I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Elenco delle somiglianze
La parentela tra i bambini che giocano con la sabbia e il vento che lo fa con la polvere; questi paralleli della vita, la carezza dell’innocenza, il crimine elegante della corrida, l’elenco delle somiglianze, mi tengono impegnato durante la tua assenza, nella penombra delle mie stanze. L’uomo alto e corpulento che abita poco lontano, che incontro con una frequenza da numeri primi, è un’urna che contiene le ceneri di mio padre e di alcuni stretti affini. La signora del quarto piano che a tavola dopo il terzo bicchiere litiga furente col figlio divorziato nasconde tutto il risentimento di mia madre, mai vomitato. Mia nonna che nutriva di pietà uomini e animali a distanza immobile su una sedia è la signora anziana del palazzo di fronte morta di sorda inedia. E quel vecchio magrebino, che passa di domenica, al mattino, il venditore di tappeti, con gli occhi un po’ velati, all’apparenza per niente scaltro, è mio nonno che chiuse il suo negozio per gestire quello di un altro. E quell’altro, quello pelato, fermo all’angolo che segue con lo sguardo macchine e passanti finché non scompaiono, girando la testa come un periscopio è mio zio che premorì a mia zia che premorì e basta, evitando il manicomio. E le merde di cane che costellano la piazza sono alcuni miei compagni delle elementari e quelle che segnano i marciapiedi alcuni del liceo e tutte queste insieme ad altre specie di escrementi compongono l’intero collegio dei docenti. Tutto questo, dicevo, mi tiene un po’ occupato durante la tua assenza, che non so capire. In questo elenco, dimenticavo, tu sei la primavera, quella che tarda a venire.
Id: 26468 Data: 11/07/2014 09:54:13
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Un ricordo della fine
Mi sono ricordato all’improvviso che circa vent’anni fa scrissi una poesia d’amore in cui l’amore come è normale non veniva nominato. Ricordo anche che la poesia era dedicata, come è normale, a una donna inesistente, come è per tutte le poesie d’amore. Per il resto non ricordo una sola parola di quella poesia ma di me mi ricordo – come fossi all’improvviso distolto da tutto il resto, come cercassi disperatamente carta e penna e un angolo adatto per mettermi a scriverla. Ma, ripeto, non ricordo una sola parola di quelle che scrissi. Quando l’ebbi finita, la poesia, la soddisfazione fu enorme. Dalla regione sconosciuta era arrivato il fantasma e mi aveva ordinato di usare l’inchiostro per i geroglifici del buio, per il miracolo dell’epifania su uno scadente foglio di quaderno. Circa vent’anni fa l’amore mi fece visita assumendo una delle sue infinite e incredibili forme per poi tornare nella regione sconosciuta per tramutarsi in circa vent’anni in un ricordo vuoto. E la novità è che ora guardo quel vuoto come si guarda una tomba, una fossa in un campo di morti che percorro in silenzio e quel vuoto mi strugge come una morte precoce, come un’estate sulla quale indugi ancora il cadavere dell’inverno, come tutte le vite che il tempo ha ingoiato e disperate chiamano nel vento, nell’ora più malinconica del giorno, nel presentimento della fine di tutto, che l’amore stesso è un ricordo della fine che cresce negli anni e viene a posarsi su noi come cala la sera, come sommessamente muore una primavera.
Id: 26212 Data: 20/06/2014 08:09:15
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Fino a quando?
Fin dove il dove attende la piaga purulenta e infame la spina nella carne e i passi che non contano più dopo i cari addii ogni giorno che il principe comanda… Fin dove attende il contrario – si dice – di questo trampolante cammino di trincea e i cari volti dispaiono per l’unico volto fossile di rinunce antiche. Fin dove urta l’onda millenaria assillante del silenzio nel silenzio più fondo che è l’attesa. Là dove si tende senza sapere in questo viaggio meschino adorno di parole esauste e pause massacranti. Ma la via interroga se pure non ti volti e mostra l’inanellarsi dei tempi in un suffragio esperto di commiati. Pure ogni volta si fa l’oblio cura del rammemorare l’infinito disperso nell’uguale vacuità dei giorni. Fino a quando? Fino a quando?
Id: 25309 Data: 15/04/2014 09:01:41
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Ed io non so se questo stupore
Questa mattina di trent’anni dopo è una mattina di cinquant’anni fa. Quel rettangolo di luce è lo stesso che allora fu ritagliato da una finestra che non c’è più. Sono appena un po’ più di quella finestra. Nel vuoto invulnerabile l’invisibile sangue scorre sulle alte pareti del silenzio. Una volta scrissi: Erro nel pallore vago e tu splendente fato del dio… E’ che stanotte vento mi vuole nello sghembo cimento della veglia nella frotta diseguale dei cani… Ed io non so se questo stupore è il mio o è del mondo che lo va scrivendo sulla mia anima attonita.
Id: 25149 Data: 04/04/2014 09:10:43
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Epochè
Per la prima volta da un po’
i ricordi tacciono in filari di salici che nessun
vento muove.
Ciò che sta accadendo è inchiostro che si secca al
solo pensarci.
Quando siamo a questo punto
il deserto si spazientisce alla nostra ombra
e la valigia dei trucchi risulta un inutile bagaglio.
Quello che sta accadendo mi evita uccidendomi
e un insano plebiscito per il perdono aleggia
sulle acque stagnanti.
Altri portano la remissione
su lettisterni preparati apposta per questo momento senza fine.
Cosa ne sarà del mio cane assolto in una radura
degli anni settanta? Ogni urna è una galassia troppo grande
per ceneri che sanno l’urlo che fa la porta sui cardini quando
il guardiano annoiato si interroga sul perpetuo e l’eterno.
Finché tutto continua ad odorare della sua presenza instancabile.
Id: 24145 Data: 29/01/2014 08:28:26
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Due colombi
Due colombi, uno bianco l’altro nero,
coi lombi acrobati sullo sbrecciato cornicione
appaiono inquieto l’uno, l’altro altero.
Come per una richiesta disattesa è l’emozione
che turba a un tratto il nero inelegante
e fanno estranei un tratto breve ma appaiati
poi divisi la coda si danno in un istante,
per affari che non saranno certo concordati.
Due colombi, non due di quei falchi rapaci,
due emblemi disposti in piena luce, comunque
figura di tutto che gli animi fa esser capaci,
nel mondo di sopra, di sotto, e quindi ovunque.
E tu pensi a ciò che è concavo e al convesso
e non è certo detto sia poi convesso il bianco
e nero il concavo nel caro piccolo consesso.
Le parti furono decise molto prima al banco
e ogni colore si fa solo in universo, e manco.
Id: 21449 Data: 18/07/2013 10:30:57
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Sbando nella legge estatica
Sbando nella legge estatica
nella gloria fisica della metafisica.
Siedo a tavola come se
il tutto accaduto non fosse
che il niente accaduto.
Qualcuno parlerà di cose che
come meteoriti hanno colmato
il vuoto della mattinata, novità fatte
di spirito umiliato in futile divenire.
I bambini leveranno al cielo
le spoglie monche dei loro eroi
e ripeteremo non il nome ma il noi,
pronome dell’invisibile camuffato in carne
al barbecue dei giorni sempre uguali.
Le nuvole avranno i loro esegeti
la meteoropatia i suoi poeti
la scienza le sue subparticelle
i giornali la loro querelle
i mistici il pane supersustanziale.
E tutto sarà iniziato nel punto
della noia, come è normale
perché il dubbio da statico
divenga da quel punto immortale.
Id: 21106 Data: 27/06/2013 10:25:13
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Ma allora cosè
Tu dici forse non è vero niente.
Nessuno degli evangelisti
fu sincero con la gente.
Alla croce appesero
tre delinquenti e le belle novelle
le scrissero quattro molto eloquenti.
Forse è stata tutta una truffa,
un’opera che nel migliore dei casi
è stata poco tragica e molto buffa.
Tutto fu inventato e Paolo
li superò tutti, il massimo tintore
che di uno qualunque fece il Salvatore.
Ma allora cos’è quello che alcuni sentono
per esempio in una strada infesta e vuota
sotto un sole che dardeggia la testa
nella canicola, nell’aria immota?
Cos’è quella che pare l’unica salvezza
nell’ora che riassume di tutti la fanciullezza,
quella certezza che se qualcosa deve accadere
l’unica è dare la propria vita al prossimo
e il paradiso è tutto in questo assurdo vedere?
Id: 21075 Data: 25/06/2013 08:00:19
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Assenza di ispirazione
La poesia è magnifica.
Si regge da sola, corolla
senza gambo, sospesi cerchi
concentrici con al centro
un’essenza ineffabile
catturata in un momento
di rara grazia. Le parole venute
prima al labbro e poi alla penna
come un respiro puro e adorno di un’aria
di luna che si consumava nello spazio
siderale in una sera di un inverno
di un anno in cui procedevo
prossimo a un nirvana.
Gli a capo sono decisi
con la cura di chi da maestro
pota un bonsai millenario.
Le parole fluiscono l’una
nell’altra e sembrano essere state create
per questa destinazione,
per la felicità di questo approdo.
A volte, anzi sempre, sono così le rose:
foglie che stringono foglie e si aprono
guardando nello stesso punto magico del cielo.
Sono così talora i giardini, una pausa
nel mondo, celeste che si fa terrestre
perché ciò che sta sopra sappiamo
è come ciò che sotto si strugge nel suo desiderio.
Non c’è che dire, la poesia è memorabile,
peccato che non mi sia venuta, che non abbia
potuto fissarla sul foglio, donartela come acqua sorgiva
nel cavo delle mani che non l’hanno trattenuta.
Id: 20893 Data: 11/06/2013 12:05:27
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La spazzola
Dunque qualcosa resta
che abbiamo condiviso:
la spazzola
che ci pettinava entrambi.
Non riuscivo mai a trovarla,
la lasciavi nei posti più impensati.
Era un tuo gioco sottile, l’adorabile
strategia che mi faceva imbestialire.
Oggi so cosa volevi dire:
io tu e lei siamo uno in tre,
se trovi lei trovi anche me.
Adesso rintracciarla non è più
un problema: un’altra donna,
un’altra scena. Ma l’altra sopporta,
rassegnata; evita di sfiorarla anche
solo con un dito: sa che nessuno
può separare ciò che una spazzola
un giorno ha unito.
Qualcosa, dunque, resta
che abbiamo condiviso,
che per fortuna è muta.
Se mi ci metto, posso tentare
di contare tutte le volte
che non ti ho capita.
Perciò mi siedo qui,
uno tra gli imbelli,
su un tavolo allineo,
uno ad uno, i tuoi capelli.
Id: 20171 Data: 26/04/2013 18:39:35
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Gli occhi certamente
Gli occhi certamente, e il naso
e la bocca e come i capelli
ti coprono e scoprono le orecchie
e come tutto questo insieme
flagra in un silenzio – mentre parli –
che è quello dietro la poesia
e la fa essere nel concerto
che ogni volta si rinnova
e altro silenzio produce
in me che scorro dalla tua faccia
al seno che ha vita propria
ed esubera in onde che mi tolgono l’aria.
Poi gli occhi scendono alla vita
alla vita aggrappandosi e cercano
di indovinare l’ombelico e ancora
il tesoro morbido e caldo
del centro del mondo
che celi come non fosse il solo perché
di quello che scrivo, silenzio
dietro il silenzio, muto animale pulsante
nella sua tana d’oro buio e sanguinante.
E tutto questo, ogni volta, so
che si tramuterà nella tua assenza,
nel vuoto che percorrerò senza fiatare
percorrendo con un dito i tuoi infiniti contorni
fino al momento che ti rivedrò,
finché il miracolo non si ripeterà,
finché finalmente tu non riappari, non ritorni.
Id: 19935 Data: 10/04/2013 10:53:16
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Il fornaio con cui mi ubriaco
Il fornaio con cui mi ubriaco
tiene in massimo conto il rispettare
e l’essere rispettato.
Mi dà del Lei e salutando
accenna un inchino
perché sono un impiegato.
Tra quelli che bevono
appartiene agli apollinei
che conoscono la distanza
e l’arte della danza immobile.
Se ne sta infatti ritto
in un punto sacro dell’osteria
nella posa nobile
di chi serve solo se stesso.
Non posso dire di averlo visto
una sola volta alzare il calice.
Quando sarà chiamato
si presenterà al cospetto del capo
ben pettinato.
Id: 19378 Data: 28/02/2013 13:15:49
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La moltitudine
La moltitudine che all'alba appena
al luogo si dirige dove lavorando
sconta incomprensibile l’antica pena,
raccoglie andando come catarro in gola
quella che è stata la sua vita fino ad ora.
Quando è giusto il peso del secreto ribollente
e pronto al getto, dritto in un angolo lo sputa
dove un altro popolo reietto la sera precedente
vomitò suo spesso malto per disgrazia ricevuta.
Il basalto l'acido composto velenoso erode,
veloce la terra buca e si dispone infine fermo
facendosi rugiada sui campi incolti dell'inferno.
Nel suo sonno Satana che quasi tutto vede
contento in un sorriso soddisfatto pensa,
dischiudendo fascinosi gli occhi saettanti:
"Non ancora ch'io mi levi è tempo:
l'opera mia tanto è avanti! "
Id: 18959 Data: 31/01/2013 17:28:57
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Due polveri
Se la realtà mi nega la sua calda confidenza
dandomi del ‘Lei’ altera e nemmeno il ‘tu’
di chi non mi vede mi fa trasalire, dove troverò
la forza per tendere
un brandello di coscienza al cielo?
Una volta trascinavo la carcassa del mio sepolcro
come un trofeo di guerra e ingannavo candidi fogli
con su scritti i motti della mia risentita beatitudine.
E se tutto questo aveva un prezzo lo pagavo in contanti
senza sapere da dove venissero quei denari luccicanti.
Ora una voce che mormora da un abisso inaridito
e rimbalza sui fianchi di taglienti scogliere
mi dice che fuori corso ormai è la mia vita:
ha preso l’ambio il puledro per una deriva inaspettata,
per una rotta segnata da un dio che non mantiene.
‘Sistema le tue cose’ – ripete , con la monotonia
dell’esercizio di uno studente di violino – nel quaderno
è scritto un distico che ha poco di sublime, e ricorda.
