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Raccolta di testi in prosa di Giovannino Giosuč
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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L’amore non ha etŕ né confini

 

L’AMORE NON HA ETA’ NE’ CONFINI

 

 Dicembre inoltrato. Scompare l’ultimo raggio di un pallido sole ed ecco le prime ombre del crepuscolo e quindi il fitto buio della sera. Una sera gelida, di quelle che annunciano l’inverno vero e proprio e generano angoscia al solo pensiero di quanto sarà lunga la stagione della neve e del freddo.

   Il caminetto acceso trasmette il suo calore e la vigorosa fiamma riesce a far dimenticare, almeno per un po’, l’arrivo del cattivo tempo.

   Per qualche tempo Aurora e Anselmo sono rimasti in silenzio, la mano nella mano, a godersi il tepore di quel caldo momento di pace.

   Fu lei a rompere il silenzio per prima.

   < La soluzione migliore sarebbe quella di andar via insieme > esordì con un tono di voce molto rassicurante, < diversamente sarà bene che vada prima tu > proseguì sorridendo, sempre con lo stesso tono, ritardando l’intervento di lui.

   < Sai già che mi trovi d’accordo. Ma ne sei sicura? > fece lui, con un tono pieno di complicità, alla ricerca di una conferma.

   < Sì. Beh, lo spero per te. C'è anche la statistica che parla chiaro >.

   Frammenti di un pacato colloquio, portato avanti con serenità davanti al caminetto acceso, seduti su due logore poltroncine.

   <  E poi, è meglio così. Non è egoismo il mio, lo sai, anzi …>.

   < Non devi giustificare i tuoi convincimenti > la interruppe lui < so che sai essere altruista anche nelle situazioni estreme. E io credo ciecamente nella valenza di questa tua, per quanto singolare, ultima dichiarazione d’amore >.

   E così dicendo, Anselmo le prese le mani tra le sue, se le portò alle labbra e le baciò con estrema delicatezza. Ovviamente Aurora non si oppose. Si crogiolò per qualche istante in quel tenero gesto e poi, chiudendo gli occhi, raggiunse con le sue le labbra di lui.

   Da quando avevano superato gli anta, Anselmo e Aurora sempre più frequentemente tornavano sullo stesso argomento.

   Lei se l’era coccolato fin da quando, adolescenti, si erano fidanzati. E continuava a farlo, sposati da tantissimi anni ormai. Lui l’amava profondamente, senza riserve, in ogni attimo consapevole che le gioie assaporate nella vita adulta erano passate tutte attraverso lei.

   Riconoscente, spesso metteva l’accento su questo.

   < Sono stato molto fortunato nella vita. Senza soffrire, ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza molto serenamente, passando dal caldo abbraccio della mia mamma nelle tue amorevoli mani. Servito e riverito, come mi ricordi ogni tanto. Per questo, a parte il dover andare al lavoro, non ho dovuto imparare altro per affrontare la quotidianità. Ci sei tu! Ci sei stata tu, sempre e soltanto tu >.

   Ecco allora, nei pensieri di lei, in una estrema forma d’amore proiettato verso il futuro, farsi strada la necessità che fosse prima lui ad essere richiamato nelle praterie celesti.

   Come potrebbe il meschino sopravvivere non sapendo cosa significhi rassettare la casa, lavare e stirare una camicia, o semplicemente cuocere un uovo al tegamino?

   Spesso, soprattutto quando non si hanno impegni di alcun genere e si sta da soli, soli con se stessi, il pensiero corre all’indietro nel tempo, come la pellicola di un film che si sta riavvolgendo, e ti fa rivedere tutti i momenti salienti della tua vita passata. Momenti belli, brutti, importanti, significativi, frivoli, emozionanti, fatti di sconforto o pieni di speranze, ma tutti generati dalla presenza più o meno consistente di quell’importante ingrediente che è l’amore. In tutte le sue forme. In tutte le salse. In tutti i suoi aspetti, gioiosi o tormentati, comunque sempre intriganti.

   Verso un uomo o una donna, verso un genitore o un figlio, verso un tuo simile che in quel preciso istante aveva bisogno del tuo aiuto. O anche verso forme astratte, nei confronti di un ideale o di una qualsivoglia passione che, in quanto tale, esprime un talento, e va sempre alimentata col fuoco dell’anima, con caparbietà.

   < Ti ricordi il nostro primo incontro? >.

   E come può, Anselmo, dimenticarlo! Alla mezza del giorno di ferragosto, negli ultimi momenti dello struscio prima di rientrare per il pranzo, due gruppi di amici si incontrano.

