[ Articolo tratto da Critica Impura ]
Liberare la poesia: ma da che cosa? La polemica fra Carlo Carabba e Vincenzo Ostuni, facendo il punto.
ho fatto passi indietro da gigante, in questi mesi:
il mio cervello
trema come marmellata marcia, moglie mia, figli miei:
il mio cuore è nero, peso 51 chili:
ho messo la mia pelle
sopra i vostri bastoni: e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso
vi lascio cinque parole, e addio:
non ho creduto in niente.
(E. Sanguineti)
È sorta una polemica che pare nuova, ed in realtà è vecchia e polverosa. Si è sviluppata in questi giorni sulle pagine di La Lettura fra Carlo Carabba e Vincenzo Ostuni, attorno a due mo(n)di opposti di concepire la poesia. Carabba (Meno Sanguineti più Szymborska – Liberiamo la poesia, su La Lettura, n.17, 11/03/2012) pretende faziosamente di spiegare l’improvvisa popolarità della poetessa polacca col fatto che “i versi della Szymborska hanno un pregio che spiazza e sorprende il lettore: si capiscono e, spesso, commuovono”. Ciò lo porta, contro Ostuni, a dare addosso ai maggiori rappresentanti dello sperimentalismo e della neoavanguardia italiana per colpire, più o meno indirettamente, i versificatori sperimentali d’oggi in toto, e non solo, a ben vedere, quelli raccolti da Ostuni nell’antologia dei Poeti Anni Zero contro cui apertamente Carabba si pone, in quanto distanti dalla sua idea di poesia comprensibile, soggettiva e sentimentale. Per fare questo egli generalizza alcune affermazioni personali sulla poesia che non sono pacificamente universalizzabili. In particolar modo, il suo Malleus Maleficarum se la prende col Gruppo 63 come capostipite di una scuola poetica intellettualistica e difficile, che il pubblico non apprezza (ma tocca vedere quale).
Scrive infatti nel suo trafiletto Carabba: “i bersagli polemici dei neoavanguardisti sono principalmente due: una lingua che abbia la pretesa (ingenua) di significare qualcosa e la malaugurata tendenza dei poeti a parlare di sé. E ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, l’odio per la lirica non si è affievolito come mostra, ad esempio, la prefazione di Vincenzo Ostuni”all’antologia succitata.
Ora, a parte che non si può identificare lo schizomorfismo linguistico del Gruppo 63 con l’assenza di significazione, perché in realtà esso consiste nell’aspirazione all’esplosione prismatica della stessa, atta a sottolineare la schizoide iperrealtà della società contemporanea, consumistica e caotica, di cui si pone a mimesi; a parte che i poeti del Gruppo 63 non è proprio vero, al di là dei proclami, che non abbiano mai detto “io”; a parte che identificare la lirica in quanto tale con il sentimentalismo e col verso comprensibile è quantomeno riduttivo; ci si deve domandare, gettando un occhio al titolo del pezzo, se la poesia davvero si libererebbe quando vende. Ma andiamo per ordine con le argomentazioni.
La Szymborska, grande poetessa, da noi è ovviamente letta dalla maggioranza dei fruitori in traduzione; come per tutte le traduzioni, leggerla dal polacco equivale a trovarsi di fronte una parafrasi, come dire che uno pensa di leggere poesia ma in realtà ha davanti agli occhi solo qualcosa che va a capo. Paragonare la poesia italiana con poesia straniera in traduzione, quanto a sé, equivale a sommare le mele con le pere. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere: perché la Szymborska in Italia vende tanto più adesso che è morta? Non è forse per via della diffusione mediatica dell’evento, effetto rebound di Tranströmer, altro illustre precedente sconosciuto al popolo, che in Italia non avrebbe venduto una sola copia se non fosse passato per i media mesi fa a causa del Nobel?
Ma davvero stiamo pensando che ci sia un altro motivo? Se fosse così, dovrebbe essere un best seller Sandro Penna. Se un’eventuale riedizione critica di Penna non venderà più di Tranströmer e della Szymborska, l’ipotesi potrà considerarsi popperianamente falsificata per modus tollens. E dunque il senso dell’intero articolo di Carabba non sarà che metafisico.