Ricorda il suono misterioso delle maschere cadute
dai visi amati ogni serata amica; la stagione che
tra litanie di infiniti bardi mesta vanità attingeva
succingendo la sua purpurea veste pudica;
il commiato crudele di corpi divenuti ombre
che sciolsero le sillabe di un testo reso indecifrabile.
L’essere testimone di tutto questo non ti ha fatto eletto.
Oh, non avrai tu il salterio che riscatta il tempo!
Betsabea è fuggita col suo sposo quando ha letto
la brama nell’ardore dei tuoi occhi e tu sei rimasto solo
tra le colonne inattingibili del tempio
e alle tue spalle sgorga eterno il tuono
dagli inferi dell’arca.
Ma esso pure, lo sai, ha in sorte
una promessa di rovina e fuoco vasto.
Tra due polveri ti è dato scegliere soltanto:
sabbia di deserto o cenere d’olocausto.
Id: 18890 Data: 27/01/2013 10:34:49
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Da lontano
Ormai il ricordo che si aggira da troppo tempo
come una fiera intorno alle mie macerie,
l’afrore del suo fiato caldo che mi investe
a tratti – sbuffi di vapore di una locomotiva di carne –
mi rinfacciano la mia disfatta, la nostra.
Ho spostato tutto nella casa dove sopravvivo.
Le foto nelle cornici hanno conosciuto esodi imprevisti.
Adesso mi guardi da un luogo più elevato
e nulla toglie che non ci abbia azzeccato.
Forse dove vivi adesso l’aria è più fina,
ti svegliano i muggiti delle vacche o, più
teneri, i belati degli agnelli.
Noi due ci si siamo amati.
L’impronta delle labbra, della lingua, del velluto della pelle,
della cieca tenerezza tra le gambe, del modo in cui pronunciavi
il mio nome in certi momenti …
E quell’altra – terrore profondo senza lingua -, dell’anima buia,
da dove occhi muti dal fondo della vertigine reclamavano
un riscatto che non capivi, che doveva crescere con uno sforzo
fatto di veglie in cui l’amore aveva solo una parte,
sono una cella troppo stretta …
Occhi dal fondo delle viscere che imploravano di risorgere
sotto il sole.
Tutto questo continua a bruciare, lava che gorgoglia
sul fondo del vulcano che solo da lontano si può dire spento.
Ecco, da lontano una volta puoi cadere dentro il vulcano.
Da lontano c’è questo senso che non so definire,
fatto di una pietà che si vergogna di essere tale
e di un orgoglio che fa di tutto per farsi giustificare.
E’ una ferita nel tempo. Proprio così, il tempo sanguina
e siamo stati noi a ferirlo, trascurandolo come
fosse invulnerabile, come noi credevamo di essere.
Poi, per caso, come ora sta accadendo, solo perché
guardi in una direzione qualunque, e anche il giorno
mostra senza vergogna la sua ferita – il giorno stesso ferita –,
realizzi che sei in un abisso di silenzio e anche tu
– che svegliano muggiti o belati – ti trovi lì e tutto quello
che è successo è così stupido che non c’è una spiegazione.
Probabilmente esistono forze che devono fare
uno sporco lavoro e porsi di traverso. Ciò dovrebbe
rientrare nella logica dell’economia universale.
Ma tu sai che quella non è la polvere dei tomi che preferisco.
Finirà tutto questo? Ti rivedrò? Mi terrai di nuovo la mano?
E’ tutto così lontano. Da lontano ti scrivo. Da lontano sono dentro
il vulcano. Da lontano anche tu, credo, vuoi capire il prima, il poi.
Raccogliamo tutto quello che abbiamo disperso
perché quello siamo noi.
Id: 18840 Data: 25/01/2013 08:01:08
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Il ritratto
A mia madre
C'è un ritratto di te a vent'anni
che io non posso guardare.
Sul mobile, nel soggiorno,
sul mobile che incastona il televisore,
c’è un ritratto di te a vent’anni
che io non so dire.
Certo, in esso ti protendi,
sorridi, come pretese il fotografo;
sei già china su tuo marito, su noi…
Ma tutto questo non è niente
di quello che riesco a sentire.
Ogni volta il ritratto
esce dalla cornice
scivola in me
prende il posto della ragione
diventa un mare di tenerezza…
C’è un ritratto di te a vent’anni
in cui chiedi perdono della tua bellezza.
(1990)
Id: 18800 Data: 23/01/2013 09:29:01
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Alighieri 3192
Sertaca, 98/179/3192
Carissimo amico,
riscontro con un poco di ritardo
per motivi dipendenti
dalla mia nolontà
la tua del 13.29.3192
con un ineffabile piacere.
Come vanno le cose?
Alla grande!
La grigia eminenza del noùmeno
le consiglia né più né meno che
come una donna pilastrodellacasa;
il mio spirito guida
non ha mai preso la patente e
l’angelo custode non guarisce
dalla malattia del sonno.
La poesia? Beh, quella, se possibile,
va peggio ancora.
Forse non è più tempo
perché ogni volta che li rileggo
i miei versi, sono proprio questo:
un bollettino del tempo.
Vento, cielo, sole, luna, pioggia,
caldo, freddo, una assurda sincrasia
per la meteorologia.
Per il resto, che dirti? L’amore?
Come sempre va e viene: sceglie
le sue vittime come meglio gli conviene.
Di solito mi lascia in pace, a volte
bussa tardi ma io non ci bado:
vuole raccontarmi dei vicini,
di come sognano un incesto
di primo o di secondo grado.
Ricordi i vecchi tempi?
Una bevuta, un brivido e le parole
si spogliavano di tutti i loro sensi
perché noi le colmassimo del nostro,
racimoli della pietra caduta
dalla bisaccia del Soffiatore,
ma era oro che chiamava a corte
Beatrici e Laure, e pure donne vere
al di là del principio del sapere
e di quello della scuola normale,
salvato dalla mondiglia filosofale.
Oh, a proposito.
Ho incontrato l’Alighieri
proprio l’altrieri,
ma non ricordo dove.
Portava al guinzaglio
le cifre dallo 0 al 9
e così mi apostrofò:
O tu che ancora in questa pena vivi
col sembiante di un che non dà conto
forse perché la fola di che scrivi 3
t’illude che diman sarìa racconto.
Se un poco ti fe’ alunno mia statura
dinne a le genti come son pentito 6
d’ognuno avere preso la misura
per poi straziarlo male in infinito.
Di tutte cose l’omo è una mistura 9
e grande fallo fu salir lo soglio
per essere dottor tra saia e lana
arte che fu la mia e più non voglio. 12
Se pura fosse l’acqua che in Toscana
passa per Fiorenza e ha nome d’Arno
in essa me risciacquerei superbo 15
per scrivere parol, non Verbo indarno. 16
Poi continuò in suo latino
riconoscendo il suo errore:
non è detto che ad una lingua
debba necessariamente
corrispondere una nazione.
La lingua può esaltare e così ti frega.
Lo dicono i picciotti di Trinacria,
lo confermano ronde in vera Lega.
Adesso devo lasciarti.
Perché vedi: sei tu che tuo
malgrado ascolti e vedi
e ciò che non vedi senti,
a molti inesplicati
ti fai muto, ad altri mostri
intartariti i denti.
Tale è il quadro che si mostra
e non si mostra
la conclusione che devi trarre
di necessità dura.
La totalità è fatta di contrasto
che in sé s’incastra;
unico il riso per chi
s’immutria in sua rancura.
Scrivi quando vuoi.
Qui mi sento molto solo.
Circola carta straccia
invece della poesia.
C’è un nuovo Nobel:
quello per l’eutanasia.
Id: 18753 Data: 20/01/2013 10:23:39
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La mia vicina ero io
I
Nel giorno meraviglioso
le due vicine, l’anziana e la giovane
si svegliarono di buon mattino.
Nel loro cuore c’era gratitudine
ma segretamente anche un rimprovero
per la rarità di quel dono di luce
che legittimava illazioni
sulla prodigalità dell’onnipotenza.
Ma, nonostante questo, quello che
si presentava così radioso era un giorno
tutto da godere.
La luce non sembrava provenire dal sole
ma fiorita nel corso della notte,
tale era la terrestre intimità che
suscitava nelle persone e circolava
inchinandosi in saluti equanimi
a tutte le creature.
L’anziana trascorreva le sue giornate
spiando la giovane e senza concedersi pause.
Anche quando si cibava sedeva davanti alla finestra
del soggiorno dalla quale, masticando lentamente,
non si perdeva un solo gesto della ragazza.
Nel giorno meraviglioso, quindi,
tutto procedeva come sempre.
La vecchia si era accomodata al suo posto
e spiava ogni movimento della giovane
inquadrata dalle numerose finestre
tutte a portata d’occhio dell’anziana.
Questa, pertanto, la vide alzarsi, la vicina,
raggiungere lentamente la cucina,
prepararsi una gran quantità di caffè
e berlo come fosse acqua, e poi Via!
con i lavori di casa.
L’anziana guardava e la giovane
era guardata mentre ritirava i panni
asciutti e stendeva quelli appena tolti
dalla lavatrice; sbatteva i tappeti;
passava l’aspirapolvere per tutta la casa;
dava la cera ai pavimenti e, lo dico adesso,
faceva tutte queste cose cantando
un vecchio successo degli anni ’60.
Non c’era che dire: l’allegria con cui
attendeva ai lavori domestici era sicuramente
un segno di buona salute, ottima anzi.
Così si fece ora di pranzo e la vecchia
si accinse al pasto senza mai distogliere
lo sguardo da quello che faceva la vicina.
Il giorno era al culmine della sua radiosa armonia;
gli uccelli cantavano così forte che sembrava
volessero avvisare gli uomini di qualcosa o
semplicemente non reggevano quell’aria
così elettrica, rarefatta, quel gas così puro
che si insinuava veloce nei loro minuscoli polmoni.
In quel giorno miracoloso fratelli che non
si parlavano da anni avrebbero stipulato
una pace duratura; figli alienati avrebbero
risparmiato i loro genitori; mannaie
sarebbero rimaste appese nel deposito
degli attrezzi; l’agnello e il lupo, come vide
il profeta, avrebbero bevuto alla stessa pozza
e dissetati avrebbero percorso lo stesso sentiero,
chiacchierando del più e del meno.
La vicina anziana, quindi, cominciò il suo pasto
e notò che la giovane invece di fare una pausa
adesso si era messa a lavare i vetri e dove non
arrivava si aiutava con una sedia o uno scaletto.
La vecchia aveva calcolato che comunque,
dopo aver lavato i vetri, la giovane vicina
non avrebbe avuto più niente da fare e poteva
fermarsi per mangiare un boccone.
C’era solo una cosa che suscitava un pizzico
di perplessità, che trapassava la coscienza
indurita dell’anziana ed era proprio il modo in cui
la vicina lavava i vetri. In realtà, sebbene questi
fossero quasi puliti, lei li strofinava con tale veemenza
da dare l’impressione di volerli attraversare.
Ma questa fu solo una goccia che si andò subito
a perdere nell’anima spugnosa della vecchia.
Ma ecco! La giovane vicina, sempre cantando
quel successo degli anni ’60 aveva finito e sulla
veranda, nel punto migliore per l’osservazione
dell’anziana, c’è una sedia a dondolo con accanto
un piccolo tavolino di vimini cosparso di riviste.
Sorridente e appagata la giovane si siede,
distende le gambe, si stiracchia strizzando le palpebre,
allunga una mano verso il tavolino, rovista un po’ tra i giornali,,
impugna una pistola, infila la canna in bocca e preme il grilletto.
II
Gli inquirenti alla testimone:
- Signora, non ha per caso notato qualcosa di strano
ultimamente nella sua vicina?
- No che non ho notato niente di strano! Che c’era da notare?
Era tutto normale. Ma voi promettetemi che lo prenderete
al più presto quel bastardo assassino che ha ucciso la mia
giovane vicina.
- Ma, signora, non c’è stato un omicidio, la sua vicina si è
suicidata e su questo non c’è alcun dubbio; ci sono tutte le prove,
i testimoni e lei è la principale.
- E io vi ripeto che non si tratta di suicidio, ma di omicidio.
Qualche delinquente deve essere entrato dal retro, lei deve
averlo visto si è messa a urlare e quello, sicuramente alle
prime armi, preso dal panico le ha sparato.
- Signora, per l’ultima volta: la sua vicina si è suicidata.
- E io vi ripeto che non è possibile.
- Ci dica una buona volta perché non è possibile.
- Non è possibile perché in tal caso voi non stareste qui a parlare
con questa vecchia in quanto quel colpo avrebbe ucciso anche me.
- Cosa vuol dire signora: avrebbe ucciso anche me?
- E’ proprio così, quel colpo ci avrebbe portato via insieme, perché
la mia vicina, con cui non ho mai parlato, la mia vicina era parte
di me, anzi era me, anzi la mia vicina ero io.
Id: 18713 Data: 18/01/2013 12:02:02
*
Cana
Non fa altro che bere.
Questo l’unico suo pensiero
di mattina, pomeriggio
e nelle notti severe.
Ma quello che fai
con metodo e rigore
lo attraversa la passione,
è un’altra forma dignitosa
che può assumere l’amore.
Non accetta consigli,
sa che sono solo
subdole consegne,
surrogati dei figli non nati,
solo rogne.
Si gira maligno, e fa bene,
a chi spaccia camuffate le sue pene
in pelosa, ottriata saggezza.
Se non lo sapete,
conferisce una saviezza
il distillato
che liscia come il marmo
il cuore di un alcolizzato.
Il tempo che rimane immobile
per i sobri è insopportabile.
Loro che vanno, data la corda al corpo
mentre l’anima pende spoglia
al legno secco di un uomo morto.
Vede l’arcobaleno
attraverso il caleidoscopio del bicchiere
sempre vittoriosamente pieno;
del vuoto sposa gli estremi con mestiere
nell’abbraccio prismatico alieno.
Non chiedetegli mai perché lo faccia
perché abbia sempre quel poker sulla faccia
che vite convoca in permanenza
in un assorto concilio di dèi.
Vi risponderebbe un poeta più che divino:
“Bevo per dimenticare l’acqua
che alle mie nozze
non fu mutata in vino”.
