Nei giorni di libeccio in via
Lumumba passeggio, spettatore
intatto dal vento, rasente al muro
a secco che sorregge un vallo
compatto di case rosa e giallo
impallidito, finestrelle occhiute
e sghembe, intonaco graffito
di muffe e di varici esplose
a fior di vernice. Percorro un terrapieno
d’aria lucida e calma, balcone
sul pianoro che sfuma nella rada.
L’ombra mia mi segue in piatta
quiete, sagoma netta che avanzando
appena si frastaglia in cima, fra ciuffi
d’erba e il guardrail al ciglio della strada.
In alto il vento è un fiume in piena,
sfarina nuvole, involve nel suo lagno
felino lame nere di rondini, cartoni
e foglie, tortura fronde sulle nuche
degli alberi come trecce d’alghe
l’ira della corrente. Dalle grondaie
tracima scivolando oltre la nicchia
di cristallo qui, che mi consacra, saldo
sul piedistallo di un portone. Vaso
colmo dell’hybris d’una effimera
grazia osservo nel vortice disfatto
le ceneri indignate di un mondo
da me altro stridule lontanare
precipitando
nell’ombelico del mare.
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