   Ciao…ciao, come va?

   Che fate oggi?...E voi?...Ah, non vi conoscete?

   Piacere, Anselmo. Che nome buffo, deve aver pensato lei.

   Piacere, Aurora. Un angelo, un vero angelo, deve aver pensato lui. Avrebbe voluto dirle molto piacere, fortunatissimo, sei bellissima, sei fantastica!

   Un bel viso, dolcissimo, incastonato tra due lunghe trecce di capelli nerissimi, rappresentava in quel preciso momento l’esatta fotografia dell’ineffabile bellezza dei suoi quattordici anni. E poi quel segno, così particolare, unico nella sua colorazione celeste, sotto l’occhio sinistro. Una pietra preziosa, un turchese che impreziosiva ancor di più un viso già di per sé stupendo, incantevole.

   Certo che lo ricorda! Un evento assolutamente impossibile da dimenticare. Una fotografia indelebile di un momento decisamente magico. E da allora, quanti bei ricordi! Da più di sessant'anni insieme ad assaporare tutti i momenti di una vita, belli e intensi, seppur talvolta intrisi anche di ansie e preoccupazioni.

   L’amore ha permesso tutto. Ha fatto godere nei momenti felici, e ha fornito loro la necessaria energia per superare indenni i momenti difficili.

   Ora, superati gli anta, l’amore si proietta su altre dimensioni, nello spazio e nel tempo. Assume altre fogge, prende altre forme, si connota di una luce diversa. Meno sfolgorante, più tenue e riposante.

   Se niente può ridare all’erba il suo splendore

   e il suo tripudio al fiore,

   non disperiam per questa sorte funesta,

   ma più felici in cuore

   godiam di quel che resta.

   Anselmo aveva tirato fuori questi versi così, d’un fiato.

   < Ben detto, tesoro! Bravo, complimenti! > commentò lei con convinzione, guardandolo negli occhi con amorevole espressione.

   < Oh, no, amore mio, i complimenti vanno a Wordsworth, il poeta inglese che ha saputo esprimere il concetto con parole così belle, semplici ed efficaci >.

   Anselmo non si sarebbe mai appropriato di beni altrui. Né materiali, né tanto meno morali. Soprattutto di quei beni immateriali, prodotti dello spirito e della mente, patrimonio dell’intera umanità.

   E forse per questo, o anche per questo, Aurora lo aveva sempre amato, senza riserve. Le piaceva di lui questo modo trasparente e cristallino di vivere la vita, con serietà e onestà intellettuale.

   Come amava spesso ricordare, erano state le sue mani a colpirla in modo particolare, alla mezza di quel fatidico giorno di ferragosto. Nel tempo, al di là delle caratteristiche fisiche, aveva pian piano imparato ad apprezzarne, insieme alla sobrietà, le qualità morali e intellettuali.

   Ora, in quell’ultima delicata dichiarazione d’amore era evidente il desiderio da parte di lei di risparmiargli il doloroso evento della perdita di una persona cara importante e insostituibile, nonché la sofferenza nel dover affrontare da solo le miserie e le difficoltà della vita legate alla quotidianità.

   Il suo non voleva essere un addio prematuro, ma solo una prova ulteriore di amore incondizionato, senza età né confini.

   Quella sera non si parlò d’altro. Con toni pacati, sottovoce, in tutta serenità.

   Il crepitio del fuoco nel caminetto andò via via scemando, le alte lingue di fuoco si ridussero pian piano a piccoli bagliori, e nel rinnovato silenzio trovò posto solo il caldo abbraccio della brace.

   Presi da sopore, si addormentarono così, mano nella mano, il viso sereno, come improntato a un dolce permanente sorriso.


Id: 2704 Data: 08/03/2015 21:04:31

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Michelin? Sě, grazie!

MICHELIN? SI', GRAZIE!

 

   Il posto dà l’idea di un santuario. Interni in penombra, luci soffuse, inveterata abitudine di parlarsi con discrezione, quasi sussurrando le parole. Solitamente gli avventori che si avvicendano all’interno del locale intuiscono immediatamente l’importanza di entrare in sintonia col sottoscritto: sono un tipo di poche parole, precise e ben ponderate, pronunciate sempre a bassa voce.

   Mi chiamo Tonino, e il locale è una vecchia trattoria dalle antiche tradizioni. Ebbene sì, faccio il ristoratore. Sono un uomo di poche e misurate parole, sempre rassicuranti e decise, che non ammettono contraddittorio.

