Da "il tetto", n. 340, novembre-dicembre 2020
Remo Rapino, scrittore neorealista
“Ce steva nu scarparo puveriello,
chiagneva sempe ca purtava 'a croce...
'A sciorte lle scassaje 'o bancariello
e pe' se lamentá... perdette 'a voce!”
[Giovanni Capurro, Totonno ‘e Quagliarella]
“Anche se questa non è una favola per bambini
bisogna che io cominci scrivendo C’era una volta,
perché era proprio una volta che c’era un bambino”
[Andrea Bajani, Un bene al mondo]
«Ogni storia di uomo, matto o normale, è una mescolatura delle stesse cose, na cascanna di lacrime, qualche sorrisetto, na cinquina di gioie di straforo, e un dolore grosso come quando al cinema si spengono le luci». E ogni vita, a suo modo, è eroica.
Molto prima che la scrittura fondasse la Storia, l’oralità trasmetteva la memoria di vite trascorse, risuscitando uomini vissuti in epoche remote. L’oralità era già epica e diceva di avventure sovrumane, di guerre e sconfitte, di lutti e rovine, di amori e portenti. Gli aedi di allora deducevano dalle sepolture la materia del racconto e si aggiravano, ciechi, tra le macerie di un tempio o di una città distrutta per trarre ispirazione. I ruderi che ancora oggi ammiriamo sono in realtà sepolcri. Sotto archi e trabeazioni corrosi dal tempo vissero degli uomini.
Fu così che Edgar Lee Masters fece parlare i suoi morti, fu così che dalle tombe Foscolo trasse i suoi intramontabili versi. L’epitaffio ci dice che la tomba ha un senso per i vivi, ci dice che lì, in quel punto, ci sono i resti di un uomo che fu.
Remo Rapino[1] è il Foscolo degli esclusi, mimeticamente “vernacolare” e, proteso a echeggiare la voce di un’esistenza dimenticata, “scioglie all’urna un cantico / che forse non morrà” (Manzoni). No, non celebra Napoleone. Andiamo, il grande condottiero lo trovate in tutti i libri di storia, magari strade e piazze ne ricordano le gesta. Napoleone lo conoscono tutti, ma Bonfiglio Liborio chi lo conosce? Nessuno, statene certi, nessuno! Tranne Remo Rapino che, un giorno, aggirandosi tra le tombe di un cimitero abruzzese, nella zona di Chieti più o meno, così, per caso, legge su una lapide di marmo liscio e chiaro, con lettere di oro, finto però, che va a finire che se sono di oro vero, come ci sta per il mondo un sacco di malagente ladresca, uno di notte se lo può arrubbare, dopo non si legge niente…, ecco, dicevo, gli pare di leggere il seguente epitaffio o, quanto meno, il suo progetto, un modo come un altro per sbeffeggiare la morte:
QUI finalmente RIPOSA
LIBORIO BONFIGLIO
Fiommista
Nato 22 agosto 1926 morto (ce lo mette il marmista)
Aveva gli occhi uguali a quelli di suo padre
Volare oh oh nel blu dipinto di blu (se ci capa)
Quasi un secolo di storia nazionale emerge dallo sproloquio di Bonfiglio Liborio, scritto sempre così, non diversamente da tutti gli altri personaggi del libro, prima il cognome poi il nome, com’era uso un tempo nei pochi momenti ufficiali delle umane esistenze italiche, negli atti pubblici, nei registri scolatici, a militare; il nome, il connotato che fa di noi degli individui, ciascuno unico con la sua sensibilità e la sua biografia, veniva sempre dopo, a tutto vantaggio del tratto clanico che ci faceva branco a nostra insaputa.
È tutta un’altra storia, ovviamente, una storia miope che farebbe storcere il naso agli storici di professione, ma forse più vera perché riferita da un testimone che l’ha subita senza mai veramente comprenderla. Il Fascismo e la guerra, il lungo dopoguerra e la ricostruzione, il boom economico e le lotte operaie, lo stremismo politico e le stragi impunite, gli anni di piombo (molto in sordina e c’è un motivo) e la legge Basaglia che chiude i manicomi; e poi via, di corsa, verso il riflusso, il berlusconismo e gli epigoni confusi di inizio millennio.