Id: 18656 Data: 15/01/2013 17:12:13
*
Su un verso di Pedro Blancuda
Más que con el trabajo de su ausencia
nosotros el amor hirió con su presencia
Pedro Blancuda
La sangre de los amantes
dalla raccolta El escándalo del amor
Io so che mi ami
perché ad ogni mia battuta
la tua risata non nasce dalla gola
ma sale ad essa umida del tuo sesso
bollente delle tue viscere
vibrante del sobbalzo che la mia voce
imprime al muscolo nel tuo petto.
Se vivesse cento vite
tuo marito non riuscirebbe
in un’impresa come questa.
Io so che mi ami
perché passi le tue notti sveglia
a pensarmi, a immaginare la tua vita
con me se ci fossimo incontrati
prima di rimanere ingolfati
nel traffico delle nostre famiglie.
Io lo so perché quando mi saluti
all’arrivo o al commiato
riesci sempre ad aggiungere
al gesto consentito
uno sfioramento leggero del mio braccio
o della nuca; a trattenere i tuoi occhi
nei miei per una frazione di tempo in più,
incalcolabile perfino dal più costoso
dei cronografi di tuo marito.
Io so che mi ami
perché a volte vuoi illuderti
che sia solo un capriccio
o la noia.
Io lo so dai tuoi lapsus
quando ci troviamo tutti riuniti,
quando devi dire un altro nome
e pronunci invece il mio.
E perché quando conti i tuoi figli
manca sempre quello
che somiglierebbe a noi due;
e quando prepari il caffè e lo servi
per il modo in cui mi dici:
questa è la tua tazzina.
E ancora lo so per il disappunto che mostri
quando arrivo inaspettato
e non hai avuto il tempo di farti bella per me.
E lo so anche da quel capodanno
affollato di larve tutte sfatte
quando scoccata la mezzanotte
al momento degli auguri notai
con quanta maestria trovasti
un posto sicuro di fronte a me;
perché in quella occasione
l’abbraccio era senza sospetto
e ti preparasti a riceverlo,
inarcandoti un po’, timida,
gli occhi chiusi, con le mani
giunte sul grembo ed io, io
non seppi approfittarne,
per andare un po’ oltre,
timido adolescente anch’io.
Io so che mi ami
perché quando tuo marito
digerisce frutti di mare
dimenandosi tra le tue gambe,
dietro le tue palpebre chiuse
vedi noi due su una spiaggia dorata
e me che ti accarezzo i capelli
e con un dito seguo la linea delle tue labbra.
Io lo so che mi ami
perché sai che se avessi incontrato me
nel tempo dovuto
non ti avrei tolto la verginità
ma avrei scambiato la mia con la tua.
Io so che ti amo
perché è la verità;
perché quest’amore è un solo
incessante urlo di disperata felicità.
Id: 18567 Data: 11/01/2013 09:15:10
*
Tutta la sua vita
Faccio visita a mia madre.
Ha l’Alzheimer.
Siede sul divano
nel salone dove
tornato mogano
dopo il restauro
irradia fiero a sfida
il suo silenzio
uno Schmidt & Dauber
del ’23.
I tasti ormai sono denti
che ballano negli alveoli
di una bocca che non riuscì
a trovare la sua melodia.
Prendo posto
accanto alla donna
cui devo l’enigma
della mia vita.
- Ciao mamma, mi riconosci? Chi sono io?
Esita; sorride indifesa e interrogativa
come per chiedere di non essere presa in giro.
Poi risponde decisa.
- Tu sei Domenico, sì Domenico, il figlio di Rachele.
- No mamma, non sono Domenico, sono il tuo primogenito, sono un altro, chi
sono io?
- Sì, tu sei un altro, un altro!
- Volevo dire che sono un altro, cioè un’altra persona, con un suo nome. Qual è il
mio nome?
- Perché ti prendi gioco di me? Il tuo nome è Paolo, il fratello di mio marito.
- No mamma, io non sono Paolo, il fratello di tuo marito, mi chiamo diversamente.
- Allora ti chiami “diversamente”, è un bel nome “diversamente”.
Andiamo avanti così per un bel pezzo
e mi affibbia altri venti, trenta nomi,
tutti punti brillanti, mi accorgo, della
memoria rimescolata del suo passato.
Ma quando non ne posso più e comincio
a pensare di andarmene, dopo aver guardato
fisso davanti a sé per qualche secondo,
punta intensamente gli occhi nei miei
con una serietà che inquieta e con una
voce metallica che fa un po’ paura mi dice:
- Tu sei Pietro.
- Sì mamma, sono Pietro ma Pietro chi?
- Io ho molto sofferto per te ma adesso viene la fine.
- Quale fine?
- La fine di tutto.
Poi torna a fissare con gli occhi
socchiusi il vuoto davanti a sé.
Dopo tanti anni, la vecchiaia, la malattia,
chi può dirlo?, l’elenco infinito dei nomi
del suo passato e poi, alla fine di tutto, il mio,
la mia vecchia madre svanita ha trovato, mi illudo,
il modo per dirmi che sono stato tutta la sua vita.
Id: 18458 Data: 05/01/2013 10:46:52
*
La formula
LA FORMULA
Egli afferra tutti
e non c’è chi afferri lui.
Sepher Zohar
Il fedele pastore
Ra’yà Mehemnà
III, 225a
Povero Albert, alla fine che fine!
Il cervello a fettine in giro per gli Stati
Uniti da chissà quale formula finale
e per un mondo anch’esso sempre a pezzi
ma per l’antica scissione: quella sì originale!…
E il resto cenere, naturalmente! Come a Hiroshima
e Nagasaki, e come verbo transitivo il “nucleare”…
E’ profondo, profondissimo; chi lo può trovare? [Eccl. VII, 24]
Alla fine, qualsiasi impiegato degli States
masticando chewing gum era più felice di te
(allo stadio: la formula nel rugby, nel base ball;
ma se non la vedi te la godi, bocca del glory hole,
felicità delle nazioni, brivido delle costituzioni)
lo sguardo di gallina che protegge le generazioni…
E il giardiniere e il giardino coi suoi nanetti
che collaborano all’inganno
e la formula cercata che li ammanetti
(ma anche tu eri giardiniere e giardino,
Albert, non ci pensasti? Cosa ti impedì
di sorprenderti al lavoro?)
e tutti che dicono di crederci ma fingono
e il sarcasmo delle mani di Escher,
il prestigio con cui si autodipingono…
Egli pose l’oscurità come suo nascondiglio[Sal., XVIII, 12].
E gli stewards dell’Hilton freschi di muschio
senza dubbi di sorta àlacri più di te con le cifre:
qui dove Albert segnò la “E” va il beauty case
di Madam de la Santé e dove il segno = prelude
alla massa per “c2” non andrebbe male la cassa
di Ser Cy quello ammalato che viene per svernare.
E la terra era vuota e desolata [Gen. I, 2]
E il consiglio di quell’altro, genio nuovo e buono
di farla scoppiare a una certa distanza dal suolo
la ragazza cannone con tutte mutante e zuoi panni
così si sarebbero volatilizzate tante più mandorle
sarebbero stati molto più memorabili i danni…
Elia prese a dire: Tu sei uno e non rispetto a un numero
[Zohar Chadash 55b-d Tiqquné Zohar]
Povero Albert, non esiste la formula
tanto cercata, la pietra dei filosofi.
Quella dello scandalo sicuramente.
Ma chi meglio di te doveva saperlo
come funziona davvero la mente?
La nube e la caligine è intorno a lui [Sal., XCVII, 2.]
Forse tutto questo è cominciato quando Dio
non ha più voluto, cercato, era annoiato
e qualcosa allora ha iniziato a muoversi
ma era ormai troppo tardi per ricostruire
il processo; si poteva solo seguire la partita
e godersi il gioco del compasso e della squadra.
Ma per quelli come te sempre
c’è qualcosa che non quadra.
Dio non è il fazzoletto del prestidigitatore
che lo infili con un dito nell’altra mano
chiusa a pugno e poi lo tiri fuori all’infinito
tra gli “ooooooh” del pubblico e i battimano.
Dio “è” ed è proprio così che “è”.
Infatti ad alcuni dona persino il genio
ma il resto ama tenerlo solo per sé.
Id: 18355 Data: 30/12/2012 12:56:46
*
Il calendario
Scendo al secondo piano del plesso
che ospita una parte degli uffici,
nel vuoto lasciato dalla Ragioneria
trasferita ad altra sede,
per fumarne una in pace.
In una delle stanze evacuate
- nel silenzio che protesta una passata
gloria di stampanti ad aghi e fervore
di àlacri impiegati - alla parete nuda,
quasi al centro,
un calendario.
Mi avvicino.
Pende a un chiodo
storto, arrugginito.
Ha solo l’ultimo foglio
col mese di dicembre.
Uno di quei calendari delle ditte
che si aggiudicarono un appalto
e dispensarono mazzette ad alcuni,
effemeridi ad altri.
Uno di quelli semplici,
a due colonne, con i feriali
in nero e i festivi in rosso,
come è normale.
Ma qualcuno vi ha scritto qualcosa,
sui righi per l’agenda accanto ai giorni,
in stampatello maiuscolo, con mano
incerta, non avvezza alla scrittura.
Un operaio, forse, o uno dei
facchini spossati dal trasloco
che faceva una pausa rubata,
dopo un panino con la frittata.
Prima di andarsene, l’uomo
volle graffire ciò che sentiva
su quel murale.
Tutta la saggezza che può
attingere un qualsiasi animale:
QUESTO ANNO
NON CI POTRA’
PIU’ FARE MALE.
(riproposta)
Id: 18263 Data: 23/12/2012 10:04:30
*
Auguri
Auguri di tanta salute, grande prosperità e infinita ispirazione a tutti gli amici di La Recherche.
Pietro
Id: 18159 Data: 17/12/2012 13:01:16
*
Santa Lucia
Di’ un cortese silenzio a questa luce fredda,
a questo frusto impero di reperti noti,
nel giorno che vuote alla vergine
lasciarono le orbite
a colmarsi della ridda
dell'antico buio, dei penosi voti.
Resta alla finestra che non luce,
un solo dito non levare: nulla
più risponde all'indice nell'aria immota,
la tua ottava resterà per sempre muta.
I sonagli delle rime belli, i compìti giri
sotto le volte armoniche
disturbano il letargo dei vampiri,
le pubescenze oscene ai pipistrelli.
Fissa senza dolore la lastra
che tramontana lustra, schermo
che deraglia da questo nostro male.
Sorpassa l'astro, transita il suo scherno,
e piove solo lame – ghiaccio che non fonde –
la stella indifferente di Natale.
Non fare che il ricordo di te fanciullo
ti assalga all'ampio davanzale,
anch'esso diaccio, alla vanità della spelonca,
al fiato supposto di un asino e di un bue,
al pargolo Narciso, nato, cresciuto, ucciso…
Nemmeno ascolta la lingua che risale,
- dimentica! - che ti parlò identica
nel mese che il chicco macera,
che di te ancora parla, tu tradotto
a una partita domenicale, ma rapito
sopra i voli alti della sfera,
a piangere le facce delle case
dipinte del vivente sole
( come in croce ) e più su ancora
drappeggiarsi le colline
del liquore di quella stessa luce.
Ma sta’ nell'ombra vera
che è tutto quanto resta
della festa annunciata,
della disfatta promessa e poi sepolta.
Sta’ nell'unica posa, invulnerabile,
nell'intermittenza delle finte stelle
che desquamano la pelle. E ascolta!
Con pazienza animale, ascolta ( tu mondo )
declinare la digestione dell'immane,
insaziato intestino di questo im-mondo.
Augura al sole di partirsi con l'ipocrita
calore dall'incline zodiaco e sfarsi
in mille miliardi di faville.
E che tutto questo basti
a toccare l'alba di domani,
del vero oscuri o adombrati intrighi,
a cernere martirio e noia,
stretti o sciolti gli ombelichi,
con o senza pane, vino ed emozione.
E scorda pure la poesia che cominciasti,
col cantico del grillo, il ruggito del leone:
La polvere dei treni che immortali /
rese le case intorno alla stazione…
(1986)
Id: 18141 Data: 16/12/2012 09:56:16
*
La donna del poeta
Nell’età che il tempo cessa
e accorato stagna nell’abbraccio
di una ardente assoluzione
orfano di me stesso
più di tutto odio ed amo
di lei l’agra compagnia.
Morte è la donna mia
che dall’inizio con tanti altri
mi tradisce e a me giammai riesce
di perdonarle il segreto vanto
che mi ha donato, d’aver fatto me beato
di quell’amore che per darsi non è dato.
(1974)
Id: 18094 Data: 13/12/2012 07:49:05
*
Amo gennaio
Amo Gennaio. non la sua grave promessa.
Amo il mese famulo dell'anno,
il pallido reduce del solstizio.
Amo l'umile usciere dell'inizio
che con la sua, con ciò che gli rimase,
fece degne ad altri undici le case.
Amo il mese che un prodigio
di silenzio onora, amo l'ora
per tutte le ore serrate
come l'ala calda dell'uccello
che serba occulta la favilla
che incendierà l'Estate.
Venero l'avo che mi fece erede
dell'intatta differenza di ogni dio,
che consola chi non conforta fede,
venero il maestro muto dell'oblìo.
E per come passa e scompare,
per come se ne va composto e senza affanno,
ancora di più mi piace e stringe,
per il disgusto delle maschere che finge
nell'orgia illusa Carnevale in danno,
di come l'accolta sua ebbra dipinge
le favole ritrite che comporranno un anno.
Id: 18013 Data: 08/12/2012 12:33:30
*
La forza del destino
Nel piccolo giardino tuo padre
allevava rose scarlatte
ma la megera del secondo piano
con la candeggina
regolarmente gliele bruciava.
Lui non poté nulla all’INA Casa
e così prese a nascondere le lacrime
nel piccolo soggiorno.
Io, talvolta, cercando il posacenere
nella penombra lo scoprivo -
le braccia al soffitto levate,
una smorfia la faccia -
imprecare a bassa voce in veneto:
un bambino che non capiva.
Un piccolo giardino,
rose scarlatte bruciate dal veleno,
il pianto del padre bambino:
nel rione popolare era in scena
la forza del destino.