   A metà degli anni ottanta, sulla soglia dei quarantanni, ero già un esperto di cucina e di ristorazione come pochi.

  Niente a che vedere col classico ristoratore piuttosto rotondo nel fisico e dalla faccia rubiconda, sempre sorridente e dalla parte del cliente secondo il principio che il cliente ha sempre ragione. Tra l’altro, guardandomi, non si riuscirebbe mai ad indovinare il lavoro che faccio. Piuttosto, l’aspetto rubizzo e i modi sempre compiti e seri rivelerebbero uno studioso di discipline umanistiche, un filosofo forse, o un sociologo.

  Nessuno ha facoltà di interferire, quando si ritrova a pranzo nel mio ristorante, sulla sequenza dei piatti da gustare. Devo solo sapere se il cliente vuole mangiare carne o pesce, minestre o paste. Se preferisce torte, o dolci al cucchiaio. Basta. Il resto è un problema mio. Come cucinare, come fare gli abbinamenti con le bevande, come presentare il prodotto.

   Lo ammetto, un vero dittatore. Nel tempo la mia intransigenza è diventata proverbiale e in certo qual modo ha fatto la fortuna del  locale. Sono molti gli aneddoti che circolano sul mio conto. In realtà si tratta di tante piccole storie, tutte vere, tutte dello stesso…sapore.

   In una di queste rimase coinvolto un mio amico che con una certa regolarità frequentava la trattoria. Quella sera Giulio aveva voglia di un bel piatto di spaghetti alle vongole. Mi mise a parte di questo suo desiderio, riuscendo a coinvolgere in questa scelta anche gli altri due amici. Passato il tempo necessario, eccomi al loro tavolo. 

  <Pronti gli spaghetti! Vi ho portato una bottiglia di trebbiano giovane, di quest’anno, nove o dieci gradi di temperatura…e buon appetito!>.

   Feci per avviarmi, ma Giulio mi bloccò.

   <Tonino! Tonino…il parmigiano! Non so farne senza ...>.

  <Cosa? Se non fossi mio amico, ti troveresti già fuori del locale. Solo in nome della nostra amicizia, ti do facoltà di servirti da solo e quindi di g-u-s-t-a-r-e - dissi proprio così, facendo ampi gesti con tutto il sarcasmo di cui ero capace - il tuo piatto, ma fuori dalla sala, in corridoio, lontano da tutti. E da me, soprattutto>.  Dopodiché, senza attendere risposta o commenti, mi allontanai velocemente. Non ho mai ammesso stranezze in campo gastronomico, abbinamenti che potessero offendere il buon gusto del sapore. E non sono mai riuscito ad usare mezzi termini.

   In effetti, diversi anni prima, quasi agli inizi, avevo letteralmente sbattuto fuori dal locale un cliente che insisteva nel volere una pasta e fagioli ai formaggi dolci, uno dei piatti tipici vanto della casa, servita a tavola con l’aggiunta di ragù perché, confessava il meschino, non gli piaceva il colore. Cercando di mantenere la calma, lo informai che mai e poi mai avrei acconsentito a una richiesta del genere. Potevo servirgli spaghetti o linguine al ragù, o della pasta e fagioli così come cucinata dalla casa, ma mai un’accozzaglia di sapori.

    <Allora io me ne vado! E non metto più piede in questo locale!>.

   <Bene, signore. Vedo che ha capito benissimo come stanno le cose, anticipando le mie mosse. Non sarà una grande perdita, né per lei né per me. Buongiorno, e a non rivederla, signore!>.

   Un ristoratore sui generis, certamente singolare, ma assolutamente verace, forte delle mie convinzioni. Soprattutto convinto della mia preparazione in gastronomia e della bontà delle mie ricette, e della validità delle ricerche che con passione ho sempre condotto in campo culinario. Ad ogni modo confermo che è stata proprio la mia testarda intransigenza a fare la fortuna del locale. Una volta l’avevo raccontato con dovizia di particolari una di quelle sere in cui, andato via l’ultimo cliente, mi stavo intrattenendo con gli amici a parlare del più e del meno, tra un assaggio di pecorino nostrano e un goccio di montepulciano.

   La storia si era consumata alcuni anni addietro, proprio il primo giorno di primavera. Si era presentato nel locale un distinto signore, giacca cravatta e panciotto, chiedendo un tavolo singolo. Quando mi avvicinai per le ordinazioni, il signore chiese le specialità della casa.

