Baudelaire, la sconcertante attualità di Les fleurs du mal, di Annalisa Scialpi
Charles Pierre Baudelaire nasce nel 1821 a Parigi e vive in un periodo storico denso di illusioni e di contrasti, fin troppo permeato dagli ideali illuministici che hanno spazzato via ‘il vecchio’. Anche se questo torna alla ribalta, pretendendo gli antichi privilegi delle vecchie monarchie. Problematica è anche la sua vita: a sei anni perde il padre e i rapporti col patrigno, il tenente colonnello Jacques Aupick, sono segnati da contrasti e ostilità. Dopo una tentennante carriera al liceo Saint Louis, dove conseguì, nonostante tutto, la maturità, si diede ad una vita bohémien, dedicandosi alla letteratura, ma anche frequentando prostitute e accumulando debiti nel gioco. Frequentò circoli letterari, conoscendo celebri personalità nel panorama artistico e letterario, dove peraltro si sperimentavano gli effetti di uso di sostanze stupefacenti sull’ispirazione poetica. Collabora con saggi, critiche e poesie su alcune riviste. Nel ’48, inoltre, partecipa ai moti rivoluzionari parigini. Les Fleurs du mal fu la sua grande opera. La pubblicazione dell’opera gli costò un processo, per il quale dovette pagare una multa di 300 franchi e eliminare sei poesie dalla raccolta, con l’accusa di oscenità. Morirà a 46 anni, per ictus ed emorragia cerebrale, con un corpo ormai sfinito da una decadenza trascinata da anni, anche in seguito all’uso di droghe. Si spegnerà tra le braccia di quella madre, il cui rapporto contrastato e pieno di conflitti, troverà la pace nell’ultimo abbraccio.
Ma chi è Baudelaire? E’ l’esteta, il cacciatore di emozioni sublimi, che il poeta cerca di salvare dalla corruzione del sistema, operata dal potere politico. Siamo ‘sull’orlo del precipizio delle certezze’ che troverà l’apoteosi con l’esistenzialismo di Sartre, avvallato da Heiddeger. Nel mondo dove l’essere è sospeso sul nulla, il tentativo di cercare una metafisica basata sull’estetica e sganciata da ideali religiosi, intrapresa da Baudelaire, si innesterà nella nascita della psicologia analitica di Jung. Per questa disciplina il simbolo di Baudelaire diverrà l’archetipo, cioè il ponte tra visibile e invisibile, conscio e inconscio.
La critica di Baudelaire alla società borghese è feroce: essa è l’origine stessa della decadenza, dell’abbrutimento e del tentativo di soffocare la giovinezza e vitalità del mondo in un pragmatismo sterile.
Leggendo Baudelaire viene da pensare all’ideale di ‘bellezza’ dominante ai nostri giorni. Si tratta, ancora oggi e sicuramente anche in toni più marcati rispetto all’’800, di una bellezza che non proviene ‘dagli dei’, cioè dalle grandi idee della natura, rappresentate dal mito, ma una bellezza artificiale, costruita su modelli preimpostati, funzionali alla società del potere e del consumo.
Ci si accorge, leggendo le poesie di Baudelaire, che il respiro è bloccato. Le ali recise imbrattano e insteriliscono il mondo. L’uomo medio o medio-cre è lontano dall’estasi e si aggira in un mondo oscuro, caratterizzato dalla tenebra dell’ideale. Lontano da esso è lo spirito o la trascendenza ‘singhiozzo ardente che sorre di evo in evo’. Corpi flaccidi, segno della più grave ‘flaccidità’ dello spirito si muovono sulla scena, scorrendo nel vuoto carnevale della modernità.
La poesia di Baudelaire è, inoltre, autobiografica. Il poeta, nella sua malattia (le mal) che è lacerazione dello spirito, diventa però ‘fiore’ di consapevolezza, ancorato all’esistenza. Quell’ancoraggio che è lontano dal borghese addomesticato e omologato, privo di spessore e di individualità e appeso al cappio del dio dell’utile. Quello stesso dio che è tappa verso il fango del nichilismo. Il ‘male’ del poeta diviene così fermento poetico e profetico. Rifugio ma anche riscatto. C’è la fierezza dell’albatro, nel poeta, che gode le primizie dello spirito da uno stato di estasi. Il poeta viene rappresentato come il don Giovanni fiero, perennemente innamorato, ma troppo distratto per concedersi all’amore. Un uomo confuso dal piacere, senza che esso possa trovare appiglio nella sostanza stessa dell’amore. Eppure fiero. Dannato e fiero.
Nel triste spettacolo dell’esistenza la bellezza, simile a un gigante di pietra con le sue forme eterne e mute, continua a chiamare il poeta. Ed è la purezza, la ‘clarté éternelle’ che permette al poeta di discernere quel richiamo.
La Bellezza a cui tende il poeta è ambivalente. Angelo o sirena ammaliante, la donna è vagheggiata quale archetipo per eccellenza della bellezza. Sognata, idealizzata, ma anche respinta. Come se il poeta null’altro desiderasse se non la fusione erotica, temendola nello stesso tempo. La ‘gigantessa’ all’ombra dei cui seni il poeta desidera riposare può, in ogni momento, rivelare la sua natura maligna e fagogitante. Angelo o mostro, la figura femminile oscilla su questa ambivalenza che è, in estrema sintesi, l’ambivalenza della bellezza stessa, chiara o oscura, dolce e feroce. Ma il contrasto non impedisce al poeta di innalzare la donna a idolo, di cui egli stesso riconosce tutto il mistero e la struggente bellezza. Donna idolo, donna medium; in lei la bellezza si incarna, morde, trasporta il poeta verso l’estasi, l’ideale che non ha né bene né male, ma narra e incarna il desiderio di infinito e di totalità. Fiore di quel male, che è l’aspirazione stessa all’eternità.
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