Il secondo punto a detrazione della tesi di Carabba è il fatto che c’è avanguardia e avanguardia. Non si vede, ad esempio, per quale motivazione, estetica, logica, contenutistica o formale La Ragazza Carla di Pagliarani debba essere qualcosa di poeticamente incomprensibile o di emotivamente sterile, pur se non dice “io”. Certo, Pagliarani nel poemetto sviluppò una sorta di neocrepuscolarismo sperimentale, e per questa sua versificazione piana, il testo si capisce. Ma sempre avanguardia è.
La pretesa di antinomizzare il Gruppo 63 con le due istanze (comprensibilità ed emozione) che furono già proprie di un Prévert è pericolosa, perché istituzionalizza, come esclusiva latrice di poesia, la tendenza abbracciata da molti comprensibilissimi poeti emozionali di oggi, che ci impongono di leggere versi di successo, stucchevolezze congeneri al “Considero valore” di Erri De Luca, affinché il pubblico di livello mediobasso si appaghi della lubrificazione oculare massificata, del prodotto eterodiretto dei propri dotti lacrimali azionati a comando.
Senza contare la reductio ad unum col Gruppo 63 che si fa della storia della poesia italiana contemporanea di tendenza in questo, esso sì, tendenziosissimo articolo. E Sereni, Caproni, Bertolucci, Pasolini, Luzi, Saba, Penna, il Volponi poeta? Perché tacerne mascherando così la realtà, ovvero che il Gruppo 63 storicamente è stato solo una frangia, e neanche la più seguita dal pubblico, della poesia italiana?
Alla luce di queste considerazioni, pur partendo bene e da assunti condivisibili, l’articolo appare smontarsi da solo e perdere qualsiasi forma di consistenza argomentativa, semplicemente perché non è vero che non esista poesia italiana contemporanea sperimentale degna di tale nome che sia anche accessibile sul doppio piano estetico e intellettivo a tutti. A meno che il discorso non verta sul piano del consumo industriale, ma allora il topic dovrebbe essere diverso e la parola poesianon dovrebbe venire in esso abusato.
La verità è che non esiste in poesia nessun default categorematico in un senso (comunicativo) e nell’altro (elitario), se essa esprime in varie possibili forme non altro che lo spirito lirico e/o sociale del suo tempo (dico e/o perché per esempio nella poesia civile di Pasolini i due punti convergono compiutamente). Allo stesso modo non esiste e non deve esistere un canone giocoforza universalmente condiviso; un tale problema, infatti, non si pone se non nell’articolo di Carabba, che invece pare crederci.
Ostuni e Carabba divergono volontariamente in un polemico dualismo che non vuole risolversi, perché se lo facesse, scoprirebbe “l’ovvio della non ovvia condizione dell’ovvio” (per dirla alla Emilio Garroni), ovvero, parafrasando Pizzuto, che “la poesia è poesia, se la poesia è poesia, finché la poesia è poesia”. Cerchiamo di indagarne, al limite, il fondamento estetico con lame più affilate che la sterile polemica socioletteraria. Qui occorre – forse- la filosofia.
In risposta alla polemica in cui sono intervenuta fra le pagine facebook dell’amico Vladimir D’Amora, sulle quali il dibattito è proseguito e sta proseguendo in questi giorni, Carabba mi risponde che “i recenti risultati commerciali della Szymborska falsificano (“popperianamente”…) questo assunto e mostrano che, date determinate condizioni, un pubblico mediamente colto e interessato è ben felice di acquistare e leggere poesia”. Ed invece non lo falsificano, proprio a causa della presenza di numerose variabili: la morte, il Nobel, l’effetto rebound già citato, la diffusione mediatica su giornali, trasmissioni televisive, social network. Stessa cosa accadde a suo tempo per Alda Merini, dalle reiterate apparizioni al Maurizio Costanzo Show fino alla morte andata a finire su tutti i giornali, la curva delle sue vendite e riedizioni continue ancora non scende. Questo dimostra solo che, quando la poesia vende tanto, ciò accade per questioni che esulano molto spesso dalla poesia stessa. Per uscire un poco fuori dal contesto, pensiamo, ad esempio, alle vendite dei Queen dopo la morte di Freddie Mercury.
