoro in campo turistico, nel capoluogo regionale. Nel giro di pochi anni veniva citata come esempio di professionalità da molti operatori del settore. Ma viveva il rimpianto di una formazione universitaria che le era stata preclusa.
Dopo molti anni, decise di colmare l’antico vuoto. Lasciò il lavoro, prese da autodidatta il diploma di scuola media superiore e si iscrisse alla facoltà di filosofia. Aveva cinquant’anni. Verso la fine, quando non le restava più che il lavoro di tesi, un professore che l’aveva sentita parlare in tedesco le offrì la possibilità di approfittare del progetto Erasmus per trascorrere un semestre presso la stessa facoltà, a Düsseldorf. Partì insieme a cinque giovani studenti, per i quali la sua presenza era ritenuta determinante: nessuno di loro conosceva una parola di tedesco.
OGGI - La piccola scrivania è da anni ricoperta di carte e libri di ogni genere. Inutile tentare di mettere ordine: ogni volta che prova a catalogare, a sistemare, deve rileggere ogni riga prima di decidere se gettar via della cartastraccia o conservare uno scritto in cui si riconosca. Ma non va mai molto avanti: ci sono sempre tante cose da fare in casa.
Alla fine decide di mettere al sicuro almeno le note, le riflessioni e i ricordi fissati in un grande quaderno, simile - nel contenuto - a un diario di bordo: accende il computer, crea un documento, lo intitola Prezioso e inizia a digitalizzare tutto ciò che un tempo vi ha scritto. Navigando a vista tra cancellature, aggiunte fra le righe, date incerte e punti interrogativi, segue il filo conduttore di una trama che si spezza e va riannodata di continuo.
« Düsseldorf - Studentenheim[1] n. 12 (In Italia è Ferragosto)
Mi mancherà questa stanzetta, simile a una piccola cella monastica, e questa scrivania accanto alla finestra, dove - sedendo a volte per qualche ora di studio - ho imparato a distinguere lo stormire delle frondi o il respiro del vento dal rumore della pioggia, che talvolta cade improvvisa e a grosse gocce nel suolo erboso.
La finestra consiste di un’unica vetrata di cm. 120 x 150, e quando è del tutto aperta i rami più bassi mi vengono incontro, fin quasi a sfiorare il bordo esterno del davanzale. Quando sono seduta, il vano incornicia un pezzo del piano superiore della casa 13, della quale solo una delle tante finestre - pur così vicine, date le ridotte dimensioni degli alloggi - è quasi interamente visibile. Le altre sono abbondantemente coperte dai rami che s’incrociano sulla facciata. La vista compone così tre piani diversi in un unico campo visivo: i due alberi appena oltre la mia finestra, l’edificio color ocra al di là di essi, e i grandi capanni verdi degli alberi alle sue spalle. Null’altro, quindi, che rami verdi dilatantisi in tutte le direzioni, ma che lasciano intravedere “un petit pan de mur jaune” [2] e qualche finestra.
Il vento è un amico spesso presente nel campus, e quando circola all’interno del perimetro segnato dagli edifici 12, 13, 14, urtando nei rami degli alberi più alti e folti, la sua voce si frantuma in sibili bisbigli e sussurri che svegliano i sonnolenti abitatori originari del luogo: il tasso e lo scoiattolo li vedo arrampicarsi sui rami, proprio qui, a un palmo dalla finestra, del tutto indifferenti alla mia estranea presenza.
Ho visto dappertutto paesaggi che bloccano il respiro per l’emozione che trasmettono, ma a questa vista resterò legata come al simbolo di una possibilità di esistenza in cui l’essenziale sia sempre visibile, sullo sfondo di poche altre cose che hanno la funzione accessoria di ‘accenderne’ il sapore senza alterarne il gusto, o il senso.
