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Autoritratto con pianoforte russo Un libro di Wolf Wondratsc

Argomento: Libri

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 01/04/2021 15:54:44

"Autoritratto con pianoforte russo" ...
un libro di Wolf Wondratschek - Voland Edizioni 2021

Talvolta è il crepitio del fuoco nel camino, il suo tepore surriscaldato e asciutto in un giorno uggioso, a richiamare il desiderio di raggomitolarsi su di un ampio divano e di sfogliare le pagine di un libro; o magari, e perché no, di sprofondare su una vecchia comoda poltrona in un pomeriggio noioso, di quelli che non sai neppure cosa leggere … a me capita spesso, a voi no? Tanti sono i tomi (come mattoni) irrimediabilmente lunghissimi e noiosissimi che aspettano accumulati da qualche parte coi loro titoli smisurati che non lasciano spazio all’immaginazione, se non fosse che si è ormai convinti non esserci più fantasia, e non solo nello scrivere.
Dipende, mi dico. Scegliere un libro non è affatto facile se non ci si vuole addormentare già alla prefazione. Del resto il mercato rigurgita per quanto riguarda i falsi storici, la cronaca nera, l'insulsaggine della politica, le guerre (in)civili e lo sterminio dei popoli, pandemia compresa, ce n'è a iosa, come se non esistesse nient'altro e per di più scritti da improvvisati tuttologi che dopo la premessa, più o meno accattivante, ci si accorge della loro tendenziosa volontà di deviazionisti, del tutto privi di sincerità altruistica, stracolmi di verità insidiose e deleterie per lo spirito.
Sì che viene da chiedersi dove è finita l’armonia dei giorni passati a fantasticare, per quanto noiosi possano sembrare. Mi chiedo dove sono finite la narrativa accattivante, l’arte del racconto e del raccontarsi, l’immaginazione immateriale, l’astrazione della poesia, i sogni custodi della ‘bellezza’ che tanta parte hanno avuto fin qui, in questo nostro mondo obliterato(?).
Allora ben venga un libro che parla del nulla, della dimensione onirica, del vuoto della solitudine, dell’incomunicabiltà latente di quanti avrebbero pure qualcosa da dire ma che lo riservano esclusivamente alla ricerca di possibili/impossibili ‘like’ senza volto e senz’anima.
Ma ‘nell'esile durata dell’intervallo’, proprio quando il torpore della sonnolenza sta per raccogliere le spoglie del lettore pomeridiano, a un’ora indecente arriva il postino comunque benvenuto, a consegnare il plico contenente un libro nuovo di stampa dal titolo accattivante: “Autoritratto con pianoforte russo” del ‘redivivo’ Wolf Wondratschek, uno dei padri della Beat Generation che negli anni ’70 era famoso per le “raccolte di poesie dove i toni della musica rock si lega(va)no ai temi della cultura pop, e la sua tecnica letteraria ispirata al cinema che si combina(va) con la prosa corrosiva e una laconica ironia” (*) … Whow!, non mi rimane altro da fare, lo sfoglio immediatamente e mi butto sul divano, piacevolmente disturbato dal crepitio del fuoco …

L’incipit.
“Interno caffè. Tutti i tavolini occupati. Tutte le barzellette raccontate. Tutti i giornali letti. Stranieri e locali. I camerieri ballano. L’aria un sigaro che brucia. Al mio tavolo un russo, un pianista in gioventù. Una celebrità dimenticata” …

Ragazzi ma scherziamo (?), finalmente ho in mano qualcosa di esplosivo, da leggersi tutto d’un fiato in questi giorni di fine inverno, segregato al chiuso per il ‘lookdown’ che coinvolge l’intera città, dove non c’è più niente da fare neppure a volerselo inventare. Ma infatti chi lo vuole (?), insomma volevo dire, in solitudine, che se non è l’apoteosi dell’ozio è certamente la sua apologia. Pensate, l’ozio come paradigma della metropoli, l’ozio come stile di vita, necessario (chi lo direbbe?) per avviare nuovi progetti di estetica culturale, nuove forme di agglomerati umani interessati (si fa per dire) alle nuove sfide sociali …

“Com’è essere soli? Ci si annoia? O si è tutti presi a combattere la solitudine? […] Non c’è più tempo per lavorare. E neanche tempo per riposare, starsene seduti e non pensare a niente.”

Niente. (?) Eppure è una soluzione. Ma se proprio non si trova di meglio si può sempre pensare a come raggirare l’ostacolo della perdita dell’economia (ir)reale, a come risolvere il problema della (dis)obbedienza civile, finanche a come arrivare e tornare da Marte.Non certo come rendere partecipi le nuove generazioni alla nozione culturale, o di come ovviare alla consapevolezza sociale, per non dire dell’arte, scherziamo, neppure l’ombra. Però ci si lamenta della svogliata noncuranza dei giovani a indossare le mascherine contro il letale Covid19, della rinuncia a cercare un lavoro, delle giovani coppie che non vogliono avere figli, dell’ostinata dissolvenza dei vecchi davanti alla televisione …

“Vede, disse (il vecchio pianista Suvorin), la lettura di una poesia, la lettura di un racconto o di un romanzo, non sono eventi sociali. Uno si siede, da solo, da solo con sé stesso e un libro, e legge. E a volte si ferma a riflettere, accantona il libro aperto per ripensare a una frase, a un punto preciso, a una certa formulazione che gli rivela la bellezza della lingua. Da ogni cosa si può associare tutto con tutto” … è così, non vi pare?