Se volessimo inoltre intavolare seriamente un discorso filosofico estetico sul senso del bello in poesia, oggi ch’è oggi, occorrerebbe innanzitutto non riferirsi a Kant come invece Carabba fa implicitamente nel suo articolo ed esplicitamente nella discussione successiva alla sua pubblicazione. E non bisognerebbe citarlo per una serie di ragioni: perché nell’articolo Carabba sostiene che non si debba eliminare il giudizio di gusto “mi piace / non mi piace” come invece avrebbero preteso fare i Novissimi, ma per il Kant della KdU tale giudizio non è riferibile al bello, bensì al piacevole, che è e rimane soggettivo e dunque non consiste nella categoria estetica che possa decidere della validità o meno di un’opera; e poi perché Kant era un classicista, e perché delle due l’una: o parametro artistico contemporaneo è il piacevole, ma se si assume Kant non può esserlo del bello e dunque il discorso di Carabba lascia il tempo che trova, oppure neanche il bello classico come Bestimmungsgrund è parametro artistico contemporaneo, postmoderno o tantomeno transmoderno, e non lo è almeno dall’estetica del brutto di Rosenkranz in poi.
Già Hegel ci aveva avvertiti della “morte dell’arte” (in realtà egli parlava non di morte, ma di “superamento”) proprio nel senso che il classicismo, nel diluvio a lui seguente, si sarebbe profeticamente esaurito e spento, come le avanguardie storiche e gli sperimentalismi del successivo Novecento, non solo in poesia, ma nell’arte in genere, stanno a testimoniare. Che l’arte contemporanea si sia svincolata dall’immediatezza comunicativa per assurgere a livello del simbolo deformato di una realtà orrenda e, pertanto, trasfigurata esteticamente in analogie poco comprensibili, è cosa che si sa dal dadaismo: gettiamo anche alle ortiche Picabia (i suoi quadri e i suoi versi improvvisati), il discorso non cambia, perché è l’eventualizzarsi storico a palesarne il senso via via nel suo da farsi. Oggi, poi, che siamo ben oltre tutto questo, quand’anche il postmoderno come concetto appare superato.
Ma la questione è più, come dire: grave. Eh sì, perché la polemica sembra attestarsi sulle veteroposizioni crociane (un Croce, com’è noto, che nella prassi critica diceva una cosa, e nella teoria estetica un’altra); sembra infatti ancora di stare, come in Poesia e Non Poesia, a vivisezionare tagliuzzare anatomizzare: “qui il momento lirico c’è”, “qui non c’è”, “qui di nuovo c’è”, “qui ancora non c’è”…
Nella sua risposta su La Lettura (18/03/2012, Liberiamo la poesia sì, ma dai piagnistei facili che neppure vendono) Ostuni, in fondo, non fa che difendere le molteplici possibilità espressive della poesia sperimentale. Ha ragione nel citare Giuliani che nella prefazione ai Novissimi scriveva: “Si deve poter profittare di una poesia come di un incontro un po’ fuori dall’ordinario”, non foss’altro che, in modo interessato, lo fa per difendere i Poeti degli Anni Zero di cui ha personalmente curato l’antologia. Quanto al florilegio ostuniano ideologicamente eterodiretto dei propri poeti preferiti, è male vecchio. In questo senso, a onor del vero, Sanguineti non compì un’operazione tanto dissimile con la sua antologia einaudiana della Poesia italiana del Novecento, come quando vi pubblicò alcune fra le poesie meno significative di Penna per metterlo chiaramente in cattiva luce, oppure quando dedicò pagine e pagine a Gian Pietro Lucini, per Sanguineti icona sperimentale delle Neoavanguardie, ma prima d’allora considerato epigonale da tutti.
Tuttavia, al di là di questo suo inter-esse personale alla questione, Ostuni ha ragione a citare Roversi quando afferma che occorre “l’umiltà” (da Carabba e molti lettori scambiata per spocchia) di «sedere al tavolo dei linguaggi» contemporanei e non arroccarsi nella tradizione”. Che poi – e qua torniamo a monte – c’è tradizione e tradizione.
Lo stesso Gruppo 63 fu criticato in pochi anni, e molto prima di Carabba, per essere rientrato nel Sistema in senso accademico, per aver creato una “scuola” dopo essersi posto, programmaticamente, contro tutte le “scuole”; per avere, in una parola, dato il via ad una tradizione antitradizionale, che in quanto tale, non meno tradizione si ritrova oggi ad essere. Ma questo assunto, ribadisco, è storicamente valido in un senso e nell’altro. Pensiamo alla normativizzazione che immediatamente ebbe luogo circa l’opposta “linea sabiana” (quando per normativizzare bastava, come basta ancor oggi, inventare costruttivisticamente una definizione o un sostantivo collettivo in cui incasellare i nomi propri di persona). Aborrire le canonizzazioni è pratica discorsiva che spesso non trova riscontro nei fatti. Anzi, debbo dire, quasi mai.