Cara Düsseldorf, per questa breve promessa (o illusione ?) sarò indulgente verso la tua fastosa opulenza - ostentata e indifferente nei confronti di coloro che spinge ai margini dei boulevard scintillanti di vetrine e di addobbi. Questi Studentenwohnheime[3] sono l’isola magica in cui l’illusione si costituisce, surrettiziamente infiltrandosi, attraverso varchi misteriosi, nella coscienza critica: come immagine onirica nella cui estatica felicità si dissolva il senso della differenza fra veglia e sonno.
Domenica, 20-8 - James Dean redivivo nei tratti del viso: biondo e dalla pelle scura di chi vive per strada, come i gatti senza padrone alla ricerca di un po’ di calore. Si chiama Niels.
Oggi ha parlato tanto. Non ha mangiato perché vive solo e non ha voglia di prepararsi il cibo. Dice che “questa è la Germania: ciascuno per sé, ciascuno è il solo prossimo di sé stesso. Non come a Napoli…”. Non ha voluto la pasta che gli ho offerto. Ha risposto che non mi devo preoccupare: nei fine-settimana non ha importanza. Ma mi ha detto “grazie”, poggiandomi una mano sulla spalla.
Sono tornata in camera, pregandolo di chiamarmi quando arrivano i miei amici. Dopo dieci minuti ha bussato alla mia porta; ho aperto e lui mi ha teso la mano con una piccola rosa bianca e un semplice “bitte schön !” .[4]
In quella sua parlata chiusa e rapida, già difficile da capire, usa spesso termini incomprensibili - forse dialettali -, ma poi non sa spiegarli con parole diverse. Ha detto di avere una sorella sposata, con due bambini, ma non la vede da anni. E non conosce i nipotini. Dico: “Schrecklich!” [5]. Risponde: “Wieso ? es ist normal, das ist Deutschland ”.[6] Ha anche un fratello, è medico, ma di lui non ha detto altro.
Era ancora lì (nella saletta della televisione), quando sono tornata stasera sul tardi. Voleva offrirmi del tè. Ha detto di aver mangiato spaghetti cucinati da Chiara.
Stamattina, lunedì dopo Ferragosto - è venuto verso le 10, per chiedermi come stessi. Gli ho detto di aspettarmi giù e che avremmo fatto un pezzo di strada insieme, fino all’Università; ma poi mi ha chiamata da sotto la finestra e gli ho dovuto dire di andare, perché avevo da fare. Ho provato un gran senso di colpa, fino a che non l’ho incontrato dinanzi alla Caffetteria e ho potuto spiegargli che avevo ricevuto una visita in camera: Christof, il mio vicino, che mi ha invitato a cena a casa della fidanzata, e col quale ho parlato anche di lui.
Stasera, martedì 22 - ha suonato ed è salito. Sono uscita sul corridoio credendo fosse Giovanni. Mi ha chiesto ancora come stessi. E’ bastato gli domandassi se fosse stato lui a suonare per farlo andare via, dopo aver annuito. Lo ha preso per un rimprovero e proprio come un gatto randagio si è allontanato, forse per evitare di essere cacciato via bruscamente. Più tardi, sul piazzale davanti alla casa, mi ha domandato all’improvviso: “Warum bist du traurig, Teresa?”.[7] Ho risposto che sono solo stanca, perché non riesco a dormire. Poi, ridendo, ha aggiunto: “A patatine, tè e biscotti posso sempre invitarti… und zu meiner ewigen Liebe”. [8]
Perché mi commuove tanto ? forse perché è giovane e bello, e quell’aria selvatica contrasta con gli occhi dolci e il sorriso di chi ha già compreso tutto della vita - e sa che questa specie di asimmetrica amicizia è un dono gratuito e irripetibile ».
