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La febbre di Jonathan Bazzi

Argomento: Letteratura

di Timothy Megaride
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Pubblicato il 24/11/2020 12:51:05

Sono nato a Rozzano ma non so menare, leggo, scrivo, balbetto, mi piacciono i maschi. Ecco alcuni dei tratti distintivi di Jonathan, il protagonista e io narrante di Febbre[1]. Se ne possono aggiungere altri, tutti desumibili dal racconto: a Jonathan non piace il calcio, ama giocare con le bambole, ha ascendenze meridionali in entrambi i rami della sua famiglia. Si può proseguire, ma mi fermo qui; in caso contrario dovrei scrivere un trattato, un genere che di questi tempi ha scarsa o nessuna popolarità.

Isolando ciascuno di questi tratti ottengo altrettante categorie mentali, tutte precostituite in qualche misura, tutte ascrivibili a qualcosa che somiglia all’imprinting. Si potrebbe fare un test: io scrivo Rozzano e voi mi dite cosa vi evoca. Potrebbe venir fuori una cosa del genere: Rozzano, Rozzano… una tipica banlieue italiana popolata da immigrati, ultras, manovalanza mafiosa, spacciatori di droga, puttane, lenoni, casalinghe teledipendenti e via discorrendo; nella babele delle parlate regionali e della sottocultura neomelodica o pseudo-rapping rinvieni il quoziente intellettivo medio della comunità nella stentata licenza media (scuola dell’obbligo) conseguita per esasperazione, in tal caso degli insegnanti che non vedevano l’ora di togliersi dai coglioni un branco da fare invidia al Signore delle mosche, salvo poi imbattersi nel branco successivo probabilmente peggiore di quello appena licenziato.

Buccinasco, Corsico, Assago, Rozzano: posti da cui vengono un sacco di rapper, posti da cronaca nera. Le sparatorie, la rissa col morto, le baby gang, le infiltrazioni mafiose.

In un contesto del genere i tratti leggo/scrivo/balbetto/mi piacciono i maschi identificano una tipologia umana che il sistema immunitario della comunità identifica come virus da combattere, una pericolosa minaccia alla salute del corpo sociale. Direi che il povero Jonathan sta alla comunità di origine come il virus dell’HIV sta all’organismo umano. Lo si argina, lo si imprigiona, ma non lo si elimina del tutto, almeno per ora. Fatevene una ragione: dovete convivere con la sieropositività e con Jonathan che la rappresenta di diritto. Le leggi, quelle di quest’ente un po’ bizzarro che si chiama Stato, un organismo che, per sua prerogativa, qualche mezzo per contrastare le vostre istanze ce l’ha, vi impediscono di mettere alla gogna un povero scemo; gli antiretrovirali, intanto, fanno abbastanza bene il loro lavoro e arginano in maniera accettabile la minaccia dell’AIDS.

Il resto lo deve fare Jonathan da solo, completamente da solo. È nato in un deserto, mica è colpa sua? Non ha una mappa, non ha il GPS, non ha un compagno di viaggio né una guida a pagamento. Che deve fare per sopravvivere? Procede empiricamente, per tentativi ed errori, con legittime esitazioni e ripensamenti. Prova a orientarsi con gli astri, qualche volta ci riesce, qualche volta si arrende, ancora poco colto e poco smaliziato per riconoscere la solidità e l’attendibilità dei punti di riferimento che arbitrariamente si è dato. Si ritrova in una selva oscura ché la diritta via era smarrita, preda di lupe fameliche, leoni e lonze. I segni dello smarrimento sono tutti nell’enuresi notturna, nella balbuzie, nella prolungata suzione del biberon. Un bravo strizzacervelli capirebbe di che si tratta, potrebbe anche tentare di porvi rimedio, ma probabilmente nelle banlieue non sanno neppure che esistono gli strizzacervelli. Virgilio va in soccorso ai poeti, mica agli sfigati di Rozzano!

Ci sarebbe la famiglia alla quale fare appello, la sbandierata e celebrata famiglia costituita da due ragazzini incoscienti che il caso e la necessità hanno voluto matrici più che genitori: sospetto che non bastino due gameti combinati dal caso a determinare la dignità genitoriale. Tutt’al più ti trovi dinanzi a padri e madri che non hanno avuto / per voi mai una parola d’amore, / se non d’un amore sordidamente muto / da bestia, e in esso v’hanno cresciuto, / impotenti ai reali richiami del cuore (Pasolini, La ballata delle madri). 