Id: 17923 Data: 02/12/2012 19:19:20
*
Testamento di un fumatore
Mettete una stecca della mia marca preferita sotto le mie dita giunte sull’addome quando il momento sarà venuto.
Mi raccomando: quelle senza filtro come senza filtri avrò vissuto. Basterà per essere contento.
Perché l’attesa continuerà, ne sono certo. Mi ha fatto esperto la vita, quello che resta ancora giocherà l’eterna sua partita.
E come ho lasciato scritto non in una bara ma su un dritto cumulo di legna, un’ara alta e degna d’ardere, come negli anni sono arso.
Così mi piacerà d’essere scomparso. Mentre altri infiniti polmoni mi aspireranno io aspirerò con loro; bruciando con le mie bionde, trasformerò le nuvole di fumo in delfini ruzzanti tra le onde.
Cenere e solo cenere è tutto l’oro che mi riuscì di accumulare mentre morte mi aspirava forte tra le sue labbra stretto e l’essere mio imperfetto non sapeva cosa gli toglieva il cielo mentre solitario bruciava, la mente chi acerrimo e perché ciecamente lo consumava.
Id: 17882 Data: 30/11/2012 12:06:17
*
Al mio cane Fado
Non credevo di poter scrivere di te
anzi, di poter ancora scrivere.
Sognando una torta di mele degli anni '70
la vita scorreva ancora tra le mie sponde brulle
indifferente.
Ma a volte concludi che se non le cose,
gli scorporati creduti assenti puoi nominare senza errore
o colpe flagranti perché con la stravaganza di un satellite
poligamo scelgono l'ora sfuggente e per te reinterpretano
(che non credevi di poterlo più tentare) la luce impenetrante
del faro imperturbabile.
Credo che proprio la luce sia madre della polvere,
il fallimento della sua cosmica pietà, o di questa l'ultimo senso, se polvere era…
Due che cercavano un ricorso a un tribunale
soppresso e non sapevano che le loro aure si congiungevano
intanto nel cerchio magico per la tua evocazione e così tra le
dita la molla arcana infilò il rettangolo dove sopravvivevi…
E quindi sei apparso, o non tu, la tua proiezione siderea
dall'evanescente pennello o alito che sul nudo vetro di sempre
fa comparire le terribili tenere impronte che da qualche parte in me
macerano, lottizzano il fegato dopo aver sezionato l'aulica pompa.
Pertanto, anche se sono sempre di più i meno e per fortuna
in rialzo i crimini contro l'unanimità, adesso sono qui assorto all'eco della retina
di un tuo pintore che non sapeva quello che fotografava.
Ecco che nell'unica foto (l'ultima di un rullino
da completare sono certo), intrusa in un mazzo già troppo scomposto
da dimenticate ricerche, di attimi che ingialliscono al sole extragalattico degli album, mi appari come se il flash soffio di vento improvviso avesse vorticato a ventaglio il tuo vello di sabbia intorno al centro focale dell'irriverente tartufo.
Perso il negativo, spero distrutto, anche questa è immortalità sull'olimpo della mia tanto attuale calvizie.
Non so nemmeno con quale terra adesso si mescoli il miele della tua cenere, mio levriero, del colore che se ne avesse uno sarebbe quello di una dissipata adolescenza nel sole. La mia ignoranza mi autorizza a venerare il tuo spirito. Dico spirito non la torbida anima intasata che il catechismo ti nega, poiché ulula ancora sulle nude interiora del mondo che in tua vece abito, in questo volgere divisato, diviso, resto zero delle cose ultime.
Perché levassi la testa alla luna preannunciando la pece ribollente, l'inizio impercettibile dei cataclismi a piè dei pilastri dell'impermanenza – i cosiddetti fondamenti – mi sono chiesto per infinite sieste commosse dalla tua assenza.
Ora so che il circolo si chiude, si tiene un mondo bene o male, bastando un astro e se gli fa eco un cane.
L'odore del tuo mantello, di boschi prossimi a una Thule, si plasmava ai serpenti d'aria… medusa che resuscitava…
Rotolarti estasiato nelle feci disseminate da un gregge appena trascorso, negli escrementi fumanti delle sapienti vacche retrograde poteva appagarti del tutto e alla fine ne eri disfatto, sfinito come nemmeno una donna che ha appena partorito.
Figlio di un tappeto volante e della mia infanzia tetraplegica nella tua veglia sorvegliavi le rapide della mia reverie, nel tuo sonno avevi ancora fremiti per me.
Quello che tu sapevi io presagivo, come può un'ombra separata dal corpo.
Tu freccia scagliata negli ombelichi palpitanti di quei giorni, di quel tempo interrogato in fermaimmagini vibranti attraversati da una striscia tecnicamente non eliminabile e tra corrucci veementi.
Quello che io e te sentimmo lo ululammo irosi ai quattro cardini e agli ottantaquattromila insegnamenti.
Id: 17810 Data: 26/11/2012 18:19:40
*
Se venisse la morte
Ora, se venisse la morte ora,
sarebbe come una primavera.
Intatta è la vita, eppure approdata
alla confusa doppiezza del bivio.
Se lei giungesse adesso, qui intorno,
con la tristezza che merita perdono,
siederei nella brezza dell'ultimo
giorno, come nel principio
del primo mattino, a rimestare
la cenere mia, un piccolo mucchio
raccolto ai miei piedi, assetato
di un segno sottile, di una minuta
memoria sbiadita.
Se venisse la morte, ora, saprei
già come fare: serve intera la vita
a informarci del fatto.
La morte è la serva di tutti, di tutto.
Se il commiato è concesso
è solo perché da allora
in vece nostra lei deve dar conto,
con silenzio profondo, del vuoto
di prima, di adesso, di sempre,
di tutta l'assenza del mondo.
Id: 17783 Data: 25/11/2012 09:46:19
*
Pellegrine di sé stesse
Ceduto il sangue al cielo
per dire: sanguina un tramonto,
lo sfacelo silenzioso dell'incendio
che la nostra tiepida rovina
peserà sulla stadera
dell'ultima dubbiosa sera
E la voce, la voce a un vento
che querula soltanto
l'infamia muta del silenzio.
E quindi l'innocenza
ad una flatulenta primavera
e confidenza al piombo di Saturno
che lontano la esilia a sfarsi
nel deserto dove grava
per il sole un'ombra sua
incisa di defisse.
Perché dunque meravigli?
Le anime nostre sole
che asfissia un gorgo
d'echi di sé stesse,
le domande non placate
dopo essersi cercate
assetate pellegrine di sé stesse?
(primi anni '80)
Id: 17745 Data: 23/11/2012 16:51:32
*
Il sogno che feci
Questo è il sogno che feci verso l’alba,
al termine di una notte senza stelle
e con la luna che altrove si preparava
alle nuove fasi del suo vecchio ciclo.
Ero bambino, due o tre anni, in braccio
a mia madre e sedevamo nella sala d’aspetto
di uno studio medico e c’erano almeno un’altra
ventina di bambini di quell’età, tutti maschi
e ognuno era in braccio a sua madre.
Lo specialista che ci doveva visitare
era anche colui che aveva ingravidato
di noi le nostre madri – eravamo piccoli
ma questa consapevolezza stringeva
i cuori di tutti noi con l’altra: che quel
medico era anche lo stesso che aveva
preso il parto.
La sala d’attesa era in penombra
e tutti tacevano – una ventina di bambini
piccoli che non piangevano. Ma, attraverso
la finestra, dalla strada giungeva come
la recitazione di un rosario in una lingua
che non conoscevamo e così, senza alzarci
per guardare – hanno di queste economie
i sogni – sapevamo che quel mormorio era
prodotto dalle bocche di uomini barbuti che
in fila per tre procedevano lenti
ognuno leggendo da un grosso volume.
Questi vestivano di nero, con cappelli neri
e avevano la coda, una coda nera e pelosa.
Noi bambini sapevamo anche che in qualche
modo quegli uomini avevano a che fare con
lo specialista che ci doveva visitare.
Ma quello che di più mi colpiva nel sogno
era lo sguardo delle madri.
Io non ho studiato ma ricordo che una volta
in un’altra sala d’aspetto tra le riviste
per ingannare l’attesa ce n’era una d’arte
medievale con tante illustrazioni di madonne
con in braccio il figlio e mi sorprese molto
che ognuna di quelle madonne guardasse altrove,
che nessuna posasse lo sguardo sulla sua creatura.
Spesso in televisione danno film in cui
la polizia scientifica con il laser riesce
a individuare la traiettoria dei proiettili;
quel raggio rosso può dirti con precisione
la direzione che un colpo ha seguito.
Dico questo, perché se dagli occhi delle nostre
madri in quella sala fossero partiti raggi,
questi non si sarebbero incontrati.
Però nel sogno sapevamo, voglio dire,
tutti noi bambini sapevamo, che le madri
guardavano tutte nella stessa direzione.
Arrivato il suo turno ogni madre col suo
bambino entrava nello studio e dopo un po’
ne usciva da sola con lo stesso sguardo
di quando era entrata. Sembrava che per
ognuna nulla fosse cambiato.
Quello che feci quando fu il nostro turno
non lo avevo proprio sospettato. Convinsi
mia madre a lasciarmi andare da solo.
Così entrai nello studio quasi completamente
al buio. Dopo un po’ mi abituai a quella
oscurità e cominciai a intravedere una sagoma,
poi la luce cominciò ad aumentare sempre
più velocemente; lo specialista, che era seduto
su una scrivania, con un balzo fu a terra e veniva
verso di me distendendo le braccia ma questo
mostro in camice aveva un solo occhio in mezzo
alla fronte e per giunta senza pupilla…
Mi svegliai urlando. Mi calmai e cercai di riprendermi
del tutto. Albeggiava. Nella stanza accanto, mia madre,
ormai quasi completamente cieca, seguiva il rosario alla radio
e in strada – questa volta dovetti affacciarmi per saperlo –
non c’erano uomini barbuti salmodianti vestiti di nero
che in fila per tre procedevano lenti ognuno leggendo
da un grosso volume, e tutti con una coda nera e pelosa.
Probabilmente erano rimasti nel sogno a vivere di quel sogno.
Dopo un po’ cercai una penna, tolsi dalla parete
l’immagine di una madonna che guardava altrove
con in braccio un bambino con un solo occhio in
mezzo alla fronte e sul retro presi nota di tutto questo.
Id: 17698 Data: 21/11/2012 09:16:00
*
Bambini a colazione
Il temporale si allontanava
con gli ultimi colpi di coda
come uno che ha fatto la sua sfuriata
e mentre se ne va ripassa a mente
quello che ha detto
e ogni tanto si ferma, voltandosi indietro
per mandare qualche ultima minaccia,
ultimatum, avvertimento, prima di richiudersi
la porta alle spalle e scomparire.
Noi ce ne stavamo in silenzio a letto
che è un’azione pesante
perché più lo nutri il silenzio
più questo ingrassa e il suo peso
diventa intollerabile
se non sei macrosplancnico come lui.
Il problema era che lo avevamo fatto
già alcune volte e non restava che
riposare sull’oblìo degli orgasmi
che d’oblìo sono fatti a garanzia
della loro fattoriale moltiplicazione.
La stanza però era giusta e così la casa
e venivamo da una mattina di merda
da una situazione di merda, in una città di merda,
tanto per fermarci alla storia più recente,
e la realtà mostrava nocche e muscoli superbi
contro le nostre schiene disfatte
o più in generale le nostre disfatte.
In questi casi sempre si fuma un po’
e dopo un po’ ci si interroga
sul perché delle sigarette e si conclude
che è più facile smettere un amore che il vizio
e si vuole stare male e tossire da perdere gli occhi
perché quella casa che sogni da una vita
l’ha comprata uno che mangia bambini a colazione.
Anche quella che è con te c’ha i suoi problemi
e li vede sullo schermo del soffitto
su cui scorrono come divi dell’accanimento
e sotto la sua pelle la cellulite sta avendo il suo
progressivo trionfo e le rughe non dovrebbero
accampare diritti vista la non vissuta giovinezza.
Qualcosa quindi si dovrebbe, potrebbe fare.
Mangiare bambini a colazione, p.es., rapinare
uno diventato ricco e famoso anche se o forse perché
canta con la voce di un’anatra e pagarsi una beauty farm…
Ma stanze come questa sono fatte apposta
per mantenere lo status quo.
Sono a buon mercato, sotto la finestra
hanno una sedia, un tavolino dall’unico cassetto
istoriato coi ‘ricordo’ di quelli di passaggio;
uno è persino scritto in un alfabeto fatto di
asterischi e forse della stanza ne parla bene.
Stanze come questa alle pareti esibiscono
le opere di tizi che nella sua infinita fantasia
la morte elesse giovinetti per coglierli alla fine
nell’estrema estenuazione del delirio d’essere artisti
e possiedono, se la sai vedere, la dignità di chi
per contrasto svergogna alto nel tribunale del cielo
il disonore di tutto il resto.
Stanze come questa sopravvivono al cataclisma
di ogni giorno e sono abitate dall’indispensabile.
Un tizio, una tizia e la visita di un temporale che
fa tanto rumore perché non ha niente da dire, perché
di stanze come questa non sopporta il silenzio e il fatto
che qualcuno le possa abitare senza lamentarsi.
Così ci massaggiammo un po’ la schiena
a vicenda, immaginammo di fare una doccia,
ne fumammo un’altra e con cautela lo facemmo
un’altra volta mentre dalla finestra il preistorico
odore della terra bagnata ci riportava a un altro
dopo-temporale come questo, ma dell’infanzia,
ormai sepolto sotto l’oblio nostro e quello del mondo intero.
Id: 17646 Data: 19/11/2012 09:42:52
*
Così un minuto prima mi infastidì la morte
Fa' presto - disse - ho i secondi contati.
Va bene scrivere gli ultimi versi scontati
ma fra poco scoppieranno le bombe
e l’ultimo degli attentati mi porgerà
molto, molto più di un’ecatombe.
Temo il tempo più di voi,
che per me lo temete, e sono guai
se quelli saltano in aria
senza il mio aiuto, non si può
ripetere la scena e sono stata scema
a concederti un minuto.
Senza di me nessuno può vivere
perché senza di me nessuno può morire
e me ne sto qui ad aspettare.
Io non sono un animale e tu non sei Orfeo
sbrigati e facciamola finita, le strofe falle più corte.