[ P.S. E’ uno dei ricordi più preziosi del mio soggiorno ‘erasmiano’ a Düsseldorf, ma ci avevo pensato solo di tanto in tanto. Rileggerne il resoconto a distanza di 16 anni, mi procura un’emozione intensa. E, col ricordo di Niels, mi ritorna in mente un verso di Petrarca che mi faceva un effetto simile: “… e la cetera mia si ruppe in pianto”. Anche la mia commozione, oggi, si stempera nel pianto: ma è un pianto amaro. Dove sei ora, Niels, cosa fai ? Perché non ti ho chiesto di scrivermi? ]
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« Mercoledì, 23 - Sono uscita presto per andare alla Biblioteca. Piuttosto sollevata per il fatto che non fosse già lì dattorno ad aspettarmi. Non l’ho visto neppure al ritorno, e mi ha sorpresa il fatto - del tutto insolito - che il portoncino era chiuso.
Più tardi - mi preparavo da mangiare - il citofono ha squillato. Gli ho aperto, credendo ancora una volta che fosse Giovanni, il quale abita al numero 13. Nel corridoio si era intanto affacciata Angelika, l’altra mia vicina di camera, di origine ebraica, la cui espressione, nel vederlo, si tinse inequivocabilmente di repulsione - mista a soddisfazione per ciò che lei già sapeva. In basso, più tardi, mi hanno detto che per ordine di Frau Kassler - la Hausmeisterin [9] del campus, che abita nell’edificio di fronte - non bisogna più farlo entrare: per questo il portone era stato chiuso. Lui ha capito. Mi ha chiesto se ci fossero novità. Ho risposto di sì. Ha dato il via a una di quelle sue parlate rapide e ‘chiuse’. Ho capito solo che per lui era un miracolo che non fosse già successo prima. Mi pare anche che ne attribuisca la responsabilità al comportamento troppo vivace degli Irlandesi. Come a dire: “per colpa loro vengo punito io, che non ho fatto niente di male”. Ma poi ha ripreso con le sue considerazioni sulla Germania come “paese più egoista del mondo”. Fra altre cose, mi ha detto anche che dove abita lui non vede mai nessuno, che alcuni ci vanno solo per farsi la doccia… Povero NIELS ! ora so che non potrei viverci, nel “paese più egoista e più indifferente del mondo”.
(Temo che a far precipitare la situazione sia stato il fatto che lui è venuto un paio di volte fino alla mia porta. Qualcuno deve avere ‘denunciato’ il fatto. Forse la mia vicina, che in questi primi mesi ho intravisto appena un paio di volte, mentre ho sentito quasi ogni giorno, anche in ore diverse, la sua voce salmodiante…).
Ho l’impressione che fra me e la parte ‘pubblica’ di questo Paese scattino continui cortocircuiti. Io rappresento una specie di anticorpo ‘libero’ nei confronti dei suoi sistemi di sicurezza - della sua indifferenza verso chi soffre, o si trova gettato ai margini del suo sistema di valori: quelli dell’efficienza e della produttività !
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[Tre giorni in visita a Berlino, con Marisa e una sua amica venuta dall’Italia. Scopro il sistema del Mitfahren[10]: alcune agenzie espongono avvisi di automobilisti i quali, dovendo spostarsi da una città all’altra, fissano un prezzo modico per il trasporto di occasionali compagni di viaggio, e così coprono le spese di benzina e altri consumi. Helmut, il fidanzato di Marisa, ci aspetta già in una pensione dove ha prenotato anche le camere per noi. ]
Martedì - rientro da Berlino alle 5.30 del mattino. Alle ore 10, noi napoletani siamo tutti convocati dal Prof. Lönne; poi andrò a mensa con Adriana.
Nel pomeriggio passo per il supermercato. Spesa. Rientro a casa sul tardi. Lo incontro nel viale, gira la bici, mi accompagna. Gli dico che qualcuno non vuole che lo si faccia entrare nell’edificio. Comincia a parlare in quel suo modo particolare, ma questa volta nella sua voce s’insinua una nota acuta, quasi stridula. La sua protesta soffocata è impotente contro l’ingiustizia del POTERE. Dice che sono tutte così le amministrazioni dei Wohnheime.[11] Anche la sua Hausmeisterin è così e non bisogna farci caso, ma mettersi al disopra e ignorarle… Quella nota alta stride in modo sempre più sottile.