Oh sì, meglio la solitudine, afferma qualcuno, del resto fin da quando si nasce sappiamo d’essere soli, ma chiedersi ‘quanto si è soli quando si è soli’ è decisamente arduo rispondere. Ci prova egregiamente Wolf Wondratschek in questo libro di racconti in cui si racconta, e c’è da credergli, dove il minimo che può capitare, ma solo a chi è attento alle sbavature di un pianista (leggi lettore) che ben sa dove condurre la partitura, quale musica suonare sul pentagramma dell’esperienza, di quali (a)moralità non è illecito parlare, perché - viene da chiedersi - se in fondo anche queste fanno parte della vita (?). Così si finisce per dare ragione al nostro pianista alle prese con un autoritratto di cui “invero lo spirito della musica s’avvale”, come per un allegro e scherzoso rondò russo …

“Inconcepibile quanto un uomo possa diventare inutile, un uomo come me, che alla fine trova posto in un vuoto di memoria, senza scarpe, senza un sogno.”

Lo si direbbe un libro scritto da una presa di coscienza, in cui si riversa l’approvazione per una vita vissuta, allorché dopo l’applauso di rito (che accompagna ormai anche i funerali), ci si accorge che poi non era quello che volevamo, che aver vissuto non è stata una necessità individuale, ma un dovere sociale. Allorché svanita l’eco dei battimani quel che rimane non riguarda già più il suo e nostro tempo, ma la singola individualità di chi il tempo lo ha fatto, di chi lo ha scritto sulle pagine (ops!), sul pentagramma della storia (umana?).
Certo è che la musica, straordinariamente quella impegnata(iva) che chiamasi ‘classica’, è qui protagonista insieme a Suvorin, l’anziano pianista della narrazione. Del resto se il titolo recita “..con pianoforte russo” non ci si può aspettare altro, benché ci sia moltissimo ‘altro’ nelle pagine fitte dell’esperienza (s)confessata di tutta una vita. Sì che neppure noi lettori infine ‘crediamo di credere’, o meglio di non avere una fede, di non amare se non noi stessi, di non … bla, bla, bla; mentre al contrario, dal momento che lo affermiamo, diamo conferma di aver radicate tutte le sue (non) convinzioni in noi stessi, poiché parte anche del nostro DNA, il pentagramma sul quale è già scritta tutta la nostra musica che suoneremo.

È così, magari il nostro amico pianista Suvorin, parla in ‘cirillico’, ma noi sappiamo che le note (dell’esistenza) suonano tutte allo stesso modo, quantomeno “l’istesso tempo”. Per quanto alle nostre orecchie il pianoforte dell’austriaco Schubert non suoni come quello russo di Rachmaninov, a sua volta diverso dai timbri sfumati del francese Debussy, diverso inoltre da quello di Shostakovich. Così come, solo perché vissuti in epoche diverse, le interpretazioni ‘romantiche’ di Svjatoslav Richter non sono paragonabili a quelle ‘moderne’ di Glenn Gould o dell'amatissima Clara Haskil, se pure la tastiera, le note, finanche la coda del pianoforte e lo sgabello hanno le stesse fattezze. Siete d’accordo?
Il portento dei maestri russi non è qui messo in discussione, per quanto rileviamo le differenze dell’impatto acustico nell’incedere pianistico dell’uno piuttosto che dell’altra. Né chiedersi in che cosa consiste il "raggiungimento della perfezione" e “quale il prezzo da pagare per raggiungerla” in quanto parte di un insoluto musicale la cui domanda è ancora sospesa nell’aria, per lo più relegata al piacere dell’appagamento che se ne ricava. Ma è proprio questo il ‘clou’ a cui avviene l’autore del libro con una presunta domanda: 'se la musica pur così appagante necessita del nostro plauso o, se invece, ci rende schiavi delle sue sonorità, dei suoi amalgami con la danza e con la poesia (?) …

Lo so, lo sapete anche voi, non è facile trasformare il clap-clap delle mani o il suono delle vocali e delle consonanti in altrettante note musicali, né tantomeno le spaziature in bianco di una scrittura del silenzio, per quanto talvolta (direi spesso) il silenzio è decisamente la cifra di un’emozione più forte, che supera in ampiezza il sentimento, che di per sé darebbe senso all’amore e/o più semplicemente al fascino della bellezza che l’autore distribuisce in ogni pagina. Se si è d'accordo con lui che dice di non avere alcun credo, si corre il rischio di sentirsi compiuti, appagati, come fuori dal tempo, nell’incombenza d’una furtiva felicità che sembra non ci competa …

“Penso sempre ancora a tutti quelli che pregano e se ne stanno in silenzio, quando penso alla musica. In ogni nota sento sempre ancora, quando sento musica, la pioggia.” […] Non so se fossi felice. A impegnarmi erano cose più importanti che la voglia di felicità. A tutt’oggi non mi interessa conoscere la risposta. A volte penso che la felicità consista proprio nel non cercarla né volerla trovare. Più, felice ancora è chi non ne fa un caso, nemmeno nella sventura.”