Mi dispiace, c’è poco da fare, Jonathan è un corpo estraneo, intruso, esattamente come il temuto virus dell’HIV. Alcuni reietti come lui si suicidano ancor prima di raggiungere l’età della ragione. Altri tentano la fuga, ove possibile, salvo poi accorgersi di passare dalla padella alla brace. Per i dannati della terra no hay patria no hay matria (Lydia Cacho) che li protegga. È inutile assumere altre identità, altri tratti distintivi (tutte le identità che ho provato ad assumere prima o poi hanno ceduto). Sono mere definizioni, astrazioni, prefigurazioni, pregiudizi. Non resta che essere se stessi, con tutti i rischi e le conseguenze del caso. L’esilio è privilegio e rifugio degli spiriti eletti. Lo spazio dell’esilio diventa quello della protezione. Va a finire che produce poemi che trasmettono alla posterità la potenza dei cambiamenti epocali. L’ho pensato, confesso che l’ho pensato leggendo Bazzi. 

Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio prima saetta. […] E quel che più ti graverà le spalle, / sarà la compagnia malvagia e scempia / con la qual tu cadrai in questa valle, […] Di sua bestialitate il suo processo / farà la prova; sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso (Dante, Commedia, Paradiso XVII). 

Così Jonathan migra nei templi del sapere della Milano bene; passa per un idiota per l’ingorgo della parola che gli muore in gola; è fatto oggetto di sberleffi e derisioni. Gli insegnanti medesimi sono bestie addomesticate. La routine uccide i loro entusiasmi, ammesso che ne abbiano e non siano finiti in cattedra per ripiego. Quando non parli, sono i primi a pensare che tu sia scemo. Al branco dei millennials insegnano soprattutto la ferocia del privilegio. Allevano fighetti strafottenti: ti conosco mascherina! 

Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti, / et gli occhi porto per fuggire intenti / ove vestigio human l’arena stampi (Petrarca, Canzoniere XXXV). 

Non è un male questa seconda fuga. Jonathan se ne sta in disparte, ma intanto impara a conoscere se stesso, benché i sentieri che percorre siano tutt’altro che agevoli. L’adolescenza è un vero calvario per gente come lui. Nelle more scopre un nuovo ghetto nel quale rifugiarsi, ancora più squallido, forse più deprimente. Finisce nelle maglie della rete che tutto fagocita e stritola. Una cosa la impara di sicuro: lui non è l’unico al mondo. Dietro l’anonimato di nickname e profili più o meno fasulli si nasconde una marea di froci world wide web. Sembrerebbe non essere più solo, ma è l’inganno dei sensi che bramano compiacimento. Adolescenza: il timore in mano agli ormoni. Sesso senza poesia, scopate selvagge nei luoghi più impoetici che si possa immaginare. Dei suoi partner occasionali sa poco o nulla e lui è solo un qualsiasi oggetto di trastullo per loro. Meno di zero, ai limiti dell’invisibilità. Le poche pagine dedicate alle avventure-disavventure sessuali sembrano uscite dalla penna di Jean Genet, uno dei miti più celebrati del ghetto omosessuale, quasi a dimostrare che lo stereotipo del gay effeminato è appunto un cliché legato alle culture locali, molto coltivato in Italia, Spagna, America latina, India e Thailandia, cioè nei paesi caldi. Nei paesi freddi del mondo pare vincente il modello di una virilità esasperata ai limiti del ridicolo. Tom of Finland è un mito ancora oggi; molti scimmiottano nei costumi e nelle pose i suoi giovanottoni iperdotati. Non c’è gay pride famoso in cui non ne compaiano i figuranti. Un recente biopic di Dome Karukoski ricostruisce la vicenda umana e la personalità dell’artista finlandese. A giudicare dai comportamenti e dalle pratiche esperite, i primi partner di Jonathan ben potrebbero apparire nelle illustrazioni di Touko Laaksonen, magari senza esserne completamente consapevoli. Manipolano un fiore in boccio senza neppure rendersi conto del profumo che emana. Solo uno, che io ricordi, pare essere consapevole della distanza d’età che separa il fiore dal tronco scabro della piena maturità. Si astiene dallo sfiorarlo. Gli altri adombrano l’abuso sessuale ai limiti della pedofilia. Non si può neppure fargliene una colpa; Jonathan non si sottrae al rito, vi partecipa deliberatamente.

