L’autore qui intervistato è Giaime Maccioni, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione B (Racconto breve) con “Pi-ri-pì!”
Ciao Giaime, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?
Ciao. È difficile presentarsi, perché ho la sensazione che qualunque cosa scriva non riuscirei a fornire altro da un’immagine che probabilmente ha poco a che fare con me. La terra di origine della mia famiglia è in parte la Sardegna, in parte la Toscana. Io sono nato e vissuto nel centro di Roma, quando ancora somigliava un po’ a un piccolo paese circondato di bellezze. Le due dimensioni della grande città e dell’isola coesistono in me. Sono un musicista, scrivo da sempre, odio il traffico, il caos urbano, i ritmi inutilmente veloci, gli schemi generali, l’idea che il giusto modo di vivere sia uno. Credo che non smetterò mai di mettere il gioco al primo posto tra le attività preferite di un giorno qualunque. Ma appunto, magari ci si può figurare un tipo etereo con il naso aquilino e le maniche larghe della camicia, che vaga per le strade sovrappensiero, e non sono io. Io sono quello in bicicletta con i pantaloncini da tennis.
Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?
Ho partecipato più di una volta. La prima per amore di Proust. Voi mi avete inconsapevolmente ricambiato, portando sempre in finale i miei pur non proustiani racconti. Alla prima premiazione c’era un ambiente molto tiepido, affettuoso. Le letture fatte sul palco mi piacevano. Ho scambiato con gli organizzatori delle strette di mano e dei sorrisi che ho riconosciuto solidali. Da allora il concorso è diventato un appuntamento familiare.
Non riesco a pensare i premi letterari come una categoria unica. Non so che ruolo rivestano al momento nel panorama letterario, ma posso pensare al valore che potrebbero avere se rispondessero ad alcune caratteristiche. Essere liberi, senza quota di iscrizione, innanzitutto. Privi di altre richieste dall’invio dell’opera, nessuna biografia o breve curriculum o presentazione, nell’idea che un’opera di qualunque arte, quando viene fruita, non debba portare con sé ornamenti riguardanti la vita dell’autore. L’interesse per queste informazioni, se mai ci deve essere, va a mio avviso separato e posticipato. E mi piacerebbe anche che nelle valutazioni le giurie fossero libere da ogni ragionamento o prospettiva commerciale. Ecco, il luogo dei concorsi potrebbe opporsi a quello del mercato, o quanto meno prescinderne. In questo vedrei una loro utilità.
Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?
Ci sono due fasi della mia vita di lettore. Una più giovanile in cui leggevo solo per il gusto della lettura, e una che è iniziata circa quindici anni fa, quando ho iniziato a scrivere narrativa in maniera più costante e la lettura e diventata anche osservazione, analisi e studio. Più che pensare a chi mi abbia influenzato, preferisco citare alcuni tra quelli che ho amato e amo di più. Non escludo che le due cose possano in parte sovrapporsi.
Nabokov, di cui ho letto e riletto l’Opera intera, e che continuo a leggere e rileggere. Un suo libro è sempre con me. Lucidità scacchistica, perfezione strutturale, potenza immaginifica, una miscela di poesia e di scienza in equilibrio sul ciglio del troppo, senza cadere mai.
Proust, che ritengo l’emblema di una letteratura altissima distante dalle trame a orologeria. La profondità introspettiva del suo sguardo è inarrivabile. Come il suo soffermarsi sui particolari finché le cose non prendono vita propria. Capisco il Marcel protagonista quando dice di amare le lunghe infinite descrizioni del suo autore preferito, e di scoraggiarsi quando l’azione riprende.
L’Ulisse di Joyce lo leggevo con mio padre quando ero molto piccolo. Di tutte le reazioni emotive che procura quel libro straordinario, al tempo la principale era il ridere. Lo continuo a rileggere con lentezza e grandissimo piacere, ammirato di tutto ciò che una sola pagina possa contenere e di tutti i fili con cui si leghi al resto.
Gombrowicz, che ha portato la ricerca sulla forma a vette inimitabili di splendore inventivo.