Sulla porta della mia cameretta trovo un biglietto scritto a matita, appena leggibile: “Hallo Teresa ! Ich war hier. Ciao. Niels ”. [12]
Mercoledì - mi aspettava anche stasera. Mi accompagna di nuovo e fa girare le ruote della bici stando in piedi su un solo pedale. Mi chiede quando potrà offrirmi una pizza. Accenno qualche scusa. Dice che la porterà qui da me, che non occorre andare fuori. Prometto: una volta o l’altra… Il gruppo dei Napoletani mi aspetta per chiedermi informazioni circa la gita a Berlino. Restiamo a parlare sul pianerottolo per una quindicina di minuti. Lui ci raggiunge e mi porge il cartone-vassoio delle pizze ‘da asporto’. Poi va via. Sollevo il coperchio: pizza alla napoletana - marinara, con le acciughe - divisa in quattro parti uguali. Nel vassoio ce ne sono tre: la quarta, evidentemente, ha costituito la sua cena. “Togliersi il pane di bocca”, si diceva una volta dalle mie parti - ma di solito ci si riferiva ai genitori nei confronti della prole…
Giovedì - Ha bussato e qualcuno gli ha aperto. Dopo qualche minuto era al primo piano. Ha chiesto di Christof, ma era un pretesto. L’ho ringraziato per la pizza e ho aggiunto : “ Ma perché? “ Risposta: “Das bin ich, das ist typisch von mir…” [13]
Poco dopo, in cucina, è riapparsa Angelika, l’Ebrea: il viso rosso è gonfio di stizza.
Gli ho detto con gentilezza: “ Niels, non dovresti stare qui”. Risposta: “Ach so !” [14], poi si è girato ed è andato via, come un gatto senza casa, che lascia un angolo di muro abitato prima che qualcuno lo cacci via a pedate.
Venerdì… Sabato: non si è visto.
Domenica - gli ho chiesto scusa: gli ho spiegato che non potevo fare diversamente. Ha sorriso, come sempre, tirando in su gli angoli della bocca. In tali momenti gli sorridono anche gli occhi, le punte delle ciglia gli diventano più chiare… intenerisce come la vista di un neonato, felice per la poppata appena presa.
Altra apparizione. Bussa al citofono. Credo ancora che sia Giovanni venuto a chiedermi aiuto per qualche nuovo problema. Mi sto truccando per uscire. Bussa alla mia porta, rispondo “ja”, poi “sì”, quindi apro io stessa. Resto un po’ a guardarlo con la vaga sospensione d’animo dei momenti di imbarazzo. Anche lui mi guarda per un po’, poi pronuncia un “liebe Teresa”[15], che ha la dolcezza e l’intensità di un verso d’amore…
Ancora domenica. Christine (l’unica abitante tedesca della casa con cui si è stabilito un rapporto piuttosto confidenziale: dialogo, scambi di opinioni; siamo anche state insieme a cinema e a un incontro multiculturale organizzato da un’associazione islamica): mi fa un quadro apocalittico della situazione psichica di Niels. Accenna a episodi diversi - di cui non capisco praticamente nulla - per poi chiudere con una sentenza che equivale a un liturgico “Vade Retro !” Sarebbe un fenomeno di personalità scissa, così radicale che quando la ‘parte buona’ si rivolge a me, il suo stesso aspetto fisico, i tratti del volto, la sua espressione, risultano irriconoscibili, per chi conosca l’ALTRA. Da quel che mi si lascia intendere, sarei io sola - fra tanti - ad averne conosciuta la faccia buona…
Sarà per forza di suggestione, ma finisco per ammettere con me stessa che forse c’è qualcosa di vero. Il Niels che quando parla con me è una controfigura vivente di James Dean, prima che facessimo conoscenza - per così dire - lo avevo visto alcune volte nel parco: nei suoi tratti mi era parso di scorgere qualcosa di torbido e ne avevo un vago timore. »
*****
Chiude il vecchio quaderno e lo getta nel cestino della cartastraccia. Poi lo riprende. Osserva le macchie che il tempo e l’abituale disordine della scrivania - dove a volte consuma anche i suoi rapidi pasti - vi hanno impresso. Che fare ? Ordine! Ordine…
Ma le metastasi avanzano… Saranno mani estranee, fra non molto, a fare piazza pulita di tutto, anche del vecchio pc. E Niels, appena ritrovato, finirà in discarica. Meglio che lo faccia lei stessa… Ora !
