IL CRUDELE DESTINO D’UNA GIOVANE MATEMATICA
Quindici ottobre millenovecentododici, ore sei e venti pomeridiane.
Un treno con il suo carico di persone e di cose corre lungo la tratta Roma Pescara avvolto in una sorta di nebbia a tinte scure, accompagnato dal tipico rumore assordante prodotto dal suo sferragliare. Alcuni viaggiatori scambiano quattro chiacchiere, altri leggono un giornale o un libro, altri ancora rimangono silenziosi, compostamente seduti al proprio posto, lo sguardo quasi assente ma la mente rivolta a quel che la buona sorte vorrà riservare alle proprie aspirazioni o ai propri progetti di vita.
Diverse persone sono dirette ad Avezzano, la cittadina capoluogo della Marsica situata proprio a metà della tratta. Se un visitatore ha scelto il treno come mezzo di trasporto, non riesce a sottrarsi alle bellezze del paesaggio naturale già dal momento in cui, lasciandosi Tagliacozzo alle spalle e procedendo verso Scùrcola e quindi verso il capoluogo marsicano, si ritrova immerso in una vasta distesa pianeggiante con la bella riserva naturale del Monte Salviano alla sua destra e, più in lontananza, sulla sinistra, il maestoso gruppo del Monte Velino.
«Avezzano! Stazione di Avezzano! ».
La comunicazione più volte ripetuta a squarciagola da un inserviente della stazione, sovrapponendosi allo stridio dei freni arrivò ai passeggeri interessati. Le porte del treno si aprirono e alcuni passeggeri scesero a terra. Fra questi, con in tasca la nomina ministeriale per l'insegnamento presso la locale Regia Scuola Normale femminile, la professoressa Maria Gramegna, una giovanissima matematica piemontese allieva di Giuseppe Peano e promettente ricercatrice.
Quasi certamente quei luoghi, l'affabilità e il senso dell'ospitalità del popolo marsicano la colpirono subito e profondamente. Dopo alcuni mesi conobbe Attilio Mastri, un giovane del posto un po' più grande di lei, studente presso la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma, piuttosto in ritardo con gli studi a causa del suo interesse - ma sarebbe più giusto dire una vera e propria passione - nei confronti della campagna e di tutto ciò che questa avrebbe potuto elargire a chi l'avesse amorevolmente coltivata.
Attilio era conosciuto in città come un tipo piuttosto eccentrico. Di bell'aspetto, alto, moro, occhi luminosi e sguardo intenso. Un tratto distintivo come la folta capigliatura apparentemente non curata gli dava l'aspetto di un bohémien o di un filosofo. Aveva conosciuto Maria nell'aprile del millenovecentotredici in modo del tutto casuale davanti a una di quelle bancarelle che nei giorni di festa riempivano la piazza prospiciente la chiesa di San Bartolomeo, proprio durante i festeggiamenti in onore del santo patrono.
Il casuale incontro provocò tuttavia nei due giovani un certo turbamento. Accantonata la sua naturale timidezza, Attilio si recò presso la sede della Scuola Normale chiedendo di lei. Quando lo ricevette, per motivi personali Maria era di pessimo umore.
«Non sono qui per importunarla, mi creda. Avendo saputo delle sue competenze, le vorrei chiedere qualcosa che ha a che fare col mio status di studente di Filosofia ...».
«Ah, dunque è uno studente lavoratore ...» lo interruppe lei, con un tono più accomodante.
«Beh, considerando l'età e le priorità manifestate, direi più un lavoratore … studente!» le confessò lui con un tono tra il serio e il faceto. A questo punto, guardandosi negli occhi, scoppiarono in una fragorosa risata, che in certo qual modo segnò l'inizio della loro storia. Cominciarono a frequentarsi come due vecchi amici, e nello stesso tempo Attilio sentiva crescere dentro di sé un sentimento più profondo, ma non riusciva a trovare il coraggio di esternarlo. Chiuso l'anno scolastico, Maria risalì a Tortona, dove dimorava la sua famiglia.
L'estate di Attilio si rivelò densa di impegni. Si buttò a capofitto sia nei lavori di campagna che nello studio. Le sue giornate erano piene, senza un attimo di respiro. E mai avvertiva stanchezza, le energie gli venivano fornite dal solo pensiero rivolto a Maria: ne era ormai sicuro, provava per lei un amore vero e profondo. La giovane matematica con la sua forte personalità lo aveva colpito nel cuore e nella mente a tal punto da riuscire a limitarne il pensiero e l'azione. E ben sapendo che di fronte a lei non sarebbe mai riuscito a trovare né le parole giuste né soprattutto il coraggio di dichiararsi, si decise a scriverle una lettera.
Gentilissima signorina Maria,
per prima cosa le chiedo scusa per l'ardire di questo mio scritto, ma la prego fin da adesso, qualunque sia la sua reazione e il suo pensiero in merito, di mantenermi la sua stima e la sua amicizia così come con tanta disponibilità me le ha mostrate in passato. È troppo importante per me poter ancora contare su di lei.