Salinger, un mistero di perfezione e semplicità, che più di chiunque è riuscito a rendere l’ordinario straordinario.
John Fante, per come riesce a dare alla scrittura i connotati della carne.
Durrenmatt, con la sua esattezza tra lo spietato e il lirico.
Robbe-Grillet e la puntualità del dettaglio che trasforma una trama in una geometria.
Cheever, i racconti di quelle zone residenziali, espressione di un disfacimento dietro una maschera americana.
Kafka, non solo le sue strutture paradossali ma anche molte meravigliose soluzioni letterarie. La frase conclusiva del Processo, per dirne una.
Rilke, poesie, lettere, pensieri. Tra le tante cose, i poemi sui miti di Orfeo e Euridice e di Alcesti. Al loro miglior traduttore, Giaime Pintor, brillante scrittore anch’egli, devo in parte il mio nome.
Robert Coover, un grandissimo autore americano, di cui è stata finalmente pubblicata la traduzione italiana di una corposa raccolta di racconti. Unico, inconfondibile, il suo stile sarà moderno e innovativo anche tra cento anni.
Poi un filone di narratori del centro e sud America, da Borges a Hernandez, a Guimaraes Rosa, e anche certe cose di Garcia Marquez. Una letteratura tutta diversa, piena di libertà visionaria, con un piede nel surreale. Un ponte possibile tra quella e l’Europa è il poema “La fine del Titanic” di Ezensberger, un altro che mi piace molto, scritto a L’Avana, perduto, riscritto trent’anni dopo tra memoria dell’originale e nuova invenzione.
Tra gli italiani senz’altro Italo Calvino, soprattutto quello di Palomar, degli Amori difficili e delle Lezioni americane. Vitaliano Brancati, un’eccellenza stilistica che trasuda immediatamente anche dalla frase più piccola. Guido Ceronetti, il cui punto di vista è sempre un misto di originalità e di peso a fondo del pensiero. E due grandi scrittori che, seppure autori di romanzi, sono più noti come giornalisti sportivi: Gianni Brera e Gianni Clerici. Ogni loro articolo è un piccolo pezzo di letteratura.
Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?
Quello di ogni artista, col proprio linguaggio specifico. Offrire un mondo nuovo con nuove regole, orizzonti sconosciuti, un’altra prospettiva non meno vera della cosiddetta realtà.
Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.
Sembra vanitoso e posticcio, e la cosa un po’ mi imbarazza, ma la verità è che ho imparato a scrivere molto prima del tempo scolastico, intorno ai tre anni, e ho sempre scritto, in varie forme. Ho racconti compiuti che risalgono ai miei sette o otto anni, ma anche diari, riflessioni, invenzioni satiriche, brani comici scritti per gli amici, lettere. Immergermi nella scrittura è un fatto estremamente naturale. La mia piccola storia di scrittore di narrativa, o di qualcuno che vuole fare principalmente questo, inizia circa quindici anni fa. Da allora ho scritto moltissimo, e ho pochissimo tentato di pubblicare, ma questa è storia per un’altra chiacchierata. Alcune cose sono uscite nell’ambito di antologie dedicate ai vincitori e finalisti di altri premi letterari. All’inizio di questa seconda fase della mia vita di scrittura, l’incontro con Annamaria Cesarini Sforza e con sua figlia Benedetta Cascella, scrittrice che al tempo aveva messo su un piccolo laboratorio, è stato molto importante.
Come avviene per te il processo creativo?
Credo che le parole non riescano a raccontare del tutto certi meccanismi. Potremmo dire che ogni tanto una piccola idea si accende come la scintilla di una miccia, innescando un’esplosione. L’osservazione attenta dello scoppio e la descrizione delle sue conseguenze costituiscono una storia.
Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?