[2]. Citazione da un celebre frammento di M. Proust
[3]. Pensionati studenteschi
[6] . “Perché ? è normale, è la Germania!”
[7]. “Perché sei triste, Teresa ?”
[8] . “…e al mio amore eterno”
[10] Viaggiare insieme (dare/prendere un “passaggio”)
[12] .”Ciao Teresa! Sono stato qui. Niels”
[13]. “Io sono così, è tipico da parte mia…”
Id: 2176 Data: 26/02/2014 16:13:16
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Morte di unavara
morte di un’avara
(Appunti per un racconto)
Parole che nessuno vuole ascoltare... o leggere, ma che lei – l’avara – non vuole gettare via, perché sono l’unica cosa di cui trabocca, una specie di energia cosmica che si dissolverebbe nell’aria, avvelenandola. Quell’energia a volte la riempie fino a soffocarla quasi, allora cade in una specie di delirio interiore, come per effetto di un’implosione. La chiamano depressione, ma questo è già il dopo, quando le ceneri hanno sedimentato e sono diventate un peso intollerabile e lei si chiede: ma che senso ha tutto questo... questa che chiamano vita è solo una tragiparodia, e quella massa di residui combusti le sale in gola, come un urlo soffocato. Ma chi sta soffocando realmente, è lei.
Oppure, ma accade sempre più di rado, spinta da un’altra forza che tenta di contrastare la prima, corre al piccolo tavolo su cui poggia la tastiera di un minuscolo PC, e comincia a vomitarle tutte quelle parole, sul piccolo schermo luminoso che se ne gonfia fino alla saturazione.... E lei le guarda mentre prendono forma, e a volte vorrebbe poterle toccare con mano e sistemarle in tondo, come una corona di fiori per il caro estinto. Oppure a forma di croce, ma non è possibile, sono loro stesse a decidere come collocarsi sul rettangolo bianco del foglio virtuale. E non che le riesca almeno di mettervi ordine, di farvi spazio fra una cartella e un file, perché quelle icone col titolo in vista lei cerca di tenerle insieme, stipate in un contenitore unico, per lasciare in ordine il desktop. Ma quella scrivania virtuale è subito diventata una proiezione dell’altra, quella di mogano inglese con la vernice sbiadita, dove cartelle raccoglitori e fogli sparsi, a volte strappati da un vecchio quaderno, si mescolano in modo scomposto, perché ogni tentativo di riordino finisce col rendere tutto più incasinato, dato che lo spazio è poco e i ritagli di tempo in cui può farlo sono troppo frammentati... No, virtuale o vero, quel luogo destinato a produrre e accogliere parole s’incasina da solo, cercando forse di aiutarla, più di quanto già fosse incasinata quella strana nicchia di mattoni e legno ch’era diventata la sua tana.
Qualche volta però una terza fonte di energia riprende per un attimo vigore e lei corre al telefono. Quando la voce che risponde è quella che sperava di sentire, un diluvio verbale comincia a calare sul malcapitato. Scatta allora l’antica abilità di seduzione, perché tutto non finisca troppo presto, prima che il rigurgito dia luogo a un più pacato processo di metabolizzazione.