Il silenzio della preghiera è come una sega che non viene, sarebbe stata la risposta bukovschiana che ci si aspetterebbe dall’iperrealista Wolf Wondratschek, ma, in quanto a Suvorin sul fatto di seguire o no un credo, alla domanda: “..e lei in cosa crede?” , la risposta arriva immediata e senza troppi convenevoli “..Ci penserò la prossima volta che ci vedremo. […] Questo è tutto. Forse , sforzandomi, un giorno crederò finalmente anche all’autorità di ciò che, in malafede, chiamiamo caso.”
Inoltrandoci nella scioltezza della scrittura, viene affermato un principio inalienabile riguardante l’immortalità creata dai poeti, qui definita “pericolosamente bella” che, protetta dall’afflato d‘una immaginaria esecuzione musicale cosparsa in ogni pagina infuoca tutt’attorno: “..stare vicino alla fiamma tanto da farsi avvolgere dal fuoco, capisce?”, (sì da dover fare attenzione a non bruciarsi). Attenzione, ne vale l’immortalità annunciata. Ciò che talvolta, invece, richiede l’applauso del pubblico, ma che qui risuona come un azzardo, una sventatezza di cui quasi vergognarsi …

“Odio gli applausi. Che sciocchezza, tutto quell’applaudire! L’ultima nota deve ancora sfumare che subito (s’odono) urla, strepiti , bravo! Non un attimo di silenzio, nemmeno mezzo secondo. Che ignoranti! che Barbari! Nemmeno ascoltano l’eco, non vi si soffermano, non sono scossi, pieni di stupore, non vi è traccia di abbandono tra gli ascoltatori.” […] “Bisogna ascoltare, nella poesia che viene cantata, le consonanti, non giocarsi le vocali. È questo il segreto.”

Lo so, lo sapete anche voi, non è facile trasformare il clap-clap delle mani o il suono delle vocali e delle consonanti in altrettante note musicali, né tantomeno le spaziature in bianco nei vuoti del silenzio, per quanto talvolta (direi più spesso) il silenzio è decisamente la cifra di un’emozione più forte, che supera in ampiezza il sentimento, che di per sé darebbe senso all’amore e/o più semplicemente al fascino della bellezza che l’autore distribuisce in ogni pagina. Lui che dice di non avere alcun credo. Si corre il rischio di sentirsi compiuti, appagati, come fuori dal tempo, nell’incombenza d’una furtiva felicità …

“Penso sempre ancora a tutti quelli che pregano e se ne stanno in silenzio, quando penso alla musica. In ogni nota sento sempre ancora, quando sento musica, la pioggia.” […] Non so se fossi felice. A impegnarmi erano cose più importanti che la voglia di felicità. A tutt’oggi non mi interessa conoscere la risposta. A volte penso che la felicità consista proprio nel non cercarla né volerla trovare. Più, felice ancora è chi non ne fa un caso, nemmeno nella sventura.”

Nel frattempo … “Il caffè è colato, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce –avverte l’autore – (Suvorin), beve dalla tazza. Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua, piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe, felice come questo può rendere felici” …

Oh sì! Il tutto ha richiesto un’attenzione particolare, una lettura perspicace, onde rimembrare il tempo vissuto fra uggie e silenzi, mentre fuori continua a cadere la pioggia, ogni goccia una nota che s’accompagna al crepitio del fuoco acceso che surriscalda il torpore dell’ozio … non ne sentite la musica, no? …

E dire che sono solo a metà del libro ...
..comunque vada, per favore non sparate sul pianista!

Pssst: vi innamorerete di Suvorin ... è un grande!

L’autore. (*)
Wolf Wondratschek, scrittore, poeta, sceneggiatore (Rudolstadt 1943), cavalca dagli anni ’60/’70 la scena letteraria internazionale, in cui è noto come esponente della Beat Generation tedesca. La sua produzione cinquantennale comprende anche racconti, reportage e radiodrammi che alterna con la critica sociale, scritti intimistici, e ritratti di artisti.

Tradotti in italiano sono reperibili oltre al titolo qui recensito, “Mara. Autobiografia di un violoncello.” Con CD audio – TEA 2008.

Note:
(*) Dalla presentazione di copertina.
(**) Foto di copertina di Renzo Baggiani "La tazzina di caffé" - in Pinterest.

Edizioni Voland - www.voland.it


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