Approda al liceo artistico, in ritardo di due anni, forse per lui l’habitat più congeniale. I ragazzi dell’artistico sono più estroversi, qualche insegnante pare più estroso e Jonathan è un creativo. Fa la scelta giusta. È a scuola che maturano le amicizie più solide, è nel suo ambito che i ragazzi più sensibili possono imbattersi nel conforto della solidarietà e dell’approvazione. Lo so con certezza: nello schifo totale della scuola puoi anche trovare la mente illuminata in grado di capirti, di accettarti e di farti accettare. Il lavoro è tutto sul fronte dell’autostima. Secondo me un insegnante dovrebbe fare solo questo: lavorare sull’autostima dei suoi allievi. Una personalità in formazione ha innanzitutto bisogno di conferme. Il successo scolastico alimenta la fiducia. Marcare, marcare ogni singolo successo. Andiamo, che vi costa dire bravo a un vostro studente alla prima occasione possibile? Certo non dovete prenderlo per i fondelli, se ne accorgerebbe. Deve avere effettivamente qualche merito, per minimo che sia. Bisogna dirgli: bravo! 

Il successo scolastico fortifica Jonathan, lo rende più espansivo, più saldo sulle sue gambe. Comincia a coltivare amicizie più solide, più vere, per nulla virtuali, fatte di calore umano e capacità di ascolto, di pacche sulle spalle e incoraggiamenti. Non gli evitano gli smagamenti per il ragazzo sbagliato, ma si tratta di un quasi coetaneo ed è già qualcosa. Quanto all’oggetto del vagheggiamento, direi che non merita tanto struggimento, ma Jonathan non può saperlo. Forse oggi lo sa, anche se non potrei giurarlo. Nella trappola si può cadere a qualsiasi età perché risponde alle istanze degli ormoni più che alle nostre superiori capacità critiche. Se ne avessimo all’atto della passione incontrollata, ci accorgeremmo che l’oggetto del nostro innamoramento è non solo una creatura comune, ma è spesso mediocre oltre ogni ragionevole dubbio. Lo apprendiamo col senno di poi, non durante la fase dell’affanno. Spogliato dell’aura graziosa di cui lo abbiamo circonfuso, resta la sua nuda e cruda fragilità umana, mediocrità inclusa.

A scatenare l’ultimo casino è una febbricola persistente, la medesima che dà il titolo al romanzo. Sul piano strettamente formale genera la struttura dell’opera. Ad ogni fase del percorso diagnostico-terapeutico corrisponde un frammento di memoria, così che tutta la vicenda oscilla tra presente e passato. I capitoli dedicati a cronaca e memoria si alternano. Il sintomo ha funzione analoga alle madeleine di Proust. Non suoni azzardato il paragone, i tempi sono cambiati, anche le banlieue allevano scrittori. Così l’azzardo valica i limiti del bon ton letterario: vedo in Jonathan qualcosa tra il Picaro del terzo millennio e l’eroe romantico, tra maledettismo e Beat generation, con la differenza che il nostro Kerouac in sedicesimo bazzica spazi più angusti ed ha solo le gambe come mezzo di locomozione. 

Non so neanche andare in bicicletta senza rotelle: nessuno me l’ha insegnato, né papà, né mamma. Li vedo troppo poco, non ci hanno pensato. Imparerò a dodici anni, ma mai davvero. Basterà un niente per buttarmi a terra: un piccolo gradino, un dislivello, un’altra bicicletta che mi passa vicino e mi fa venire l’ansia, le rotaie del tram. Mai bicicletta, mai macchina, mai motorino. Non ci sono soldi, la patente la fai quando sarai più grande. Andrò sempre e solo a piedi

Guardate i passi malfermi e incerti di Jonathan nella prosa scabra con cui Bazzi ce li racconta. Periodi brevi, paragrafi difformi per lunghezza e sequenzialità, spesso ridotti al nocciolo di una sola parola, dietro la quale non è solo la pausa dettata dalla fatica, ma anche l’intensità della riflessione. Frequente il ricorso all’ellissi. Il presente narrativo, nel rendere astante la scarpinata, la rappresenta affannosa. Are you ready, boots? Start walkin'. These boots are made for walking (Lee Hazlewood).                                    

Il regista di un possibile road movie dovrebbe avere come modello Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede) di Schlesinger ed inquadrare le gambe di Jonatham che da sole esprimono il tortuoso percorso della sua formazione.