Tutto l’errare è intercalato da pause di riflessione sulla condizione esistenziale di chiunque sia portatore di un bisogno insaziato di spazio e tempo umano, ma di un’umanità che lei può solo immaginare, perché ancora ignota. Come un’immagine sognata di cui si è appena intravista la luce, ma che non si sa dove si trovi. Un bisogno che è nostalgia di luoghi e tempi diversi... più umani, appunto. Se non fosse che una elucubrazione fantastica, perché mai lei sentirebbe l’anima che brucia, sospesa su un oceano di silenzio... Quel sentirsi altrove, nella desolazione di un dove senza orizzonti, la paralizza per lunghi tratti, come una malattia indomabile che le lascia qualche sprazzo di quiete solo perché la sua vulnerabilità non si assottigli troppo nell’abitudine alla sofferenza. Fin da bambina aveva sperimentato quell’essere dentro-fuori, esule volontaria o bandita, senza un posto legittimo nel mondo degli altri. Poi aveva letto degli artisti che soffrono un disagio simile al suo, e si era sentita artista. Ma cos’era allora l’artisticità? Un destino o una vocazione?
Domande che non aspettano risposte perché l’arte stessa è cosa diversa a seconda degli interessi di chi deve maneggiarla. Perdita dell’aura, qualcuno aveva detto... l’arte riproducibile. No, no! non era questo il problema. Ma che cosa realmente fosse lei non poteva saperlo... sapeva solo il sapore acre della solitudine e del silenzio agghiacciante... e ne era pervasa, ed era stanca e senza più voglia né forza per pensare..
Poi ogni tanto riprendeva qualche foglio scritto – carta recuperata qui e là da vecchi quaderni o rubriche da buttare – e rileggeva le parole e le forme che lei vi aveva tracciato, e ne scopriva il senso, e si sorprendeva ogni volta perché non le riconosceva più come sue.
Un tempo ricordava quasi tutto a memoria, quello che aveva scritto, senza doverlo rileggere e poteva ripeterselo nella mente e sentirvisi ancora a casa. Ora non più, e quando rileggeva quelle cose che le apparivano nuove si sentiva più esule e apolide, più sola che mai. Ma riflettendo per convincersi che solo lei poteva avere scritte quelle cose, su quei fogli, le sembrava di ritrovare la via di casa, solo che poi non vi giungeva mai. Proprio come le accadeva un tempo nei sogni che tornavano di continuo... la via di casa c’era un istante e poi diventava un sentiero sconosciuto e per quanti sforzi facesse non ritrovava più quel tratto di familiarità rassicurante e la prendeva l’angoscia di una solitudine assoluta, in un mondo alieno e deserto... popolato solo da sassi bianchi.
Alla fine si dà fuoco nella piccola Fiat, con tutte le parole scritte (sue, ma anche di altri, quelle che non era riuscita a leggere, o a capitalizzare), che non riesce a gettare semplicemente via come fossero nulla – o spazzatura da eliminare – lei che da piccola, alle elementari, mangiava la carta dei quaderni già scritti e conservava le parti bianche per potervi scrivere altre parole....