Di rileggermi dopo un tempo sufficiente a “dimenticare” il momento della scrittura, e di trovare convincente ciò che rileggo. La struttura, la lingua e lo stile sono gli aspetti che mi interessano. Più dell’argomento avvincente in sé. Credo che un romanzo o un racconto ben strutturati possano parlare di qualunque cosa. Vedi Salinger, ad esempio, che ha scritto dei racconti memorabili su un nulla apparente. Non credo sia vero che le “grandi” storie sono più interessanti, o che una storia debba trasmettere un qualche messaggio. Nel dettaglio, nei meccanismi nascosti del quotidiano, negli universi privati e nella puntualità della narrazione spesso si annidano tesori molto preziosi. E dovrei qui dire: pensiamo a Proust.
Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?
Non riesco a fare dei miei contemporanei un gruppo omogeneo rispetto al quale confrontarsi. Posso provare a individuare dei tratti stilistici comuni a molta produzione recente, e argomenti più battuti di altri. Forse il fatto che lo scrivere sia radicato in me fin da prestissimo mi aiuta a non scivolare nell’uso pedissequo di certe “norme” per la buona riuscita di un testo che sono insegnate nelle varie scuole del settore e talvolta erroneamente trattate come piccoli dogmi, ricette sicure per il successo. Non penso sia sbagliato studiare e sperimentare e cambiare, ma ritengo un errore grave quello di abbandonare la propria voce originale a favore di un modello. Vorrei che fosse questo a distinguermi dagli altri, come scrittore. La mia autenticità, il mio essere profondamente me stesso.
Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?
Ci sono probabilmente degli argomenti e dei temi ricorrenti. L’innamoramento. Le relazioni uomo-donna. Le presunte regole preesistenti, e il coraggio di romperle per restare fedeli a sé stessi e alla vita. Il peso del Caso. La distanza tra i sogni e la loro realizzazione. Il rapporto dell’uomo con i luoghi e con il clima. Tuttavia ogni storia è a sé, e nuovi territori da esplorare emergono naturalmente.
L’evoluzione della mia scrittura riguarda principalmente il controllo e la consapevolezza. Saper individuare in anticipo certi vizi. Saper scegliere tra i toni disponibili quello più adatto. Riuscire a riprodurre le condizioni per scrivere con il giusto abbandono. Non perdere di vista la struttura e la compattezza. Quando ero più giovane mi dilungavo in lunghissime descrizioni, ripetizioni, aggiunte di orpelli senza una direzione, per il gusto puro della frase. Non ho nulla contro le lunghe descrizioni, le ripetizioni, o qualsiasi altro elemento narrativo, purché non sia lì per caso.
Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?
Sì, anche se di rado. E in versi scrivo quasi esclusivamente di questioni personali, cosa che mi capita molto meno in prosa.
Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?
Come ho detto sono nato e cresciuto nel pieno centro di Roma da una famiglia sarda. Anche nelle vacanze invernali non ho mai conosciuto montagne, ma sempre il mare. Direi che nella mia scrittura sono comparsi a più riprese respiri immaginifici propri dell’insularità. Il benessere che mi restituisce immediatamente una dimensione di solitudine, silenzio, immersione nella natura, potrebbe avere a che fare anche con le mie origini, oltre che con il mio modo d’essere. E oltre a ciò un certo umorismo piuttosto folle, divaricato sul surreale, che è proprio di certi sardi sofisticati.
Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?
La realtà è un concetto troppo personale per poterlo rendere oggettivo. Non esiste una realtà. La parete dello stesso edificio, per fare un esempio, è diversa per un passante, per un residente di quel palazzo, per un muratore esperto che ci vedrà il tipo di lavoro fatto, e così via. L’immaginazione non è meno vera. L’artista apre una nuova possibilità, erige una nuova parete, per stare all’esempio precedente. Poco importa che non la si possa toccare fisicamente.
Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?
Per anni la mia lettrice principale è stata la mia vicina di casa Annamaria, che ho citato prima riguardo agli incontri importanti per la mia scrittura. Appena finito un racconto, correvo giù a portarglielo. Ci sono altri amici fidati, e cioè la cui sensibilità, che non è detto sia coincidente alla mia, ritengo tale da far sì che un loro parere sia più prezioso del parere di altri. E scelgo quelli schietti, che non hanno remore a fare critiche dure.
