Mi sono ricordato all’improvviso
che circa vent’anni fa scrissi una poesia d’amore
in cui l’amore come è normale non veniva nominato.
Ricordo anche che la poesia era dedicata, come è normale,
a una donna inesistente, come è per tutte le poesie d’amore.
Per il resto non ricordo una sola parola di quella poesia
ma di me mi ricordo – come fossi all’improvviso
distolto da tutto il resto, come cercassi disperatamente
carta e penna e un angolo adatto per mettermi a scriverla.
Ma, ripeto, non ricordo una sola parola di quelle che scrissi.
Quando l’ebbi finita, la poesia, la soddisfazione fu enorme.
Dalla regione sconosciuta era arrivato il fantasma
e mi aveva ordinato di usare l’inchiostro
per i geroglifici del buio, per il miracolo dell’epifania
su uno scadente foglio di quaderno.
Circa vent’anni fa l’amore mi fece visita
assumendo una delle sue infinite e incredibili forme
per poi tornare nella regione sconosciuta
per tramutarsi in circa vent’anni in un ricordo vuoto.
E la novità è che ora guardo quel vuoto come si guarda una tomba,
una fossa in un campo di morti che percorro in silenzio
e quel vuoto mi strugge come una morte precoce, come un’estate
sulla quale indugi ancora il cadavere dell’inverno,
come tutte le vite che il tempo ha ingoiato
e disperate chiamano nel vento, nell’ora più malinconica del giorno,
nel presentimento della fine di tutto, che l’amore stesso
è un ricordo della fine che cresce negli anni
e viene a posarsi su noi come cala la sera,
come sommessamente muore una primavera.
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