   <Per quanto riguarda i primi piatti, abbiamo ravioli ricotta e spinaci, tagliolini in brodo speciale, gnocchetti della nonna al ragù…>.

   <Mi porti questi tagliolini in brodo speciale…al ragù!> ordinò con decisione il distinto signore.

   <Oh, ci risiamo ... - borbottai tra me e me, e alzando poi il tono di voce - … e da bere, caro signore, cosa le dovrei portare? Possiamo mescolare un po’ di rosso piceno superiore con una falanghina beneventana?> commentai  con tutta l’ironia di cui ero capace.

   <Come si permette? Cosa vuol dire con questo?> cercò di imporsi il distinto signore.

   <Voglio dire che non mi piacciono le accozzaglie di sapori. Le posso portare dei tagliolini in brodo, e poi, se vuole, un po’ di gnocchetti della nonna al ragù; naturalmente, gli abbinamenti dei vini li faccio io. Ci pensi su. E se lei vorrà insistere nella sua richiesta, sappia fin d'ora che non solo non la esaudirò, ma la inviterò a lasciare il locale!>.

   E così dicendo, feci dietro-front e mi avviai verso la cucina. Ma riuscii a fare solo pochi passi. Il distinto signore in giacca cravatta e panciotto mi chiamò a gran voce.

  <Tonino, venga qui, per favore! - e cambiando totalmente tono proseguì - Ero stato già informato sulle peculiarità di questo locale e del suo titolare, ma non immaginavo una cosa così drastica, anche se, devo dire, in linea con la perfetta arte gastronomica. Spero mi vorrà perdonare se ho voluto metterla alla prova, ma ne è valsa la pena>.

   E così dicendo, estrasse dalla tasca interna della giacca una carta che riconobbi al volo: il documento di riconoscimento dei responsabili della famosissima Guida Michelin di trattorie, ristoranti e alberghi. Prima ancora che potessi accennare una qualche timida scusa, quegli continuò:<Non solo questa antica trattoria della sana provincia italiana troverà posto nella Guida fin dal prossimo numero, ma io stesso la consiglierò a tutti i miei amici, precisando loro che potranno gustare degli ottimi piatti affidandosi completamente e tranquillamente a Tonino, una persona che ama il suo lavoro, un ristoratore preparato e inimitabile>.

  Le labbra leggermente increspate, ero rimasto senza parole. Lacrime trattenute a fatica mi premevano sui bulbi oculari, quelle stesse lacrime che dopo una breve resistenza riuscirono a scardinare la dura scorza del mio carattere. Per la prima volta. Fu così che i soli avventori presenti al momento poterono essere testimoni di un evento più unico che raro.   

 


Id: 2682 Data: 04/03/2015 13:40:36

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Il crudele destino d’una giovane matematica

IL CRUDELE DESTINO D’UNA GIOVANE MATEMATICA

 

   Quindici ottobre millenovecentododici, ore sei e venti pomeridiane.

   Un treno con il suo carico di persone e di cose corre lungo la tratta Roma Pescara avvolto in una sorta di nebbia a tinte scure, accompagnato dal tipico rumore assordante prodotto dal suo sferragliare. Alcuni viaggiatori scambiano quattro chiacchiere, altri leggono un giornale o un libro, altri ancora rimangono silenziosi, compostamente seduti al proprio posto, lo sguardo quasi assente ma la mente rivolta a quel che la buona sorte vorrà riservare alle proprie aspirazioni o ai propri progetti di vita.

   Diverse persone sono dirette ad Avezzano, la cittadina capoluogo della Marsica situata proprio a metà della tratta. Se un visitatore ha scelto il treno come mezzo di trasporto, non riesce a sottrarsi alle bellezze del paesaggio naturale già dal momento in cui, lasciandosi Tagliacozzo alle spalle e procedendo verso Scùrcola e quindi verso il capoluogo marsicano, si ritrova immerso in una vasta distesa pianeggiante con la bella riserva naturale del Monte Salviano alla sua destra e, più in lontananza, sulla sinistra, il maestoso gruppo del Monte Velino.  

   «Avezzano! Stazione di Avezzano! ».

   La comunicazione più volte ripetuta a squarciagola da un inserviente della stazione, sovrapponendosi allo stridio dei freni arrivò ai passeggeri interessati. Le porte del treno si aprirono e alcuni passeggeri scesero a terra. Fra questi, con in tasca la nomina ministeriale per l'insegnamento presso la locale Regia Scuola Normale femminile, la professoressa Maria Gramegna, una giovanissima matematica piemontese allieva di Giuseppe Peano e promettente ricercatrice.