A farne le spese siamo stati noi, cioè, scusate, volevo dire è stato Bonfiglio Liborio, uno qualsiasi, un perfetto sconosciuto, uno dei tanti. Posso permettermi di dire “uno di noi”? Certo. Quelli che finiscono nei libri di storia o danno il loro nome a una strada sono un’esigua minoranza. Nessuno si ricorderà di noi, mettiamoci l’animo in pace. Allora ben venga questo bel monumento al defunto ignoto che Rapino erige per noi. Sì, perché dentro Bonfiglio Liborio ci siamo davvero tutti, anche se abbiamo visto ben poco mondo e tutt’al più abbiamo fatto il militare a Cuneo, come recitava l’ottimo Totò. No, Liborio non lo ha fatto a Cuneo, ma in un paese che si chiamava Tauriano di nome e Spilimbergo di cognome. Ha ventun anni e a casa non lascia nessuno, anzi nessuno va a salutarlo alla stazione, neppure quella Giordani Teresa della quale si è innamorato e che resterà per sempre l’amore mancato della sua lunga esistenza.
Poi il mondo lo vede da migrante, prima in una Milano fredda e nebbiosa che pare uscita dalla penna di Testori, poi in Emilia e Romagna che sembra guardare ancora con gli occhi dell’amato Pascoli. È operaio in un’epoca in cui impera ancora il fordismo e il lavoro in fabbrica appare tal quale ce lo rappresenta Chaplin in Tempi moderni. È alla Ducati che Liborio manifesta il suo unico vero atto di ribellione a un destino crudele. Dà di matto e finisce prima in galera e poi in manicomio. Non è davvero pazzo, è solo stravagante, una cocciamatte così come egli stesso si definisce (Però mica è tanto matto il nostro Liborio, gli diceva il dottore Mattolini Alvise).
La legge 180 che, nell’intenzione del legislatore, voleva essere una conquista civile è per lui la condanna alla solitudine e alla marginalità sociale. Dopo quarant’anni fa ritorno al paese, dove la nomea di cocciamatte lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. L’onirico e visionario banchetto con cui dice addio al mondo è la sarabanda dei ricordi, la grottesca adunata delle scorie umane che hanno segnato i passaggi cruciali della confusa memoria, Maccarone a parte, il suo rivale in amore. È il miracolo dell’immaginazione, in realtà l’unico miracolo del romanzo; qui non c’è religione, liturgie carnascialesche a parte, benché Liborio vada in chiesa e talvolta preghi, non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista. (Caproni)
Il libro abbonda di riferimenti letterari, benché il mélange linguistico faccia pensare al dialetto abruzzese italianizzato dell’illetterato. Si vede che Rapino è un lettore di Giorgio Caproni. Attraverso Liborio non solo gli rende esplicito omaggio, ma ne riecheggia la religiosità a-teologica, disperatamente laica. I versi citati appartengono alla lirica “Lamento (o boria) del preticello deriso”, nella quale l’inesistenza di “Dio” fa eco alla sua rima di un “io” parimenti inesistente.
Per altro verso e in contesto differente, lo sguardo di Liborio alla prostituzione è già tutto dentro la lirica di Caproni:
Eppure, fu in quel portuale
caos, ch’io mi potei salvare.
Che dirvi, se la vera autrice
della mia conversione
(ma sì: non ho altra ragione
da addurre) fu una meretrice?