Quanto a me, io non condivido l’assunto di Carabba perché “poeticum nihil a me alienum puto”: la mia critica, in definitiva, riguarda la sua pretesa esclusione di una determinata idea di poetico, esclusione che egli imputa ad Ostuni, quando a ben vedere e per quanto sembri paradossale, la posizione di quest’ultimo, nel difendere la poesia sperimentale, non pare tanto rifiutare, quanto accogliere un po’ tutte le forme poetiche ben al di là della polemica: proprio perché gli sperimentali non escludono la comunicazione, l’emozione, l’io da nessuna parte. Eppure Ostuni pone una premessa: se di poesia si tratta e non, come dice lui, di piagnisteo e filastrocca infantile, che di poetico, a parte il titolo, non hanno nulla. Allora qui la polemica dovrebbe spostarsi su chi merita e chi non merita l’appellativo di “poeta prefica del Salento”, su chi è degno e chi non lo è, e soprattutto perché. Ma sarebbe una carneficina inutile e soprattutto pretenziosa e surrettizia; su quali ragionevoli fondamenti estetici, poi, che in tutto questo dibattito non ne ho punto visti? I Canoni Letterari, così, scritti in maiuscolo, sono sempre assiomaticamente sistemi chiusi; ed io parteggio per il sistema aperto, via via perfettibile proprio perché includente. Come del resto è la natura del linguaggio.
Credo comunque che la polemica sorta fra Carabba e Ostuni, oggigiorno, sia sterile se non inquadrata nella necessaria ed urgente analisi dei rinnovati meccanismi socioeconomici del puro marketing e tra l’altro, di per sé, è vecchissima: si sta riproducendo in qualche modo l’antagonismo Sanguineti – Pasolini e il dibattito annoso che ci fu sulle pagine di Officina e Il Menabò. A maggior ragione perché ci son stati poi poeti (i cultori della materia non debbono cercarli col lanternino) che le due istanze comunicativa ed elitaria, soggettiva ed intellettualistica, sono stati in grado di ricomprenderle in sé.
Come ha giustamente ed opportunamente ravvisato anche Renzo Paris in un suo commento al dibattito, la polemica sulla presenza o meno del soggettivismo e del sentimentalismo in poesia è essa stessa roba vecchia, risalente agli anni Sessanta; e per questo, a me pare, non aggiunge nulla di nuovo se non la consapevolezza che nella mente dei giovani intellettuali italiani esiste oggi un buco storico di preparazione e svecchiamento che in qualche modo deve essere colmato. Non solo, insomma, ci tocca leggere epigoni su epigoni poetici, ma anche critica epigonale? A che pro dovremmo perdere tempo prezioso, quello stesso che, per puntualizzare tutto ciò, anch’io sto impiegando forse male?
Per concludere, a me sembra che polemiche come questa siano costruite ad arte (ma non per questo si tratta di combine come nel calcio!), giusto per smuovere un poco di polvere sulle pagine dei giornali e far vedere che l’intellettuale è vivo e fa qualcosa. In qualche modo, aveva ragione Pagliarani a denunciare questo vuoto di argomenti che deve giocoforza darsi come pieno in una sorta di vitalismo fatuo che faccia vedere un’ombra di sostanza agitarsi sotto la coltre, non fossero altro che vermiformi argomentazioni ormai in decomposizione. La poesia, ma anche la critica, come qui pare, è “il nostro daffare al momento / è saltare è saltare è saltare / se no sulla coda ci mettono il sale”.
Per approfondire ecco gli articoli originali:
Carlo Carabba:
http://edizionipontesisto.wordpress.com/2012/03/18/carlo-carabba-meno-sanguineti-piu-szymborska-liberiamo-la-poesia/
Vincenzo Ostuni:
http://edizionipontesisto.wordpress.com/2012/03/18/vincenzo-ostuni-liberiamo-la-poesia-si-ma-dai-piagnistei-facili-che-neppure-vendono/