   Quasi certamente quei luoghi, l'affabilità e il senso dell'ospitalità del popolo marsicano la colpirono subito e profondamente. Dopo alcuni mesi conobbe Attilio Mastri, un giovane del posto un po' più grande di lei, studente presso la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma, piuttosto in ritardo con gli studi a causa del suo interesse - ma sarebbe più giusto dire una vera e propria passione - nei confronti della campagna e di tutto ciò che questa avrebbe potuto elargire a chi l'avesse amorevolmente coltivata.

  Attilio era conosciuto in città come un tipo piuttosto eccentrico. Di bell'aspetto, alto, moro, occhi luminosi e sguardo intenso. Un tratto distintivo come la folta capigliatura apparentemente non curata gli dava l'aspetto di un bohémien o di un filosofo. Aveva conosciuto Maria nell'aprile del millenovecentotredici in modo del tutto casuale davanti a una di quelle bancarelle che nei giorni di festa riempivano la piazza prospiciente la chiesa di San Bartolomeo, proprio durante i festeggiamenti in onore del santo patrono.

  Il casuale incontro provocò tuttavia nei due giovani un certo turbamento. Accantonata la sua naturale timidezza, Attilio si recò presso la sede della Scuola Normale chiedendo di lei.  Quando lo ricevette, per motivi personali Maria era di pessimo umore.  

   «Non sono qui per importunarla, mi creda. Avendo saputo delle sue competenze, le vorrei chiedere qualcosa che ha a che fare col mio status di studente di Filosofia ...».

   «Ah, dunque è uno studente lavoratore ...» lo interruppe lei, con un tono più accomodante.

   «Beh, considerando l'età e le priorità manifestate, direi più un lavoratore … studente!» le confessò lui con un tono tra il serio e il faceto. A questo punto, guardandosi negli occhi, scoppiarono in una fragorosa risata, che in certo qual modo segnò l'inizio della loro storia. Cominciarono a frequentarsi come due vecchi amici, e nello stesso tempo Attilio sentiva crescere dentro di sé un sentimento più profondo, ma non riusciva a trovare il coraggio di esternarlo. Chiuso l'anno scolastico, Maria risalì a Tortona, dove dimorava la sua famiglia.

   L'estate di Attilio si rivelò densa di impegni. Si buttò a capofitto sia nei lavori di campagna che nello studio. Le sue giornate erano piene, senza un attimo di respiro. E mai avvertiva stanchezza, le energie gli venivano fornite dal solo pensiero rivolto a Maria: ne era ormai sicuro, provava per lei un amore vero e profondo. La giovane matematica con la sua forte personalità lo aveva colpito nel cuore e nella mente a tal punto da riuscire a limitarne il pensiero e l'azione. E ben sapendo che di fronte a lei non sarebbe mai riuscito a trovare né le parole giuste né soprattutto il coraggio di dichiararsi, si decise a scriverle una lettera.

 

   Gentilissima signorina Maria,

per prima cosa le chiedo scusa per l'ardire di questo mio scritto, ma la prego fin da adesso, qualunque sia la sua reazione e il suo pensiero in merito, di mantenermi la sua stima e la sua amicizia così come con tanta disponibilità me le ha mostrate in passato. È troppo importante per me poter ancora contare su di lei.

   Il mio ardire si riferisce ai sentimenti che nutro per lei fin dal primo momento che l'ho vista, e che ho sentito gradualmente crescere in me man mano che venivo a conoscenza delle sue molteplici e nobili qualità. Dal profondo del mio cuore, ormai conquistato dalla sua grazia e dalla sua leggiadria, non mi è stato difficile tradurre questi sentimenti in una parola che tutti li racchiude: amore!

   Sì, signorina Maria, io l'amo, con tutto me stesso. E se questo mio sentimento non dovesse trovare riscontro, o peggio ancora la dovesse ferire, la prego fin d'ora, in ginocchio, faccia conto di non aver mai ricevuto questa missiva, e mi tenga ancora e per sempre tra i suoi amici più devoti.

     Aspetto con trepidazione il suo ritorno, sempre suo affezionatissimo

                                                                                                       Attilio

 

   Scrisse con attenzione l'indirizzo sulla busta, con molta cura vi applicò il francobollo e spedì. Maria rispose quasi subito, dichiarandosi lusingata per le belle parole e i buoni sentimenti espressi.