Così un minuto prima mi infastidì la morte.
Id: 17610 Data: 17/11/2012 12:31:54
*
Provvidenza
Non era vita la mia.
Percosso con metodo da bambino,
il miracolo di crescere senza una festa
a dispetto di quei colpi sulla testa.
Di nascosto un frate
mi insegnò a leggere, lui e io
e qualche pezzetto comprensibile di Dio.
Troppo presto dovetti lavorare
ed erano chilometri sotto il sole ansiosi
andare e venire tra serpenti velenosi.
In mezzo le ossa scricchiolavano
sotto ore di piombo fuso, fino al giorno…
Fino al giorno che l’albero segato
finì sulla mia gola e chissà perché
mentre quello premeva spietato
il senso mi attraversava di una nuova
confidenza: sulla corteccia prima di andarmene
mi sembrò di leggere la parola “Provvidenza”.
Id: 17536 Data: 13/11/2012 11:24:27
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Il gaio il saio il marinaio
E' pregno il mare
solo del nostro sale
e le vele dal caso sperse
sui flutti disabitati
nutrono il grido
altissimo del silenzio.
Fondammo a riva un villaggio
[deserto
perché lo Spirito ama
le indesiderabili
[dimore
l’anima il corpo, l’anima quello.
E’ bello dal simile
compiacersi nel diverso
disperdere in un inverso
pelago il Verbo.
Ma se d’improvviso disserri
la porta d’inverno
alla casa sul mare
alle pareti il ricordo
del sole è una tela.
Conosci allora come
dei viventi un’eco
che si strugge lontano
e della morte puoi
piangere per la morte.
Ma questo in tre soli lo sanno:
il gaio il saio il marinaio.
Id: 17451 Data: 08/11/2012 17:39:10
*
Un colore che non muore mai
Va in ufficio con un abito di lino blu.
Una collega gli ha detto che il blu è un colore che non muore mai.
E’ il quinto ufficio in ventidue anni. Ha speso gli ultimi spiccioli di conoscenze per ottenere il trasferimento e per ora le cose vanno bene.
E’ un assessorato senza assessore, per il momento. La vacatio giova a più d’uno. Qualcuno studia, altri fanno politica al telefono. C’è una che dopo aver lavorato sodo per anni al suo avanzamento si è vista soffiare l’incarico da una tipa davvero scaltra che si gode l’altrui raccolto. In compenso le è concesso di non fare nulla.
Arriva tardi, un po’ impettita, per lo più legge il giornale, recrimina e spesso gli racconta del matrimonio di una figlia, di quello imminente dell’altra, delle spese che l’hanno svenata, del marito di cui si innamorò la morte.
Non conosce la grandezza del regno che le è stato donato.
Lui ha lasciato l’ultimo ufficio perché l’invisibile capocomico lo aveva scritturato per una farsa in cui faceva la parte del terzo incomodo.
Ad alcune impiegate di qui piace, di quel piacere che non morirà mai in un letto o forse si annoiano soltanto.
Non hanno quasi nulla da fare.
Come la maggior parte, fingono di essere vive.
Passano ore al telefono, chiamano i figli a scuola, un’amica, leggono spazzatura, invidiano ad alta voce qualche collega pensionata.
Standosene sulle sue lui le costringe a chiamarlo con una scusa. Loro gli offrono un caffè, gli chiedono dei suoi matrimoni, se è ancora in contatto con la sua ex e, nel caso, se la sua attuale moglie lo sa.
L’ufficio di adesso è all’ultimo piano di un palazzo storico sul corso centrale della città.
C’è un lungo corridoio con un bagno alla fine. A metà, un passaggio in penombra apre su due sudice rampe di scale che portano alla terrazza, grande cinque o sei volte il suo appartamento in fitto. Ci va spesso a fumare e porta sempre con sé una penna e un po’ di carta per scrivere.
Si è in alto, a un’altezza condivisa da altre altezze, di colonne impavide d’aria, di infinite terrazze, che l’intensa luce impallidisce, di tornei di nuvole bianche come spuma da barba e uccelli che scelgono padroni il prossimo atterraggio, una base per le future ebbrezze …
Le altezze si godono in silenzio la loro aristocrazia.
Sono ironiche, con stile, quando non sono sarcastiche, con classe.
Di sotto, il mondo brulica di vite mediocri e una di queste indossa un abito di lino blu,
un colore che non muore mai.
Id: 17344 Data: 03/11/2012 10:42:51
*
Si immaginò la morte
Un colore che non somiglia a nessun altro
come lo stendi davanti alla platea innumere?
Il mondo vuole l’immagine del cerchio
la somiglianza del giro a vuoto per gridare ‘dio’
sulla testa dei vicini, per i patti coi lontani.
Un colore che non somiglia a nessun altro
non si può partorire, arroventa l’alfabeto
fino a fonderne le lettere del tutto, in tutto.
Un colore che non somiglia a nessun altro
a niente somiglia.
Perciò si immaginò la morte
come uno sparecchiare la tavola.
Il pranzo o l’ultima cena sono finiti.
In alcuni piatti non è rimasto nulla,
in altri affiorano bocconi frastagliati,
i bicchieri e le bottiglie sono svuotati,
le fette di pane mutile a caso
e un senso di disfatta o di fine delle ostilità
si è impadronito della scena.
Si immaginò la morte come quelle mani
che si infilano tra le teste di chi ha finito,
leste decise e serpentine e, sopra, facce
severe e contegnose da musicanti
che suonano per l’ennesima volta
un pezzo logoro del loro repertorio…
Quelle mani che piombano tra le teste
dei commensali e non badano a nessuno,
solo a liberare la tovaglia che poi sarà scossa
per ripulirla dalle molliche e poi come un sudario
sarà lavata e profumata per il prossimo
pranzo o la cena che non sazierà.
E alla fine si immaginò la malinconia
di chi deve alzarsi per chissà dove e prende
dalla tovaglia prima che sia levata
ancora qualche briciola e la tiene tra i denti
e poi la biascica piano mentre nella sua mente
si affollano i quadri di tutti i pranzi e le cene
che prima di quell’ultima volta non lo hanno
saziato e invece di riempirlo lo hanno svuotato
perché così ci si deve sentire dopo ogni esistenza
dopo la farsa sfinita di ogni sopravvivenza.
Id: 17276 Data: 30/10/2012 15:28:12
*
Ti ho portato dei fiori -sulla tomba di mio padre-
Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?
[...] Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me
Giovanni, XIV, 10-11
Ti ho portato dei fiori e chi li ha scelti
- non io che non tollero i mucchi -
mi ha garantito che sono i più giusti.
Uno dei miei miserabili trucchi,
un colpo segreto, mentre senza il coraggio
di un Pater mi accingo a passare
una minuzia di tempo dove la stagione cerne,
declinando, le tue, le sue ceneri, trasmuta il sorriso
del teschio dietro un marmo di cui posso
[contare i pori.
E’quest’ ultima luce, il suo immoto ansimo
[polveroso.
La luce ha ancora qualcosa da dire a quest’ora,
il meglio della sua sapienza quando muore
e va a posarsi su quello che resta di una cosa.
La vita che dividemmo, come è giusto, ci divise,
e questo non è poi diverso da uno di quei silenzi.
Che io avessi terrore di te era normale
ma che tu ne avessi di me era il mistero,
la quadratura del nostro male.
Cos’è che adesso mi fa sentire la tua mano
sulla mia testa, confusa più d’allora?
A che serve questa pietà sterile di pianto?
Per una vita cercai un canto
che frantumasse il ghiaccio e nient’altro
adunai che gli scomposti gesti di un muto,
i resti di un desolato, insipiente amore.
Trovai un muro e lo chiamai:
[il mio assoluto.
Come un bambino povero monta su un copertone
e con la bocca pietoso imita il rombo di un motore.
(riproposta)
Id: 17229 Data: 28/10/2012 09:15:52
*
Axis mundi
Il cicaleccio su Atlantide dura ancora
e tutte queste porcherie sotto il carro dell’ignoto.
Chi stira così bene i piccioni?
La leggenda si liscia la barba
unta dai nostri polpastrelli
bruciati dallo sfogliare le pagine
della grommosa rivelazione.
Allo scoccare della mezzanotte
ha gonfiato i palloncini delle anime
e non le resta che attendere
l’afflosciamento nelle ventiquattro ore.
Intanto inganna l’attesa leggendo il futuro
nei fondi degli autodafé.
Anche oggi il big bang
avrà le sue proiezioni infinitesimali
negli infiniti orgasmi
silenziati nelle cieche viscere planetarie.
Il vecchio impazzito sulla teologia
grida la sua apostasia
chiamando impronte
quello che altri definisce disegno.
Da qui sopra la città è perfetta
nel suo calcolato disordine;
sabbia un tempo bagnata
colata da una mano accidiosa
a levare un’umida babele
poco lontano da una logorata battigia.
Tutte queste porcherie e solo
per oltraggiare senza saperlo
la consegna del tempo carceriere
che lascia fare
perché sembra
non essere più d’accordo
col datore delle ore.
La donna discinta
che esce sul balcone
all’ultimo piano
apparentemente per stendere panni
ma con la speranza di essere guardata
sta chiedendo dei massimi sistemi
e allo stesso modo
l’allarme che da un’ora
non smette di singhiozzare,
l’abbaiare ininterrotto di un cane
disturbato dal divenire
e quelli che davanti ai bar
fanno la sentinella alla scempiata
inedia dell’ombra loro desertica.
La radio gracchia che Elena
non è stata ancora liberata.
Scoppia di salute la guerra
e pure la lonza della dialettica.
Faville del fuoco su cui siamo seduti
vengono scambiate in cielo
per segni di un’imminente salvezza
e l’ultimo filosofo
(o l’ultimo dei filosofi)
dalla sua macie e senza più naso
appollaiato sulle comode spalle
di Platone e di Tommaso
alla fine di una anoressente scepsi
pontifica che vista dall’alto
non da così vicino
la vicenda del lupo e dell’agnello
è buona anche per l’ovino.
Visto che funziona in quel certo modo
la cosa deve essere necessariamente ben fatta.
Ogni volta che prendiamo una sigaretta
agitiamo un po’ il pacchetto,
contiamo quelle che restano,
per regolarci.
Non possiamo fare lo stesso la mattina
quando ci alziamo
coi giorni, coi giri
che ci restano ancora da percorrere
intorno all’asse del mondo
mai pago, mai in calore,
ebbro di un qualsiasi amore
per spiantarsi dalla sua fossa senza radici
e muovere qualche passo con noi,
per riscaldarci, per fumarne una in compagnia.
Id: 17186 Data: 25/10/2012 18:22:45
*
La corrida
Accadde a un fanciullo dopo la corrida lo sconfitto toro scoprire dimezzato appeso all'asta della folla inferocita. Così, pensò il fanciullo, ad ogni vita l'eguale dovrà pure accadere che uno contento vi pianti la sua lama e dello squartamento lasci ai demoni il piacere.
Id: 17122 Data: 22/10/2012 16:11:38
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E tutto quello che ricordo
Da Settembre ero io di Ostman Fuss Reiter, (Neuhaus 1920-Weissenstein 1954) I E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:il battito del mio stesso cuore mi feriva. Veniva ognuno con in tasca la combinazione [vincente. Fossero parole ispirate o cifre tradotte da dissepolte clavicole, la faccia diceva tutta l’elezione che parava il carnevale [della loro agonia. E i loro figli crescevano invincibili come nomadi che assediano regni sedentari per tenerne lo scettro promesso. Ammazzavano altri figli distratti dalla perplessità, resi inermi dalla astuta strategia dell’amore, perché anche l’amore ha da lottare per la sua sopravvivenza e scava languido - mentre finge di morire - trappole per teneri cerbiatti. Se me lo chiedi, non so risponderti altro. E’ tutto quello che ricordo di quel tempo: il battito del mio stesso cuore mi feriva. Provai rancore per Dio mentre era vivo, e lo stesso continuai a sentire dopo la sua morte ed anche questa, conclusi, è una forma dell’eterno. In quel rancore mi avvolgevo e nella nicchia che Lui lasciò – perché Dio se muore non lascia resti – fingevo di dormire e respiravo rancore e gli animali non si avvicinavano: quelli feroci mi osservavano da lontano, con contenuto ardore, [come per imparare… I battiti del mio stesso cuore mi ferivano e Settembre ero io, una delle vesti di Lei, opaca, che con metodo fermentava graduale oppio a narcotizzare le radici ingenue del mondo descritto nel volume delle foglie d’autunno. Il mese che gli altri undici temono, il nove, lanterna alla pena della vana trasmutazione, cifra del vagito e della muta esalazione. Aprile, il suo speculare, dai subitanei corrucci, l’antesignano della gloria solare, leva lento la luce che dorerà tutte le cose che l’inverno ha franto e ogni frammento [all’altro si risalderà. Ma Settembre… Annuncio finale, più calvo d’ottobre, marcisce la perla, ne fa polvere che va persa nei ghiacciati cunicoli dei mondi. II Allora non precipitai io nel silenzio, fu lui a sprofondare in me. L’afasia dell’acqua trovò una acconcia valle per insegnare l’arte dell’affogamento e dimostrò che il liquido è l’idiozia vincente dell’assoluto, la sua forma naturale: trova un vuoto e lo riempie… A voi della mia stessa stirpe odissea l’offerta di quella fine perché infine ricordai in un punto stellare che vaniva la sorella endura alle inospiti plaghe del Nord sui carri gravi della nostra notte cieca d’astri. Razza che il deserto piegò e gli diede un nome – votata al dio vento che passa tra i fiori - ; razza che altre attraversarono mischiando la loro ventura alla sua; ospite razza, quale una grotta del primo mattino ti facesti pozzo che aduna naufragi di sangue dai quattro cardinali; razza che ad altre innumeri ti ammogliasti nel fremito latteo di intraducibili orgasmi – ricordai l’attesa profonda nel sonno dell’ululato, la sua curva, dapprincipio esitante, modulazione salire dalle viscere che alle corde tese della gola levarono il celibato di un’estasi marina ai soli… Poi l’ultima domanda fu per Lei cui si inchinò la luce. Soffiava un vento caldo che si era inebriato di corpi senza legge e ben disposto per qualsiasi inizio o fine. Càlati, le dissi, su me non come il velluto della notte su un giardino fiorito di fontane che cantillano distici di freschezza; non come un crepuscolo distilla preziose le stille lucenti di Vespero, ma con quello che della tua carne ha fatto per tutto questo giorno il sole sul mio nome che ti pervade come un vento perso nel labirinto di riarse grotte che il tuo desiderio perenne scava. Poi tienimi in te per il tempo dell’antico patto e partoriscimi infine come una pura sillaba d’infinito. Ma non era più quello il tempo di una preghiera di tal nome. Si alzò un vento fresco, di quella freschezza che dischiude porte al feretro e all’appagato mormorio di liberati congiunti. Credete che a torto fu detto il basso uguale all’alto e l’alto al basso? Allora non sentii più i battiti del mio cuore e quelli di qualsiasi altro cuore nel mondo che fu di Dio; niente poté più ferirmi da allora e non ci fu più sangue, non fui più del sangue io.