“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?
Proust è sempre lucido e profondo. Non ricordo sue affermazioni che non fossero interessanti e che non aprissero sulle cose un punto di vista originale. Sono abbastanza d’accordo con quanto dice, e soprattutto ritengo sia un modo estremamente efficace e poetico di metterla giù. Si potrebbe ipotizzare che, oltre a ciò che di già presente disvela, una lettura possa aggiungere al sé qualcosa che poi altre letture permetteranno di discernere o di rielaborare. In questa prospettiva, oltre che strumento, l’opera sarebbe anche tesoro da cui attingere.
Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?
Nabokov diceva che l’organo con cui si deve giudicare un’opera è la spina dorsale. Sono d’accordo. Gli autori che ho amato e amo, prima di tutto, mi procurano dei brividi di piacere fisico e intellettuale. Poichè i miei brividi sono legati alla concatenazione delle parole in un periodo, alla vividezza di un’immagine suscitata dalla potenza di un’espressione, al senso di appagamento e di eccitazione che mi danno una soluzione elegante e una struttura intelligente, posso dire che sono immune al fascino dei passaggi di trama che tengono incollati alla pagina, mentre posso incantarmi sulla descrizione di una sedia, se è fatta come si deve. Le sole recensioni che ho scritto, per un noto giornale, non sono state per adesso pubblicate. Ma è un qualcosa che non mi viene molto naturale.
In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?
In generale, le critiche che mi fanno più piacere sono quelle che elogiano ciò che io stesso elogerei se mi leggessi senza sapere di essere l’autore.
C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?
Sì, e per fortuna sempre la stessa, fatta da persone diverse che non si conoscono tra loro. Per un amante della matematica, è stato confortante. Quando sono riuscito non solo a vedere ciò di cui mi parlavano tramite i loro occhi e le loro parole, ma in prima persona rileggendo me stesso, è stato un passaggio importante.
A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?
Al momento una raccolta di racconti è in lettura presso un editore che stimo. E sto completando un lungo romanzo, che è stato il mio lavoro principale negli ultimi tre anni.
Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?
E la lettura, naturalmente. La musica, anche professionalmente perché insegno chitarra. Il cinema. Lo sport, e in particolare il tennis.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?
Sono uno scettico che è rimasto col suo scetticismo senza impegnarsi per approfondirne le cause. Credo ancora nella carta. E credo nella pubblicazione tramite un editore. L’oceano del fai da te mi fa sentire smarrito allo stesso modo in cui mi sento cercando informazioni su internet e trovando tutto e il contrario di tutto. La lettura su supporto elettronico non mi piace molto, ma la sopporto talvolta per questioni pratiche. Il vero vantaggio che rilevo è di poter leggere al buio, senza disturbare chi ti dorme a fianco e ti urla: “spegni!” proprio mentre sei assorto in un passaggio fondamentale. Il discorso della comodità di portarsi dietro migliaia di libri in un oggettino piccolo e leggero mi convince fino a un certo punto. Sono i libri di carta quelli che ho letto e riletto, sgualcito, consumato, e mi sono rimasti dentro, come avveniva con i compact disc per la musica. La troppa disponibilità spesso fa il paio con il poco approfondimento.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?
In generale, le domande che non si pongono sono quelle ritenute confidenziali, e alle quali in molti invece avrebbero una gran voglia di dare risposte. Sotto il dominio del formalismo, spesso si definisce sconveniente tutto ciò che è appena più intimo di ciò che prevede l’etichetta, e ci si perde in chiacchiere irrilevanti. Trovo del tutto lecito che una persona appena conosciuta ponga una domanda personale, se ne ha desiderio. Meglio se ha anche poi la pazienza di ascoltare la risposta.
Stando all’intervista, invece, vorrei dire che le domande fatte da voi sono state stimolanti, e questo mi conferma tutto ciò che di positivo penso del vostro premio. Vi ringrazio, e vi auguro un buon lavoro per le prossime edizioni.
Grazie.