   “Li ho sentiti veri e profondi, sicuramente sinceri -gli confessò nella sua missiva – e degni di una persona brava e ben educata, come lei ha sempre mostrato di essere. E le devo confessare che anche il mio cuore ha cominciato a palpitare fin dal nostro primo incontro”.

   Attilio rischiò di non reggere alla forte emozione che la risposta di Maria gli aveva procurato. L'anno scolastico successivo segnò un periodo idilliaco per loro. La giovane cominciò a frequentare casa Mastri dopo aver conosciuto Amelia, la mamma di Attilio, e si decise a fermarsi ad Avezzano anche durante le vacanze estive.   

   Purtroppo però, come la storia dell'uomo ha insegnato, non solo luci.

   Il 13 gennaio 1915, la Marsica, la terra che poteva vantare tante caratteristiche positive come la bellezza dei suoi paesaggi, lo splendore dei siti archeologici, il senso dell'ospitalità e l'affabilità della sua popolazione, la cultura delle sue millenarie tradizioni, dovette soccombere di fronte a un evento imprevedibile e tragico come quello rappresentato da un rovinoso sisma.

    Nulla lasciava presagire che il destino di Avezzano e degli altri paesi della Marsica  potesse subire un colpo così drammatico e subdolo come quello inferto da un terremoto di intensità inaudita, che nei suoi rovinosi effetti coinvolse la quasi totalità delle abitazioni e degli abitanti. Grandi e piccini, impreparati, indifesi, impotenti di fronte alla rovinosa azione distruttiva.

    In un attimo tutto finisce, tra i pianti e le urla di dolore dei pochi sopravvissuti. Nemmeno il tempo di rendersi conto dell'immane tragedia, ed ecco che viene spazzato via e azzerato tutto il processo di rinnovamento che con tanta fatica e abnegazione era stato portato avanti dal popolo marsicano. Due boati intorno alle otto del mattino di quel disgraziato tredici gennaio del millenovecentoquindici annunciano l'arrivo di un grave sconvolgimento che nel giro di poche decine di secondi trasforma in maniera radicale il territorio, l'urbanistica e l'assetto demografico.

   Avezzano, come quasi tutti i paesi della Marsica, viene raso al suolo. Abitazioni, stalle, uffici, chiese, scuole, vecchi monumenti e lo stesso castello Orsini diventano un unico ammasso di ruderi senza tetti, e tutt'intorno solo macerie in mezzo a nugoli di polvere e qualche principio d'incendio. La valutazione più drammatica verrà realizzata soltanto il giorno dopo, quando le stime cominciano a delineare l'incredibile gravità della tragedia: ad Avezzano erano sopravvissute poco più di un migliaio di persone, appena un decimo della popolazione.

  Il particolare periodo dell'anno, il freddo gelido, la neve e le scarse comunicazioni ritardarono notevolmente i soccorsi. I pochi sopravvissuti vagavano come fantasmi per le strade, alla ricerca di aiuto o di un parente o di un amico. Tra loro anche Attilio Mastri. Era stato risparmiato dalla belva malvagia, che invece s'era portata via mamma Amelia. Col cuore a pezzi e ancora sotto shock, come un automa si diresse verso il Castello Orsini, la sede del convitto annesso alla Scuola Normale femminile. I suoi sensi percepivano solo macerie, desolazione e lamenti d'oltretomba. Alla vista delle condizioni del vecchio castello non riuscì a frenare le lacrime, e quando un inserviente miracolosamente scampato al crollo lo informò che le allieve e la giovane direttrice erano state sorprese nel refettorio al momento della colazione e senza possibilità di scampo erano rimaste sepolte sotto le macerie, si lasciò cadere per terra e, prostrato dal dolore e noncurante del freddo gelido che gli penetrava dentro fin nelle ossa, pianse amaramente e senza alcun ritegno, come solo un bambino privo di ogni forma di difesa può fare. Maria non c’era più. Spezzati i suoi legittimi sogni. Definitivamente cancellati i progetti di vita di una coppia di giovani innamorati. Soltanto nei giorni seguenti, poco a poco e a stento, Attilio riuscì a rendersi conto dell'immane tragedia che aveva colpito la Marsica, e che aveva colpito lui stesso in tutti i suoi affetti.

   Era rimasto solo. Solo, in preda a una sofferenza indicibile, che forse neanche il tempo, in questi casi unica medicina, sarebbe riuscito a lenire.

 

   


Id: 2675 Data: 02/03/2015 13:35:47