Intendo dire che Bazzi, a dispetto della volgarità presente, si inserisce in un’illustre tradizione on the road che ci dice di uomini che hanno tentato di abbattere le mura di un ghetto, qualunque esso sia, patria compresa. I ghetti nascono da un tratto specifico (il colore della pelle, l’etnia, il comportamento sessuale, l’identità di genere) e da quello fanno derivare suggestivi corollari che non stanno né in cielo né in terra e che suonano come istigazione a delinquere: i neri puzzano (ne ho conosciuti di profumatissimi), ebrei zingari e slavi sono untermensch mostruosi (ne ho contemplati di talmente belli da darmi sgomento), i froci sono deviati o depravati o malati (ne ho incontrati di moralmente rettissimi, graziosissimi, sani, colti e intelligentissimi). Persino le donne un tempo erano considerate inferiori, tali da interdire loro istruzione e professioni. Molte culture ancora le ancorano a un unico tratto (femmina d’uomo) per arginare la forza che promana dalla loro intraprendenza, intelligenza e capacità decisionale, una roba che i maschi se la possono ficcane nel culo la loro ridicola appendice: cazzoni sono e cazzoni rimangono! I ghetti sono il terreno più fertile per alimentare il pregiudizio. Possono apparire protettivi, in realtà al loro interno ci si sbrana, che siano moderne periferie urbane o natii borghi selvaggi: … Né mi diceva il cor che l’età verde / sarei dannato a consumare in questo / natio borgo selvaggio, intra una gente / zotica, vil … . (Giacomo Leopardi, I canti XXII, Le ricordanze). Bazzi chiosa: Rozzano mi odia. Rozzano l’ho odiata.

Potrei proseguire all’infinito, indicandovi nomi luoghi e circostanze, parallelismi e dissonanze, ma mi fermo perché, come diceva Manzoni, non si può scrivere un libro per giustificarne un altro. Voglio aggiungere questo: c’è solo una cosa che è davvero contro natura ed è il pregiudizio, la vera e unica malattia mai debellata. I veri virus sono più equanimi, più democratici, non tengono conto di confini, muri, condizioni economiche e sociali; il pregiudizio separa, classifica, seleziona secondo criteri del tutto arbitrari e discriminatori. Sapete cosa diceva Sartre degli Ebrei? Affermava che ebrei erano quelli che gli altri chiamano ebrei. Una parola (una successione di fonemi, una breve teoria di grafemi) non dice nulla dell’umanità che il lemma designa. La nuda parola vino fa inorridire i sommelier. Occorrono ben altri tratti, ben altra competenza, ben altro gusto per designare la qualità di un vino. Noi esseri umani siamo ben più preziosi e speciali di un pregiatissimo vino: siamo unici e irripetibili. Per quanti tratti possano attribuirci, mai cancelleranno la nostra unicità. Dovremmo essere preziosi gli uni per gli altri, invece perdiamo del tempo prezioso per sbranarci a vicenda. 

È per questo che apprezzo Bazzi. Appartiene alla genia dei transfughi, dei trasgressori, dei disubbidienti e non sparge neppure una goccia del nostro sangue. Sapete chi furono i suoi antesignani, almeno secondo una diffusa e ben nota mitologia? Si chiamavano Adamo ed Eva. Già, Adamo! È davvero singolare che la prima creatura umana fosse un transessuale o intersessuale, almeno prima che una mutazione estraesse Eva dal suo corpo, lasciandogliene però la memoria genetica, come peraltro Eva non dimenticherà mai di essere stata in un altro corpo. Ecco perché i due furono alleati quando sfidarono il Boss dei boss, ciascuno recava nei geni la traccia dell’altro: l’intesa fu pressoché perfetta. Quel burlone di Satana suggerì loro: Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato, - ora la sete / mi sarà più lieve, meno acre la ruggine… (Eugenio Montale, Ossi di seppia, In Limine). 

Ogni rete ha una maglia allentata, la via di fuga che dà impulso al lungo e tortuoso cammino della Storia. Ne è valsa la pena, non ho dubbi. Decenni orsono un giovane epigono degli antichi transfughi, un militante per i diritti civili[2], denunciò il Führer eccelso per i genocidi di Sodoma e Gomorra. Penso che avesse più o meno l’età di Bazzi. A tutt’oggi ancora non c’è stata una Norimberga per l’antica mattanza. Tuttavia, quel libro fondamentale nella lotta per i diritti civili suppongo sia finito nelle mani di Mario Mieli, allora ventiduenne, e in seguito in quelle parimenti dissacranti di Pier Vittorio Tondelli. Fu assai utile per i ragazzi italiani dell’epoca. Jonathan Bazzi viaggia sulla stessa corriera.

 

 

© Timothy Megaride 2019                

 

 

 

 

 

 



[1] Jonathan Bazzi, Febbre, Fandango libri 2019

[2] Dennis Altman, Omosessuale oppressione e liberazione, Arcana editrice 1974. Bella l’introduzione di Fernanda Pivano. E di chi sennò?  


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