Pubblicato il 12/02/2010 12:00:00
Titolo intrigante, curioso, anche trasgressivo, questo che annuncia il romanzo di Dante Maffia, ma si sa che l’autore è un poeta e i suoi titoli sono sempre stati originali e sorprendenti. E’ una negazione dunque, che dà l’incipit al libro e lo caratterizza in qualche modo, conferendogli l’imprinting per un’attestazione di inesistenza di una città come Milano che invece non potrebbe avere un’esistenza più prepotente di quella che ha realmente. Dalla prima pagina si snoda, o meglio si sciorina, un lungo ininterrotto monologo, affannoso, ossessivo quasi, del protagonista che riattraversa tutta la sua vita, di operaio calabrese, trapiantato nel capoluogo lombardo, con un’unica prospettiva e un unico scopo, quello di ritornare al mare della sua Calabria e cancellare per sempre il ricordo degli anni trascorsi lontano dal suo vero mondo. Lo scrittore si è immedesimato interamente in questo suo personaggio un po’ rozzo, ostinato, lavoratore e attaccato saldamente agli affetti e alle memorie, compiendo un’operazione linguistica assai interessante, perché ha abbassato volutamente il registro linguistico e il livello della scrittura, per avvicinarsi ancor più all’uomo del sud amareggiato e stanco, tradito dai suoi stessi familiari, nel sogno impossibile di ritornare al suo paese. Man mano che il protagonista ripercorre mentalmente l’itinerario della sua esistenza, si dipana la storia esemplare di un emigrante, capitato al nord per trovare lavoro, che pur avendo messo su famiglia, sposando tra l’altro non una sua conterranea, ma una milanese, non si è mai integrato né nell’ambiente della sua fabbrica, né in quello cittadino, chiudendosi a qualsiasi tentativo di comprendere la città e gli abitanti, sentendosi e credendosi sempre rifiutato da quella realtà che assolutamente egli considera ostile e desiderando soltanto di ritornare un giorno al paese di provenienza. Lavora molto e si affatica per accumulare il denaro necessario per costruire una bella casa in Calabria presso il mare, dove sogna di potersi trasferire con l’intera famiglia. Ma la moglie e i figli, non condividendo il suo progetto, con un gioco perverso e sottile di finzioni, lo illudono fino all’ultimo, senza mai accettare il paventato trasferimento. Così il calabrese parte da solo e raggiunge la terra amata, il suo paradiso, dove ritrova le origini, gli odori e i sapori dell’infanzia, che vorrebbe condividere con i suoi cari; perciò li aspetta, ogni giorno, convinto che essi arriveranno prima o poi, ma invano , perché essi non verranno mai in quel paese. La lunga e angosciante attesa della famiglia si traduce così in una snervante e reale attesa del treno Milano – Crotone, che ogni giorno arriva in ritardo e gli reca una nuova delusione, poiché da esso egli non vede scendere coloro che sta aspettando. E’ amaro questo bilancio della vita di un emigrante, specie oggi in cui erroneamente si pensa che i soli emigranti siano gli extracomunitari, mentre i nostri uomini del sud non hanno ancora superato l’impatto con la realtà dell’Italia settentrionale e di Milano in particolare. Milano è la grande metafora di una società estranea e ostile all’integrazione, non perché lo sia veramente, ma perché è l’uomo del sud che così la percepisce, l’uomo del sud perfettamente incarnato nel protagonista di questo romanzo. Il suo continuo farneticare intorno al mancato arrivo della famiglia e le sue ipotesi aggrovigliate e infondate circa i motivi di quell’ opposizione, sono scanditi con un ritmo implacabile da un linguaggio spezzettato e franto, isterico quasi, che se da una parte conferma l’ostinata volontà del calabrese di compiere una svolta nella vita decisamente opposta alla scelta forzata fatta nella giovinezza per necessità, di trasferirsi a Milano, d’altra parte, stigmatizza il suo rifiuto definitivo di tutto ciò che Milano ha rappresentato per lui e che gli ha dato, compresa la moglie milanese e i figli. Cancellare una parte della vita, densa di sofferenze, amarezze e umiliazioni subite, diviene dunque per l’uomo un obiettivo prioritario che si risolve non soltanto con l’abbandono della città detestata e col ritorno al mare della Calabria, ma soprattutto con la negazione dell’esistenza stessa di Milano. Quel treno Milano – Crotone, che per anni ha desiderato prendere e che, tornato al paese, aspetta con ansia che gli riporti la sua famiglia, è come un’ideale e utopistica via di fuga sempre esistita nella sua mente verso il luogo delle origini, verso un Eden incontaminato in cui ogni cosa gli è familiare e gli appartiene. Alla fine del romanzo, il cerchio si ricompone, ognuno è restituito al proprio mondo e rimane una separazione incolmabile tra il sud e il nord, che nemmeno gli affetti hanno potuto eliminare. Dante Maffia ha saputo penetrare in profondità nell’animo del suo personaggio, ne ha condiviso le pene, se non le ragioni, ne ha compreso le frustrazioni, immaginando una coraggiosa resistenza ad esse, ma si è arreso allo sforzo di sperare che un emigrante meridionale potesse alla fine integrarsi nell’ambiente milanese, fino al punto di preferire Milano al paese natio. Questo è impossibile per Maffia, calabrese egli stesso, che pure opera da tanto tempo lontano dalla sua regione. Egli è un uomo colto, che ha scelto di onorare il proprio paese, esaltandolo attraverso la poesia e la scrittura, mentre il protagonista del romanzo è un operaio sprovvisto di istruzione. Lo scontro tra Milano e l’uomo del sud è uno scontro fra tradizioni differenti e tra culture diverse, così come il conflitto tra il protagonista e i figli non è soltanto un conflitto generazionale, ma un problema di incomunicabilità dovuto a mentalità distanti tra loro, che non potranno mai uniformarsi. Il romanzo pone sul tappeto problematiche attuali e antiche, al centro di un perenne dibattito, allargatosi oggi dagli emigranti meridionali, agli extracomunitari, che invano cercano condivisione, non essendo spesso essi stessi disposti ad accettare gli altri. Le ipotesi che Maffia lascia aperte sono molteplici, dal recupero individuale e solitario delle proprie radici, al sogno continuo e deluso di un ritrovamento degli affetti lasciati, ad una possibile futura comprensione, da parte degli altri, delle ragioni del ritorno, magari quando sarà troppo tardi per incontrarsi. E’ un finale irrisolto in sostanza, quello che chiude il libro, ma proprio per questo avvalora il racconto nella sua drammaticità e gli conferisce una venatura di profonda malinconia che rende le ultime pagine, particolarmente liriche. Il poeta Maffia non si smentisce, riporta anche la narrativa ad una dimensione poetica, trasfigurando i suoi patetici personaggi, in piccoli eroi perdenti che hanno tuttavia la forza di assumersi il coraggio delle proprie azioni, anche a rischio di tradire gli affetti più cari. In effetti al termine della vicenda è il protagonista a tradire i suoi cari per non tradire il suo paese e non piuttosto quelli a tradire lui nel non seguirlo. L’ossessione di riunire la sua famiglia non gli darà tregua, trasformandosi in un incubo che forse lo porta alla pazzia, se non addirittura alla morte. Romanzo di denuncia, dunque, è questo, romanzo sofferto di accusa nei confronti della spietata divisione che da sempre separa il nord dal sud, ma romanzo anche di appassionata confessione d’amore verso la propria terra, bella e incompresa.
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