Id: 17058 Data: 19/10/2012 08:12:32
*
Per questa luce
Coperto intero è il cielo sopra le nostre teste rare. Non c’è un solo focolare che raccolga la cenere per arrendersi a quello, cospargersene il capo. Ma all’orizzonte intorno si arresta l’orlo delle nubi. E’ da lì che essa giunge come compressa la luce che all’occhio non fa male, d’un ammansito amico sole da un velo materno, solidale sotto la coltre nera dei nimbi. E pare che fluendo annunci non lieti preludi estivi ma: è per me, per questa luce che dal buio voi siete vivi.
Id: 17021 Data: 17/10/2012 08:09:38
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Questosso
Quest’osso non è appuntito alle estremità quindi non doveva acuminato penetrare qualcuno o qualcosa. Quest’osso non è tagliente quindi non doveva mozzare scuoiare ferire sgozzare una gola d’uomo o d’altro animale. Quest’osso non presenta tacche lungo la sua lunghezza per segnare un progresso qualsiasi, un ciclo mensile, fasi lunari; nemmeno ha un foro per infilarvi un filo e farne un ago per cucire le pelli. Quest’osso non è abbastanza grande da poter essere usato come la mascella d’asino che rese il braccio di Sansone vincitore contro mille filistei. Non è neppure un osso di seppia, consumato dalla risacca. Qualcuno centinaia di migliaia di anni fa lo rese liscio col palmo e con le dita. Quest’osso lo levigò, a furia di carezze, - e forse è solo un’illazione la mia – chi ancora non sapeva parlare e volle fare una poesia.
Id: 16981 Data: 15/10/2012 09:51:19
*
Come è potente lamore
Perché cercarti? Sei tutta dentro me. E anche questa presunzione è la tua. Sfoglio un libro sistemo un centro tavola sposto un vaso mi sbarbo mi tocco mi pento dico una preghiera al dio dell’amore mi spacco in due, infine, col cuore che non sa scegliere tra un’angina e la fine. Cos’altro c’è da fare di più importante con mani che sono le tue? Tu sei dentro me da allora. Dalla finestra giunge corretto dalla nafta il profumo del mare che così è proprio perfetto per lacerarti il petto contenendo tutti gli addii e tutte le partenze amare. Non chiedermi come possa rendere conto di una vita come questa. Perché nessuno mi cerca. Sul lavoro sono stato rimpiazzato da un giovane impiegato. I pochi amici non si accorgono nemmeno quali di noi siano vivi oppure morti e continuano a mescolare nel retro di un bar il mazzo delle possibilità, delle sorti. Non pago affitto, non sono afflitto. Ma come è potente l’amore! Non mando odore. Non sono vivo non sono morto. E’ uno stato nuovo di cui non so [spiegare il perché. Quelle rare volte che esco [ti chiedono di me.
Id: 16949 Data: 13/10/2012 11:39:31
*
Il muro
Non era per un classico segreto taciuto il silenzio che ti faceva interrogare la mia bocca serrata. Non potevo parlarti del muro che chiudeva il vicolo, che lo faceva cieco. Era un muro come tanti, grezzo, senza intonaco, alzato da un furore separatista o confine di due proprietà acrimoniose, o più semplicemente quello che restava del paradiso. Lo lisciavo con il palmo della mano, con un dito su lui disegnavo improbabili ghirigori e un po’ cedeva della sua polvere, a volte un pugno di terra. A suo modo, con piccoli cedimenti afasici manifestava la sua impotenza a trattare del destino. Non è un argomento interessante un muro in fondo a un vicolo ma esso si frapponeva tra me e le parole gioiose, gli spruzzi salati della marina, una corsa trafelata sulla rena. Non potevo parlartene senza turbarti, senza che tu a tua volta non percorressi il vicolo fino a lui, fino al suo odore di tufo umido, di vita che succhia l’ultima goccia della sua radice, no, non potevo farlo senza che anche tu muta ti chiedessi finalmente perché fosse tanto difficile dire: ti voglio bene.
Id: 16889 Data: 10/10/2012 12:50:28
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Sciogli i capelli - Abbracciammo la colonna
Sciogli i capelli a quest’ora. Poi scuoti la testa come fa la donna che ha sciolto i capelli, di qua, di là, indietro… Per un momento non guardi coi tuoi occhi verdi che la vastità in cui mi perdi. *** Abbracciammo la colonna. Tra noi due il mondo un cilindro di marmo e stringemmo più forte che potemmo fra le rovine del tempio di Giove Blando la sibilla sillabando dal sacello “Andrai ritornerai non morirai nel bello”.
Id: 16852 Data: 09/10/2012 14:38:44
*
Con parole trasparenti
Quando il sangue si fa liquore Da esso cose ed esseri riemersi Prendono grondanti la via d’occidente Senza voltarsi e senza una parola pretendono Il poema del loro silenzio e del loro dissolvimento. Chiama questo: teatro del ricordo del sangue E del suo nascondimento. Fallo con parole trasparenti. Con parole trasparenti di’ quel silenzio; Con parole trasparenti dì frammenti di cristallo Sottile come un’anima che cinge il velo del suo destino. Parole trasparenti Come tutte le parole furono volute Anche quelle scoccate All’urlo e all’invettiva e ai sordi gorgoglii Dei meandri dove ristagna il tempo A umettare rive che non sanno Che farsene dell’attesa e usano la speranza Per nascondere le impronte di un’eresia Sorta nella livida accidia dei mattini. Trasparenti nomenclature allinea Lungo i muri che separano eden da eden, Menzogna da menzogna, vita irripetibile Da noia con la falce solenne e bevi i sorsi Dell’inedia di cui è fatta la compagnia del porco Quotidiano e sonnolento. Fallo con parole trasparenti. Con parole trasparenti di’ quel silenzio; Con esse sciogli il patto con chi si nasconde apparendo.
Id: 16784 Data: 05/10/2012 17:38:48
*
Decimo comandamento
Dirai ai tuoi figli che quando tuo marito ebbro di fortuna e sazio di carne mi uccise confondendomi col tramonto fu un atto dovuto. Le cartilagini erano già impresse da un collaudato destino e le membrane mai divenute palinsesti. La gente del posto era così abituata ai cieli di sangue di quella terra infame da scambiarli per teloni gettati sulla carne che i camion portavano ai depositi. Mi misi in testa di portarti via ai tuoi e non riuscivi a capire come l’eterno crepuscolo nei tuoi occhi potesse essere dimenticato per un profilo riemerso da combusti ricordi, sciamanti come da un disturbato alveare durante una visita a un cimitero occidentale. Ma io avevo parole di sangue caldo come i mattoni del muro maestro calcinato dall’ira perseverante del leone estivo e i parti e gli aborti e l’aver procurato vita e morti come acqua sorgiva dal grembo non poteva salvarti dall’alito in rivincita di scoperchiati sepolcri – sghembi nel mondo i figli uscivano dal tuo ventre torniti pipistrelli, come da una grotta grondante buio e seme di decreti. A loro curiosi della mia morte come di ogni luogo incantato dirai che di notte vedevi tra i campi intorno alla vostra casa aggirarsi un’ombra di luce avvoltolata espandersi raggomitolarsi tra i lampi diventare un punto ingigantirsi volare via improvvisa nuvola fola minaccia esorbitante veleno alle radici di tutto che mai sarebbe stato mosto bollente per un convivio di lemuri di paglia a chiudere il giorno biblico agghindato in salmi. Che poi essa ritornava dallo zenit alla vostra casa tu diventavi la casa e quella cosa stringeva in vita te e i muri e scendeva superba in cantina e slegava i nodi e svitava tutte le viti e tutta la vita e scuoteva i pilastri e la terra e l’acqua e l’aria ed era fuoco che s’era messo in cattedra, e altre cose del genere. Ma poi essi si faranno più pressanti e alla tua lingua verrà in soccorso il fiato monotono del tempo narrante ed essi non acquietati vedranno finalmente la madre e le sue mani alla carne silenziosa e al carnefice cantante e l’ombelico arcaico del giorno consueto secco di polvere di rovine felici di una morte solare. Non l’avrai detto, ma anche loro sapranno infine che anche tu volevi salvare qualcosa di quello che nella quinta stagione mi fece danzare su un filo d’ombra nella ardente freschezza del crepuscolo, ma solo qualcosa, non più di tanto, quello che a una madre tocca salvare, il passaggio, ma in cosa consistesse quel passaggio era al di là delle labbra umide del tuo prosperoso destino. Così la cosa fu risolta in un sol colpo con un colpo solo e dalla voce del fanciullo chiamata: il cielo che cade e dalla pietra confortata in memorabile oblìo. Ora i tuoi figli hanno scoperto dove sono sepolto e spesso vengono a trovarmi confidandomi i loro silenzi mentre ignota tra le braccia stringono l’eco sapiente del tuo grembo vuoto.
Id: 16752 Data: 03/10/2012 18:22:32
*
Cosa delle cose
In fila per il riscatto memorie e cose nel simposio sordo dell’estate e i morti pure che sentono ancora sotto il piede la trama bruciante di queste tenebre chiedono soccorso alla persona sbagliata. Perché non entrano cose supplichevoli nella spoglia secca del Verbo – Cosa delle cose – che il polo solare dardeggia a evocare l’indifferenza geometrica del ritorno, nelle volute della spira. Ammantata del passato la morte ha scippato lo scettro all’eternità perché possiamo empi adorarla e il Tu è ormai un insensato Questo. Tutto questo si proietta – spezzoni di akasha – sulla parete di una stanza in penombra e maestri bipolari ancora all’immanente circo tentati nel deserto dal mostro sensuale scuotono la sabbia dalle piaghe dei piedi mentre si leva il dubbio sulle loro teste come una nebbia o un’afa che incontra l’altra, celeste, pandemica. Eppure non c’è guerra manifesta ma la testa si interroga comunque. E’ una domanda invisibile fino al punto che un uncino sormonta. La disputa mercantile degli uccelli non è meno esibita ai nostri occhi e siamo tra peccato e ignoranza secondo i testi all’inseguimento del capro. E’ una corrente, vibra, a volte sembra avere un contenuto ma ne siamo dissuasi, non è chi siamo, da dove veniamo ma perché è così dolce così atroce il nulla che non riusciamo a colmare. Il bambino trovato morto dimenticato dal padre nell’auto dicono abbia lasciato un biglietto: dopo qualche ora non riusciva a rassegnarsi a quell’abbandono e pensò che fosse una punizione. Di certo aveva mancato e ne chiedeva il perdono. Ma era stata la sua sorellina a convincerlo a gustare una sigaretta dal pacchetto del padre lasciato sul comodino ingrommato del sedimento di logori sogni senza futuro.
(riproposta)
Id: 16705 Data: 30/09/2012 19:51:12
*
Un prezzo fu fissato
Fisso sul davanzale dove lo portò la fame guardingo il colombo pregustava la lattuga che l’ava aveva scelto per la vecchia tartaruga. Anche alla sazietà del puro un prezzo fu fissato e furon cerca, paura e fuga.
Id: 16684 Data: 29/09/2012 17:15:53
*
Il rito mesto dellallegria
Ai suoi piedi l’ultima parola si fa cenere, inadempiuta. Poesia, veste spessa di verità quella che lei di sé vogliosa smette. Il passato è l’ultimo orgoglio che resta che in due versi hai rifuso nella grazia di un mattino credendoti chino alle stagioni per un enigma che è meglio non tentare. Questa stagione, dici, segna un passo diverso le ombre si allungano diverse alle pendici… Ma la luce pallida che torna sa esserti crudele, mostrarti quante strade può fallire la poesia svanendoti stupito tra le mani il rito mesto dell’allegria. (primi anni settanta)
Id: 16663 Data: 28/09/2012 08:11:10
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Sotto il blu delle antiche stelle
Tu chiedi cosa potrebbe salvarci se non la vita un giorno. Siamo sotto il blu delle antiche stelle in un rione d’Italia due punti fermi a chiusura dei discorsi diurni. Quando la bocca tace senti le invocazioni mute dei sensi. Ecco, faremo di corsa le scale fino al letto e la gioia sarà che in altre case qui intorno, quelle che accese le luci ancora hanno ragazze inconsapevoli come noi nude si addormenteranno.
(primi anni '70)
Id: 16650 Data: 27/09/2012 10:20:23
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Rosa Crux
Spesso ricordo amaro gli anni che si annunciava primavera in un vento sapido di mute guarigioni. Le altre stagioni, rivali lamentose e sconfitte a misurare lo scontento, matrone immutriate in ceppi, larve che languivano in prigioni. Gemello il mio del forte suo trionfo, fanciullo per quel poco che ne seppi di un'età che fu breve come un tonfo. Non udivo voci nell'avara solitudine ma stilai sul biblico silenzio leggendario confidente e fiero la colorata moltitudine delle parole dolci di un mio umile diario. E tutto io mi diedi a una speranza allora vestita degli stracci che dei miei odorosi panni fecero le ruote affilate del destino. Nulla accadde o il Nulla accadde e il vento sapido variò supino nel piombo in cui fusi furono gli anni. Ma io attendevo, e attendere sapeva un cuore mio gentile e un po’ romantico, che l'opera dei danni mutasse infine in luce, la luce ancora in voce e in cantico fiorisse poi la Rosa nel mezzo della Croce.
