La sua morte è stata lo spartiacque fra il periodo della vita in cui si pensa che tutto comunque finisca bene, e quello nel quale invece le certezze vengono meno.
Avevo visto due volte un comizio di Berlinguer a Livorno, la prima in piazza della Repubblica in una calda serata di luglio del 1975 con i segretari comunisti spagnolo e francese, dove si apriva la stagione dell'Eurocomunismo, poi pochi anni dopo, nel 1979, in una mattina al nuovo Palasport di via Allende, altro nome evocativo di quegli anni agitati.
La fine di tutte le illusioni in una nottata a Padova, il trasferimento sull'aereo di Pertini e poi tante persone come non si erano mai viste a Roma: i funerali che fermarono un pomeriggio italiano.
La mattina in biblioteca la scritta era chiara: “Oggi pomeriggio la biblioteca riaprirà dopo i funerali di Enrico Berlinguer.”
Perché “l'ondata emotiva” fu enorme. Fu fatto un film di quei funerali da parte dei più grandi registi italiani, ognuno con la propria troupe, che girarono per le vie di Roma. Ognuno di loro col suo stile narrativo, ed “è impossibile non accorgersi che dietro certi piani-sequenza di bandiere rosse si nasconde la mano dell'autore di 'Novecento', e che certe brevi testimonianze di persone comuni, tenere e spontanee, passano attraverso il filtro affettuosamente ironico del regista de 'La famiglia'”.
“Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara”.
E' stato il gran finale di un'epoca. Di li a poco ci sarebbero stati crolli e fin troppi ripensamenti buttando via il bambino con l'acqua sporca.
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