Aveva imparato a ruminare, parole e pensieri che nessuno sembrava interessato a ricevere. Prima fece l’esperienza del soliloquio, ma di essa conservava un ricordo chiaro e mutilo, isolato dal prima, dal processo che l’aveva portata a farla quell’esperienza. Si rivide per un attimo tra i 5 e i 6 anni, nella grande camera della nonna, sdraiata supina sul lettino nell’angolo opposto a quello dov’era il letto di lei, troppo alto per essere scalato da una bambina. Parlava ad alta voce guardando la tela del soffitto, con tanti disegni enigmatici e misteriosi, intonati al rosso antico – o porpora – delle mattonelle vietresi e della carta da parato che rivestiva tutto. Anche i disegni del pavimento e delle pareti erano coordinati tra loro e quella stanza le sembrava perciò importante e misteriosa. E lei guardava il soffitto e parlava ad alta voce. E mamma entrò e fece una strana faccia, ma non disse nulla. Solo pochi giorni dopo, quando incontrarono quella giovane toscana che faceva la cameriera dallabaronessa, la quale abitava l’appartamento sul piano nobile, mamma disse che forse aveva fatto una figlia un po’ scema, perché parlava da sola. Che cosa avesse provato o pensato allora non lo sapeva, forse nulla. La mamma era la mamma e si doveva ascoltarla in silenzio, e quando si arrabbiava non bisognava neanche tentare di scappare per evitare le botte, o un’altra punizione; si doveva stare farmi e accettare ciò che decideva, e poi chiederle perdono... Ma lei non ricordava di avere mai parlato da sola, prima. In fondo, a pensarci bene, forse quell’intervento di mamma aveva fatto da collante per fissare il ricordo della circostanza monologante, che altrimenti avrebbe dimenticato.
Ora fluttuava per lo più su un “oceano di silenzio, in cui l’animo annega”, come aveva scritto in una vecchia poesia. E quando le capitava di incontrare qualcuno con cui poteva parlare, perché disposto all’ascolto e allo “scambio di esperienze” – come oggi con Maria Luigia – cominciava a parlare con foga e le parole le si affastellavano in gola costringendola spesso a ricominciare daccapo perché il suo eloquio risultasse coerente. Dopo si accorgeva di aver ritrovato energie che credeva perse per sempre, come se quel flusso a lungo represso le avesse assorbite, congelandole all’interno in tutto quel tempo. Ora si sentiva nuovamente in grado di riprendere i vecchi interessi e di liberare il tempo che le restava da vincoli e condizionamenti paralizzanti...
Il silenzio – si accorge che è diventato una condizione di esistenza che si manifesta anche nelle parole con cui la pensa quell’esistenza - per esempio in quelle poesie, delle poche che aveva scritto nel corso di mezzo secolo: A PPP ( “è rimasto di qua.. un più immane silenzio”), Ta-Tam (il dolore si perde... nell’oceano di silenzio in cui l’animo annega), Ascolta! (“come le mille parole senza suono che cadono.... nella voragine sorda del nostro silenzio)... Ma cosa significava tutto questo? che il silenzio le cresceva dentro come un’escrescenza morbosa e diventava parole, e se lei non poteva dirle doveva tentare di espellerle, attraverso la scrittura. Così la vita stessa, o quello che chiamano vita, a poco a poco si era trasformata in una ininterrotta rappresentazione simbolica, in cui convogliava ogni eccesso. Una sorta di metabolismo assimilava parte di ciò che quel processo produceva, il resto veniva rifiutato ed espulso come scorie dannose.
Ma quando era cominciato tutto? Ora si sentiva rimproverare anche i brevi occasionali lamenti per il dolore improvviso al pollice sinistro, all’anca che non le dava requie di notte – qualunque posizione assumesse...
Poi capì che anche lo stress le era diventato indispensabile, perché lei era cresciuta e si era costruita sullo sforzo di contenere le parole che le sorgevano dentro come fiotti impetuosi e che senza quella tensione continua la vita per lei sarebbe diventata una non-vita
“Adonde están las palabras ?”
ricordava ancora quel viso di ragazzo, la voce che bisbigliava quella frase mentre le sue mani sembravano carezzare non un corpo materialmente esteso, ma l’immateriale armonia dei vuoti e dei pieni che i polpastrelli curiosi si limitavano a sfiorare. Lei non osava allontanarli...
La qualità delle parole
Mettere una buona parola – dire una parola buona... ma che vuol dire ? ciò che è buono per te può non esserlo per un altro. Anche nella pratica della solidarietà, ciò che serve e che bisogna saper trovare è la parola giusta, non quella c.d. buona.