Il mio ardire si riferisce ai sentimenti che nutro per lei fin dal primo momento che l'ho vista, e che ho sentito gradualmente crescere in me man mano che venivo a conoscenza delle sue molteplici e nobili qualità. Dal profondo del mio cuore, ormai conquistato dalla sua grazia e dalla sua leggiadria, non mi è stato difficile tradurre questi sentimenti in una parola che tutti li racchiude: amore!
Sì, signorina Maria, io l'amo, con tutto me stesso. E se questo mio sentimento non dovesse trovare riscontro, o peggio ancora la dovesse ferire, la prego fin d'ora, in ginocchio, faccia conto di non aver mai ricevuto questa missiva, e mi tenga ancora e per sempre tra i suoi amici più devoti.
Aspetto con trepidazione il suo ritorno, sempre suo affezionatissimo
Attilio
Scrisse con attenzione l'indirizzo sulla busta, con molta cura vi applicò il francobollo e spedì. Maria rispose quasi subito, dichiarandosi lusingata per le belle parole e i buoni sentimenti espressi.
“Li ho sentiti veri e profondi, sicuramente sinceri -gli confessò nella sua missiva – e degni di una persona brava e ben educata, come lei ha sempre mostrato di essere. E le devo confessare che anche il mio cuore ha cominciato a palpitare fin dal nostro primo incontro”.
Attilio rischiò di non reggere alla forte emozione che la risposta di Maria gli aveva procurato. L'anno scolastico successivo segnò un periodo idilliaco per loro. La giovane cominciò a frequentare casa Mastri dopo aver conosciuto Amelia, la mamma di Attilio, e si decise a fermarsi ad Avezzano anche durante le vacanze estive.
Purtroppo però, come la storia dell'uomo ha insegnato, non solo luci.
Il 13 gennaio 1915, la Marsica, la terra che poteva vantare tante caratteristiche positive come la bellezza dei suoi paesaggi, lo splendore dei siti archeologici, il senso dell'ospitalità e l'affabilità della sua popolazione, la cultura delle sue millenarie tradizioni, dovette soccombere di fronte a un evento imprevedibile e tragico come quello rappresentato da un rovinoso sisma.
Nulla lasciava presagire che il destino di Avezzano e degli altri paesi della Marsica potesse subire un colpo così drammatico e subdolo come quello inferto da un terremoto di intensità inaudita, che nei suoi rovinosi effetti coinvolse la quasi totalità delle abitazioni e degli abitanti. Grandi e piccini, impreparati, indifesi, impotenti di fronte alla rovinosa azione distruttiva.
In un attimo tutto finisce, tra i pianti e le urla di dolore dei pochi sopravvissuti. Nemmeno il tempo di rendersi conto dell'immane tragedia, ed ecco che viene spazzato via e azzerato tutto il processo di rinnovamento che con tanta fatica e abnegazione era stato portato avanti dal popolo marsicano. Due boati intorno alle otto del mattino di quel disgraziato tredici gennaio del millenovecentoquindici annunciano l'arrivo di un grave sconvolgimento che nel giro di poche decine di secondi trasforma in maniera radicale il territorio, l'urbanistica e l'assetto demografico.
Avezzano, come quasi tutti i paesi della Marsica, viene raso al suolo. Abitazioni, stalle, uffici, chiese, scuole, vecchi monumenti e lo stesso castello Orsini diventano un unico ammasso di ruderi senza tetti, e tutt'intorno solo macerie in mezzo a nugoli di polvere e qualche principio d'incendio. La valutazione più drammatica verrà realizzata soltanto il giorno dopo, quando le stime cominciano a delineare l'incredibile gravità della tragedia: ad Avezzano erano sopravvissute poco più di un migliaio di persone, appena un decimo della popolazione.
Il particolare periodo dell'anno, il freddo gelido, la neve e le scarse comunicazioni ritardarono notevolmente i soccorsi. I pochi sopravvissuti vagavano come fantasmi per le strade, alla ricerca di aiuto o di un parente o di un amico. Tra loro anche Attilio Mastri. Era stato risparmiato dalla belva malvagia, che invece s'era portata via mamma Amelia. Col cuore a pezzi e ancora sotto shock, come un automa si diresse verso il Castello Orsini, la sede del convitto annesso alla Scuola Normale femminile. I suoi sensi percepivano solo macerie, desolazione e lamenti d'oltretomba. Alla vista delle condizioni del vecchio castello non riuscì a frenare le lacrime, e quando un inserviente miracolosamente scampato al crollo lo informò che le allieve e la giovane direttrice erano state sorprese nel refettorio al momento della colazione e senza possibilità di scampo erano rimaste sepolte sotto le macerie, si lasciò cadere per terra e, prostrato dal dolore e noncurante del freddo gelido che gli penetrava dentro fin nelle ossa, pianse amaramente e senza alcun ritegno, come solo un bambino privo di ogni forma di difesa può fare. Maria non c’era più. Spezzati i suoi legittimi sogni. Definitivamente cancellati i progetti di vita di una coppia di giovani innamorati. Soltanto nei giorni seguenti, poco a poco e a stento, Attilio riuscì a rendersi conto dell'immane tragedia che aveva colpito la Marsica, e che aveva colpito lui stesso in tutti i suoi affetti.
Era rimasto solo. Solo, in preda a una sofferenza indicibile, che forse neanche il tempo, in questi casi unica medicina, sarebbe riuscito a lenire.
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