A condurre Bonfiglio al postribolo è il suo commilitone, Venturi Ermes, un personaggio su cui mi piacerebbe indugiare ed aprire un capitolo lungo come un trattato. Lasciamo perdere. Questo Venturi Ermes gli fa conoscere i piaceri della carne, a pagamento e in uno degli ultimi bordelli prima che la legge Merlino li chiudesse. Poi Liborio, quando racimolerà un po’ di denaro, ci andrà da solo a puttane, quelle dei viali, e sarà per lui terapeutico, come per tutti noi, per cambiare il sangue e alleggerire la testa dai pensieri e dai rumori oppure cancellare per un poco la fila degli sfortunamenti. Sarà una vecchia baldracca, sorda e malconcia, a tenergli compagnia nel tratto finale del suo impervio cammino. Alle sue solitarie e sbrigative esequie presenzierà, unico partecipante, come un vedovo sconsolato.
Per chi non ha nulla, ma proprio nulla, può anche essere consolante la pietà di una puttana che gli schiocca un bacio a distanza, sulla punta delle dita, ma quello non si pagava.
Lo so, la letteratura sociale abbonda di personaggi del genere. Sono presenti nel cinema come nel teatro. Liborio da bambino mi ha fatto più volte pensare ai tanti bambini della letteratura ottocentesca, a Dickens per esempio. Le umiliazioni e le sconfitte del Liborio giovane, un po’ socialista di Nenni, un po’ comunista di Togliatti, mi evocano Zola, Verga. Penso ai tanti piccoli artigiani, operai, contadini, pastori di Bernari, Pratolini, Alvaro, senza considerare che anche la letteratura anglo-americana non si risparmia nel tratteggiare con efficacia la condizione degli umili e diseredati. Ma il romanzo che ho percepito più prossimo a questo di Rapino è senza dubbio “La malora” di Beppe Fenoglio, certamente per l’invenzione linguistica che gli è affine, ma anche per scagionarlo dalla tentazione di ascriverlo a un meridionalismo di maniera. Qui il Meridione non c’entra, come è da escludere il vittimismo di cui la letteratura meridionalista gode fama. C’entra la marginalità sociale, la “nullità” della maggior parte dell’umanità, a dispetto delle dichiarazioni di intenti di ideologi, politici e capi religiosi. Le belle parole e le pie intenzioni giustificano l’esistente, non ne prospettano il superamento. Non è avvenuto in passato, non avviene oggi. Solo che oggi, in questo nuovo millennio colmo di belle tecnologie, noi dimentichiamo che i quattro quinti dell’umanità è esclusa dalla Storia e che i Bonfiglio Liborio sono tutta l’umanità negata. Ci piace celebrare inesistenti supereroi, civiltà aliene, poliziotti fascinosi che mettono in prigione i cattivi e sbrogliano improbabili matasse. Per non guardare in faccia la realtà, per non assumerci le nostre responsabilità di patenti schiavisti. Siamo onesti: nessuno di noi rinuncerebbe ai suoi privilegi per realizzare un mondo più equo. Siamo una specie maledetta. Solo l’estinzione, che certo avverrà in un lontano futuro, potrà cancellare le nostre colpe.
A fine lettura ho trattenuto la lacrimuccia che stava lì lì per scapparmi. Non voglio assolvermi. Così come non assolvo gli stremisti di un tempo che pretendevano di parlare alle vaste masse. Liborio si reca all’Università di Bologna ad ascoltarli; non ci capisce un tubo. Nessuno capiva un tubo delle loro dotte analisi, per quanto pretendessero di interpretare bisogni e aspirazioni altrui. Non capivano che Liborio aveva gusti più raffinati. Gli piaceva “Miracolo a Milano” di De Sica. Il neonato all’inizio del film dovrebbe avere oggi l’età di Remo Rapino. Magari era lui, chi può dirlo. È nato sotto un cavolo, come nelle favole. Oppure lo scrittore abruzzese ha voluto rendere omaggio a uno dei più celebrati e discussi film neorealisti. Sarebbe plausibile. Totò il buono di Cesare Zavattini potrebbe ben essere stata la fonte letteraria di questo “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”.
©Timothy Megaride 2020
[1] Remo Rapino, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, minimum fax 2019
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