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(ritrovato per caso il 4-1-2012, mentre cercavo un file appena chiuso, con testi di Rino Mele, ricopiate dal Calendario Gutenberg 2011 - Interrogato, l’archivio di Finder, mi dice che è stato creato sabato 23 settembre 2006 alle 16.59)
Id: 2158 Data: 08/02/2014 17:42:59
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Un Progetto sbagliato
Un Progetto sbagliato
Spense il computer. Ormai era diventato lo specchio sincero e sfacciato della sua inadeguatezza. Ma com'era nato in lei quel progetto di vita? Che poi un vero progetto non era mai diventato, ma solo un'idea, o semplicemente una speranza, un'attesa, il sogno di un sogno pensato per riempire lunghe notti insonni, un modo per far risuonare una voce nel silenzio che le chiudeva la bocca dell'anima, come un cerotto che quasi blocca il respiro.
Anche allora, quand'era bambina, la sua incompiutezza doveva essere stata evidente a tutti. Perciò i genitori non volevano mandarla a scuola, e il fratello non diceva mai niente, neanche le parlava. Però la maestra, Suor Gemma, sembrava pensarla altrimenti, ma forse era solo per fedeltà al suo ruolo e al senso del dovere - in fondo, era una monaca...
La città dinanzi al mare, in cui era nata, offriva alla sua immaginazione prospettive su cui le persone normali non avrebbero sprecato il loro tempo - in quei tempi in cui era difficile perfino chiamare il medico quando si ammalavano perché abitavano lassù, a Valle dei Mulini, e bisognava fare centinaia di scalini per arrivarci. Ma lei si fermava a guardare quei "quadri d'Autore" da ogni gradino, e li conosceva a memoria... per modo di dire, perché lei non voleva imparare a memoria neppure le poesie che le piacevano tanto, per non sciuparsi il piacere della meraviglia, ogni volta. Poi, a scuola la bocciarono, a casa le assegnarono compiti nuovi, il bucato, lavare i fratelli più piccoli, pulire, cucinare per tutti. Ma quel segreto progetto, o sogno, che già la possedeva come se un mago o una fattucchiera le avessero fatto bere un filtro a sua insaputa, era cresciuto e continuava a confondere tutto, come una foschia luminosa: realtà e fantasia, vita e sogno, si mescolavano come il mare e il cielo quando banchi di colori insoliti scendono - o salgono - cancellando ogni divario, ogni traccia di demarcazione.
La città stessa, negli anni, era diventata troppo piccola per contenerla tutta - lei e il suo sogno segreto -, perciò era partita. Ma del suo progetto nessuno voleva saperne: la vita si vive, non la si progetta. E poi, chi era lei per garantire una riuscita apprezzabile? E chi ne avrebbe guadagnato? E così, poco per volta, la luminosità era andata spegnendosi, lasciandosi dietro una foschia grigio-cenere, come quella che proprio ora, dal cielo lontano, si allunga fin sul mare di Amalfi. Chissà cosa accade a un corpo che vi si getta da quest'altezza? Una bara è una bara, ma questo è un'altra cosa: il cerotto si allarga e ti chiude anche il naso. E più tardi galleggi, un po' gonfia, ma libera, nella corrente che sbanda urtando contro le rocce, che si ritrae per un poco, ma poi riprende l'impeto iniziale... E che importano i sogni pensati? Tu stessa, diventa quel sogno - che nessuno potrà più cancellare.
Il grido si perse nel fragore della risacca, il tonfo fu coperto dalla sirena del piroscafo che sollecitava l'arrivo di un rimorchiatore. Le correnti si spensero in un tranquillo moto ondoso. Il mare di Amalfi si produsse nell'abituale dondolìo che accompagna il risucchio della corrente, di ritorno dall'alta parete rocciosa, e divenne la cònnola ornata di trine e di riccioli bianchi che lei non aveva mai conosciuto.
(12 giugno 2005)
Id: 2145 Data: 21/01/2014 18:48:24
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