Id: 16603 Data: 24/09/2012 08:48:32
*
La tiepida strada
Saremo insieme, nei marmi macchiati di cere colate lave di ceri, sozzure dei cimiteri… Vasi di bronzo urtati dal vento nelle sere avranno disperso i petali secchi come il sangue nelle nicchie delle perdute primavere quando quel dolore avrà dilavato guance sciolto lo scontento. Solo la vita verde della lucertola ricondurrà nostalgie nei meriggi quando saranno finite le litanie dell’oggi tetre e l’alito dolce del mosto traverserà le pietre. La tiepida strada d’ottobre ci avrà condotti alle case dei morti inutili e sepolti quando non sembrerà più la frase che dicesti ardita la morte è un istante che dura una vita.
(primi anni '70)
Id: 16568 Data: 21/09/2012 09:03:10
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Fassi lapotema raggio
E' cruccio all'apotema farsi del cerchio raggio. E chi può dir la pena d'una che se pur fosse solco al circolo radiante con sì gran vantaggio, eguali avrebbe dimensioni qualsiansi le mosse? Ma pur tentare deve chi mutar vuole l'intorno a cangiar sua essenza in medesima apparenza. E allora fissar il pentagòno giorno dopo giorno con ferma volontà a edificar la sua differenza. Cieco vuole il potere poter del cieco suo volere e se cinque restan gli acri a sorte sua gabella, muta la reietta linea e fassene di croce stella. E sì come stella sé slontana nel celeste spazio, punto si fa, punto che dilata ormai ch'è sazio, e raggio a vasto cerchio è or sì apotema bella.
Id: 16520 Data: 17/09/2012 16:44:09
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Vintage
Vana è la rosa per chi ormai ha deciso. Nel velluto che le porgi vede solo una cosa che una lama ha reciso. Vana è pur ogni parola al suo ultimo decreto, la ragion che vuol d’allora l’amato rinverdir segreto. E disgustoso trova il succo che con te le piacque bere, e chiama adesso un trucco ciò che gridò piacere. Così farla ora devi sicura, certo che serena ormai può dirsi, il tuo essere per lei bene si oscura, conta solo quel che resta per finirsi. Libera di scegliersi il suo bene può volger gli occhi suoi rubati al cielo ovunque un vento la conduca senza pene, ovunque il cuore che scoprì del velo certo sia di non trovare più catene. Ma se la vita sua dovesse in un attimo percosso dal dolore aver bisogno solo in quel momento di me lontano col perduto amore, volgersi potrà al mio esilio in firmamento dove brillo senza la sua compagnia luce solo a lei che un dì fu un po’ anche mia.
Id: 16503 Data: 16/09/2012 10:26:15
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Settembre
Tu, vita desolata di settembre tutto si decide nella valva del tuo sole che d'estate ha stanchezza, crollo silente e solo d'un solstizio...
A quelli che amano i morti doni una sterile unione consolandoli d'un abbraccio senza comunione, ma in te forse tutto è morte cadavere che si riscuote per dirci che è quiete il sogno suo odierno.
E c'è nell'aria un senso un flusso d'arida luce che non è ancora inverno mentre t'ascoltiamo fanciulli a uno straniero compagno, Settembre, ansioso mestruo dell'anno.
Id: 16441 Data: 11/09/2012 16:12:59
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Sotto il cielo della luna
Credetemi, sotto il cielo della luna lui chiamava salvezza quel procedere fidente brancolante ascesi in un buio dimenticato. Sopra, la ghiaccia volta circense percorsa dal perenne errore di patetiche nuvole informi disperata mimesi d’infinito e sotto la berciante fauna bieca nel torbido plancton dei giorni. Non erano folate d’angeli custodi ma le risate grasse dei padroni della terra al piombare goffo del ragazzo nella vita lui che credeva d’essere un giunco e che una stella lassù portasse il suo nome. Cristo gli era in ogni istante profumo della novità del nove e il suo un volto sempre irriso dal crasso popolo delle vetrine lui sempre sotto lo stesso cielo volto alle sei impettite direzioni del terrifico nome plurigemino. Alla fine la diaspora dei clown il crollo delle gabbie intorno a incottite criniere il calice della rancura e parole cadute dalle chimere dei sogni velenose sulla lastra rovente del mattino da che dispersa al colmo fu la fedeltà di un bracco il berretto da capitano e una ingrommata pipa contro il fato scempio d’una balena albina e il gioco di morgana della vita una ressa sulle dune, a ordire il circo cieco del plagio inane di se stessa.
Id: 16272 Data: 29/08/2012 17:38:48
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Semplicemente vero - Rap
perché rifiutò dall'inizio il suo dono per servire il fratello muto sfortunato a battere i morse della Legge incognita nel torace asfissiato tra le spire perché fu sempre lo stesso nel frammento dell'Oscuro nel dialogo di Platone nell'abbraccio di Nietzsche in quello della chiesa matrigna e del suo dottore al nitrito di dolore del Pegaso imbrigliato nella città taurina magica si fa per dire perché nel deserto seccò immediatamente la nostra fama e ci fece capire che eravamo niente se qualcosa aveva agito completamente su noi e lo adorammo quanto bastava perché stabilì un'ebbrezza tra il libro da copiare e l'amanuense e gli fece trascrivere quello per cui non erano ammesse licenze perché così è quando appare, cioè sempre ( puoi chiamarla ‘natura’) e nelle dimensioni che non caverà dal buco nero tutta la fisica più pura perché il sole scoppierà e lui non ne ricaverà una sola bruciatura perché quando vestimmo nostro padre morto col cuore spaccato lui lo unse e poi lo benedisse con l'assolo del suo silenzio spietato perché prima che lo pensassimo lui ci aveva già pensato perché scioglie i nodi scorsoi dei nostri ombelichi e poi li fa suonare come i flauti dei satiri antichi perché nonostante lui resta sempre cicuta la più venduta perché continua a chiedersi con quella sua inaudita costanza sudando sangue a cosa sia uguale il simbolo dell'uguaglianza perché erompe come le radici degli alberi da sotto il bitume e urla che il sesso non ha sesso e non è un fatto di costume perché sa che Plotino è il cazzo lungo affilato di Platone perché sa che Atlandide non è una leggenda, una illusione e che se ci fosse ancora avrebbe un suo prezzo d'ingresso e le pagheremmo il canone di un'esoticissima televisione perché sa che la Gnosi abita le fogne e le periferie e le usa e i numeri non sortiscono a caso e il boomerang è Pitagora prima che al mercato nero di Giza trovasse la sua ipotenusa perché può fare matematica senza fare numerologia e può anche fare l'inverso senza sentirne nostalgia perché è vinto solo se è convinto come mai prima d'allora e si fa spezzare da chi crede di esserlo e non lo è ancora perché scrive versi in angoli bui e poi li critica severo come se non li avesse scritti lui e in galera di sé dà il meglio e scioglie quasi tutti i lacchè e libero un po’ davvero s'annoia e cerca sull'elenco del telefono il numero del boia perché dialettico quanto basta passa tra le teste del pater e della familia a volo e compie un miracolo a volte di nebbia cristallina che può fare di tanti uno solo perché brucia tutte le immagini precedenti di sé perché talvolta a Stoccolma ha la meglio anche se… perché sa perdonare essendo il per e il donare e ha certo più di cinque stimmate da storicizzare perché sembra egoista e pretende il tuo posto con una certa spocchia ma dopo che lo ha occupato ti fa sedere sulle sue calde ginocchia perché non prese mai una laurea ma è l'unico onnipresente usciere che consente a chiunque di entrare dove quello che è può farlo diventare perché accarezza la barba del monaco e la testa rasata del bonzo ed è il pane quotidiano di entrambi e per lui non esistono strambi perché ordina ai libri giusti di farsi scegliere dagli adolescenti dubbiosi perché ama il popolo ma essendo intelligente si guarda bene dalla gente perché lascia che sia suo fratello muto a giacere con le donne più belle dopo averle affascinate con le frasi più suadenti che intessono le stelle perché a lui da maestro vero tutto si può dire che abbia detto già e si illumina ascoltandoci come se rivelassimo una mai detta verità perché in lui tutto è stato detto ma tutto è ancora da dire perché siede da solo nei parlamenti quando tutti sono al mare e fa la sentinella ai decreti del sapere e a quelli dell'amore perché è la prima e l'ultima immagine sulle retine dei kamikaze e sa che sotto le medaglie dell'imperatore batte il cuore dell'ultimo barbone perché sa che lo spirito è quella cosa che incontrando la materia con onore perde la testa e che la materia solo in presenza di quel signore organizza nei dettagli la sua più orgiastica festa e sa pure che la materia è quel puntino nero su cui si regge in equilibrio l'universo intero perché nel mare duetta con la commozione e sulla vetta è nudo come la croce abbandonata da chi non è più perduto perché è presente con la luce del giorno e nel buio del sogno perché è coperto di antiche cicatrici che conoscono solo i suoi amici perché fortunatamente gli manca qualcosa perché porta una rosa del colore più adatto ad ogni pura immanenza perché sa che la trascendenza è fatta coi detriti della nostra esistenza perché le ha provate e le prova tutte e il suo alito non è il migliore perché si emancipa continuamente da sé stesso e porta dentro con disinvoltura (il segreto suo più grande) pilastri delle piramidi più perenni, d'una pietra più dura perché suo fratello il cuore ha battuto all'inizio sette colpi per dirgli quanto fosse contento e sa che morte non esiste e perciò non muore perché circola con e in ogni tempo perché sa vedere ed è la prima nostra lingua che tutti dobbiamo ricordare perché è veramente libero in quanto sa che libero non è ma sicuramente leggero e allora se non è in catene, eppure libero non è, noi chiamiamolo semplicemente vero.
Id: 16213 Data: 25/08/2012 18:43:33
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Se sangue doveva Essere
C'eri prima e ci sei adesso. Quello che è successo dopo la tua morte conta poco. Per l'uomo e per il topo che inciampano nelle tue sparse membra - mutilato Osiride - non i lampi nell'iride di gioie avare e il tedio nemmeno che fiacca al tramonto il mare. Se sangue doveva Essere, secco o a fiotti, che sangue sia e inchiostro, nero inchiostro alla poesia.
Id: 16151 Data: 20/08/2012 09:37:53
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Nella stessa acqua
Attesi qualche anno prima di farlo da quando avevamo iniziato a farlo. Perché quando lo facevamo c’era come un’ombra che non capivo, un’ombra che scompariva nella sazietà del dopo. La verità che si svela velandosi mi era sempre sembrata un meschino espediente da teatro. Ma, del resto, perché il vero non dovrebbe essere piccolo per i piccoli, immenso per i celesti? Così quella volta, nel tempo dovuto, quando sentii che il piacere dalle viscere dell’ignoto saliva alle nostre prossimo a dispiegare del tutto le sue ali nella luce buia intorno al nostro amplesso seppi che dovevo chiamarti col nome di tua madre e che tu mi avresti risposto chiamandomi col nome di tuo padre. E fu proprio questo quello che accadde. Allora le ali furono completamente aperte e il volo che prima si interrompeva alle pendici guardò fiero dal cielo il picco più alto dell’Eden. Il tempo aveva scelto per noi un’ansa nel suo fiume e da quella volta ci bagnammo sempre in quella stessa acqua, sangue dissepolto che si era evocato, trionfante, per revocarci.
Id: 16052 Data: 12/08/2012 18:59:45
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Corro sotto il sole
Corro sotto il sole con 40 gradi all’ombra. E’ il 15 luglio del 2007, sono le 13 e pochi minuti. Hugo von Hoffmansthal morì an einem Schlaganfall als er zur Beerdigung seines Sohnes aufbrechen wollte nel 1929 in questo stesso giorno. Siamo solo noi due, io e il sole,
e non sappiamo niente l’uno dell’altro e nemmeno Hugo sa niente di noi e di tutto il resto. Nemmeno ci è dato sapere cosa ci facciamo così sospesi, uniti da incommensurabili raggi. Ma il mio sudore dà un senso al suo cieco calore, questo a sua volta dà un senso al mio disperato amore, mentre al colmo dello sforzo decido di fermarmi un po’ con le braccia levate e di adorarlo il sole perché bisogna affrettarsi: mancano solo pochi miliardi di anni alla sua, alla mia estinzione.
Id: 16043 Data: 11/08/2012 16:49:12
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Questinferno
Saremo all'inferno e lì ci ricorderemo di qualcosa che abbiamo fatto e che non dovevamo fare e ce ne faremo le nostre ragioni. Ma quest’inferno di adesso, quest’inferno da smemorati è la più raffinata delle punizioni. Sapere che stiamo espiando perché qualcosa dobbiamo pure aver commesso e non poterci ricordare cosa per uno speciale contrappasso deciso nel cielo più esterno… Quello di adesso ha molto da insegnare a quell’altro e ad ogni altro inferno.
Id: 16019 Data: 09/08/2012 20:24:07
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Non verrai
Non verrai. Non varrà la somma delle attese delle invocazioni mute il ragionar sperando lo sperare razionalizzando i pentacoli sui fogli la magia domestica dei soli. I passeri lasceranno i rami più alti anch’essi esausti piccoli angeli disorientati e il buio si impadronirà della mia inettitudine. Così si estenuerà in silenzi la mia torrida estate a misurare la tua assenza nell’incalcolabile distanza da una stanza all’altra del confino del perdente nel semivuoto appartamento; io nel corridoio [decombente la sola voce giungendo regolare di una vecchia affondata nel suo letto, annaspando nell’aria, demente, i suoi rimproveri ai parenti ingrati fino al fondo della notte inclemente ad accertarsi che tutti si siano ritirati che ogni porta sia stata ben serrata.
Id: 16003 Data: 08/08/2012 20:24:41
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Radia un lucore il geco
Radia un lucore il geco Radia un lucore il geco nella penombra della stanza, nella quietata notte estiva che pare umetti la tua fronte pura e quella del tuo sonno. Sono certo del tuo, il sogno del figlio che non nacque. ' Così a me piacque' portava a firma la calce del decreto e noi ce ne facemmo una ragione sfamata di silenzi. Dura un buio di confuse presenze, concitate e mi strania in un suo gorgo dove una faida si strema di anfibie chimere. E il geco, la nobile creatura che abita la luce, gonfia impercettibili vene ai molli fianchi di un baldacchino d'ombre intorno al nostro letto; nella notte estiva trascorsa dal cuore assente che non batté nel sole, che non si addormentò stringendo nella mano la stella del dio marino, né quella del suo primo mattino. La mano che non poté tessere una storia di minime dolcezze ai nostri occhi inteneriti né un nido inestimabile a un tesoro di conchiglie. Tu dormi e sogni e anche le tue labbra dischiudi al rosario di ciò che fu negato: ' i tuoi piccoli panni non asciugheranno al sole della mirabile stagione; l'iride tua non trasalirà al transito scomposto del ramarro nella foresta del basilico; da una barchetta il tuo grido non ci avvertirà che in cielo appare e sghembo si abbandona il precipite gabbiano nella estatica rotta'. Tu dormi e vedi la tua mano tendere il cibo ad una bocca che scompare. Ma può l'amore una ferocia tale che un'anima redima prima che essa viva. Sia la tua, assente, la sorte di chi è salvo nudo del sudario, quella di un re che ebbe il suo regno in un piccolo giardino oltremondano, in un cielo che non ha Calvario. Tu dormi, io ascolto la presenza
viva che sollecita un tuo ansimo improvviso; colgo sul viso che contrae la domanda di oggi, d'allora, la visione che in sogno ti opprime e per tutte le ombre due dita astrali levo che sfiorano il tuo, il capo della nostra creatura, del sauro gentile, e un lembo, solo un lembo, ma infinito, di paura.
Id: 15953 Data: 04/08/2012 19:09:18
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Alla penna
Scivola sulla carta quella punta e dispensa il nero più commovente del più riuscito arcobaleno e la mano è timorosa. Se avessero occhi le dita si volterebbero a guardarla per chiederle se l’hanno capita, se è proprio così che devono tenere lo strumento nobile della scrittura, ma non possono ed eseguono. Quella che prima era musica descritta guardando il cielo, cantata mentre nasceva, adesso deve farsi parola, parole giuste che dicano l’indicibile che sei e il cuore è fermo nella licenza di una sospensione d’amore e terrore. E il fruscio sul foglio... E come morbida, lubrica, lasciva scivola a pattinare traducendo in volute notizie dall’orgoglioso Nulla e… chissà se è questo che volevo dire o la lingua mi ha preso la mano e guida la penna e fa quello che vuole. Ma questa penna è come un coraggio domato che nel silenzio mi asseconda e dove devo fermarmi mi fa fermare e dove più veloce devo imprimere significati prende un galoppo di vittoria struggente che si esalta ad ogni a capo. Scriviamo per non essere descritti e questo foglio che per la penna indomabile di me si imbeve – non importa con quanta arte – della mia vita è una parte che resterà se non per sempre per questo momento umile come la semplice scenografia in cui un uomo sta lottando con l’oblio, l’unica vera morte, per fermare un poco di quel nulla che è lui; il momento che vive stringendo quello stilo che lo racchiude tutto, bambino, adolescente, giovane innamorato, adulto deluso ma vivo di e per tutto questo. Penna, scettro domestico, mio prolungamento, fallo pudico e ragionatore mai semplice esecutore; quello che sono, che penso, che non sono, che non penso ottengono la tua muta approvazione o il pudico diniego dalla soggezione che non ti priva della corona di vergine regina risoluta. Penna che mi aspetti, mai servile e ti scappucci e mostri una lingua d’oro regale, stilo di Merlino che si fa stile nella nera eleganza che riflette il vero meglio di ogni veritiero specchio, ancora una volta appaga questo silenzio che la notte intatto ha ceduto all’alba e dirigi la sinfonia di questo giorno scritta con il nero succo della perla nera che nelle tue viscere si scioglie e si fa seme che germoglierà sul bianco della semplice libertà della carta un po’ della mia, della nostra esistenza, stelo che hai rinunciato ai tuoi petali per ornarsi, a dire la vita, di quelli delle mie, delle nostre povere dita.
Id: 15781 Data: 24/07/2012 19:27:34
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Assenza
La casa dove attendere confinava con il giardino. All’orizzonte morbide ombre fasciavano i fianchi remissivi delle colline, come pepli. Ricordo in gola la nostalgia, il suo cordoglio. Una gioia occulta asfissiava gli uccelli. Sebbene non fosse ancora divenuto il passato quel tempo prendeva posto con orgoglio al passaggio del suo trionfo sentimentale. Ora è l’unico bene tra le cortine di questi sordidi silenzi ritti intorno alla pietà attonita alla cura che stenta si leva sulla mistica rovina. Torturare il tempo al suo muro germano non servì che a ebeti suffragi d’oche, alle loiche favole, all’ebbro pathos delle parabole. Prova a dire il numero di quest’anno innumerabile a chiamare luce la lisa seta rivoltata della stagione che frecciava orgasmi a deviare alle rondini le rotte. Trova nella notte la forma che sia martire del giorno. Non tu, ma il desiderio di te mi ha ispirato una bibbia dai fogli immacolati. In questo vuoto dove vigoreggia acuto il male giro intorno alla stalattite della tua assenza come uno senza più anima, eppure un animale.
Id: 15382 Data: 26/06/2012 14:42:17
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Sazia del suo lucido alfabeto
Sazia del suo lucido alfabeto dorme l’erba che non abbiamo calpestato. Solo la pancia dei quadrupedi riconosce i morbidi sentieri che conducono alla sorgente. Noi di quelli ci siamo nutriti ma col fumo volava via rinnegata la loro sapienza. Il trono pertanto è solo un sedile in una sala d’attesa messo lì per non stancarci. I suicidi ci implorano intanto di non piangere. Sembra dicano: Non c’è nulla che abbia a che fare col male. Guardate, siamo solo uccelli che spiccano un facile volo da un davanzale. Fino al giorno che sentiremo su per le scale concitata levarsi la lingua straniera incalzante di chi è venuto a deportarci.
Id: 14737 Data: 18/05/2012 11:31:58
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Osiride è un dio nero
Gli occhi non fecero in tempo ad abituarsi al buio – occorse una vita – che pesante infierì la tenebra. Così finalmente potesti gridare :”Ve l’avevo detto, come è buia la luce, come è nera, involucro che non dice, stretta che si fa cornice”. Parente di quel nero il silenzio apparecchiò parole per dire/non dire, ignorando suggerire. Per aver rifiutato panieri di lasciva accidia fui condannato ai celesti muri di questa cella terrestre. Tu non sei diverso, figlio. Eri già distante, allora, mentre il resto della scolaresca batteva sui timpani idioti della festa imminente i tuoi occhi irridevano alle quinte logore, alla tana del serpente. Adesso per un attimo siamo alla riva qui deposti dal delirio infallibile della memoria lontani dal fiato asfissiante della gente e tu mi tieni per mano, me, tuo padre, e osserviamo l’acqua che davanti a noi forma le cascate fragorose che inghiottono ogni voce, ogni superbo assolo, le furie irose.
Id: 14433 Data: 03/05/2012 14:47:53
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Alba nox
Alba corrotta che il fervido non plausibile assolo d’un ignoto pennuto accoglie trionfante, boriosa ti vanti eppure clandestina inizi un giorno che non avrà memoria più d’un breve temporale. All’ombra del mondo mentre s’agghinda il male e prestigia i suoi miracoli il bene s’appresta al suo niello nelle ore l’antica pietosa illusione. Solitudine è attendere l’apprensione sorella nella tua voce che numera di sorde megere i visibìli dal fondo dell’anima scarnita e il notturno cordoglio della vita. Davanti alla statua della tua assenza io stesso statua mentre è famelico della sua coda il mondo seguo i contorni del tormento che già mi avanza e il mistero preistorico della distanza che spazio e tempo affratella. Forse perché fosse il pensiero fu fatto quello, allo stesso modo ebbe un’ombra il bello. Ma ricercare è invano; tra l’abbraccio e la fuga vigoreggia una domanda identica e il tempo sostiene una terra che non dimentica.
Id: 14198 Data: 19/04/2012 08:32:02
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Riemersa
Da dove è riemersa la tua figura più di una volta nobile e snella? Forse da dove come Cariddi e Scilla rampanti si scontrano lo spazio e il tempo? E sembri muta chiedermi come trasmuti in uno sbaraglio la mia sera, se lo stesso ti penso, se pure disseccato il mio cuore ancora ti spera. Tu sai, noi sapemmo, che speranza è un guardare fidi all’orizzonte credendo s’alzi l’astro, il volto spasimato, eppure conosci del miraggio cieco il giudizio che ne ho dato. Io non spero né dispero. Sono dove spira non la mente il sentimento, arde quello che mi tocca e fa di me un povero contento. Non ti chiedo, o riemersa, del profondo che ti occulta mentre più io non attendo, e mena dell’ultima sua inezia gloria il mondo. La vita è solo scaglie d’una serpe vile che dopo che t’ha morso lenta poi s’abbiscia sul cottimo saziato delle sue infiaccate spire. Dai tali circondato e poi dai quali eterni come frusti fogli di giornali ormai provetto ho appreso l’arte protetto di starmene in disparte. I tuoi occhi come un tempo, gli occhi supplichevoli di bene … Quello che in mezzo vi si pose non mi riuscì di battezzargli un nome. Perché riemersa in queste ore a chiedere lo stesso, il fiato che allora già non ti rispose, tu riemersa, ma da dove? Credo che a te accanto rassegnato abbia scelto di restare anche l’amore. (riproposta)
Id: 14091 Data: 13/04/2012 17:00:54
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Dio della mia adolescenza
Dio della mia adolescenza il tuo cadavere galleggia ancora nel cielo del solstizio. Il sole ammalato di dicembre non può nasconderti per molto e le tue membra gonfie ogni tanto fanno capolino. Per troppo tempo il mare ti ha nutrito del suo sale e la tua vendetta è stata trattenere la sua acqua come un oscuro seme per partorirgli un tormento nel cielo delle illuse beatitudini. Dio della mia adolescenza il tuo silenzio si affaticò invano alle mie tempie quando credevo di poterti raggiungere a piedi tamburellando con dita entusiaste e ironiche fianchi di cattedrali illuse di parafrasarti. Sotto le tue palpebre calate furono archiviate l’estate di quell’anno e quella di quell’altro ancora e la ruminazione burocratica del tempo e la necessità della rosa e della spina e tutto quanto potei esibire e posso della antica, sabbiosa confidenza. Dio della mia adolescenza ti abbassasti troppo ai frantumi che ti sfuggirono di mano. Non aspettava altro il mare che pescare per vendetta - e fu un attimo - la perplessità del vecchio occhio al nuovo brulicare. Ci sono gioie che non si devono dire che nel sonno, che il sonno stesso deve tessere con sete di silenzio. Per questo anch’io taccio il resto e la vita che fiorì orgogliosa sui nostri diversi tumuli. La gioia che ti riservasti fu la stessa che ti uccise: creare un mondo sotto le stelle guardando l’opposto cardinale, come un bambino si lancia confidente una palla dietro le piccole spalle. Dio della mia adolescenza va’ nel sole, consumati, dove io stesso mi consumo, dove ogni preghiera, ogni lamentazione è incenerita. Facciamola finita, vecchio dei giorni ormai trascorsi. Io sono stanco di trascinare il tuo cadavere per il mondo, di rispondere ogni volta che non so chi sei, di aggiungere menzogna a dolore, di dovermi difendere ogni momento dall’amore. (riproposta)
Id: 14002 Data: 09/04/2012 19:44:37
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Pasqua degli oleandri
Certi che poi si ritroveranno in una dimensione senza gravità o perché semplicemente non lo sanno, sono sereni, benedetti dai nuovi modelli di utilitarie. Si guardano il palmo della mano e scavano più profonda di una trincea la linea della vita e poi l’allungano col più affilato degli inganni. Funzionano bene i reni e forti come mai le reni e le mogli devote incinte di una giocata a caratura. Anche quest’anno a Pasqua faranno a gara per sgozzare l’agnello, ma le parti saranno cambiate sul più bello, dopo una disputa che avrà del sacro. Le anziane puliranno il sangue i giovani lo berranno ma i più esperti, con voci impastate dal vino, lo giudicheranno. L’espiazione anticipata del capro farà felice il capo, e il prete, alla fine del pranzo, biascicando “Si iniquitates observaveris, Domine, Domine quis substinebit?” rutterà senza avanzo. Ma noi preghiamo per l’adolescente chiuso a chiave nella sua stanza, per la sua Pasqua senza sangue, l’adolescente che mastica foglie di oleandro, e taglia la corda agli impiccati e con un temperino cava i proiettili dal cuore dei fucilati. Preghiamo per lui che ha il palmo della mano senza una sola linea perché lo zodiaco volle essere reticente sul suo conto, e recluse il ricamo raffinato del suo destino nella forra [d’un buco nero. Preghiamo per pregare, come ama la pietà, non per ottenere, ma perché non offuscato dai venti siderali un canto si levi a lenirgli [una parte dei mali. E vedano i suoi occhi prima della maturità la pena che per se stessa piange la vergine [cieca della Verità. _________________________ “Si iniquitates observaveris, Domine, Domine quis substinebit? Salmo 130 (129) De profundis “Se consideri le colpe, Signore, Signore chi potrà sussistere?” (riproposta)
Id: 13974 Data: 07/04/2012 19:51:29
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Davanti ai cancelli
Seduti ai tavolini di marmo nel grembo di una data banale tutti ormai sapevano che il tempo è un dubbio condiviso dalle cose ma ognuno ordinava una bibita diversa e l’estate andandosene lasciava una scia di schiuma gialla e salata come labbra di affogati. Non c’era uno straccio di problema e questo infastidiva i teologi del pomeriggio che con un tirso disegnavano ostinati sulla sabbia rami di presunte genealogie. Scusa se non ti parlo d’amore ma non riesco a trovarlo con quel suo vizio di ficcarsi in ogni possibile orifizio. Il fatto è che tutto dipende dalla supremazia del commiato il vero signore dell’attimo e della perpetuità. Non puoi sconfiggerlo con la diplomatica gentilezza di un principe di terre apriche avvezzo alle rinunce. La notte scorsa devo averti sognata, stamattina il cuscino era pieno di tuoi capelli.
Id: 13934 Data: 05/04/2012 14:49:09
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Povere parole
Oh, non avervi più povere parole strette alle brame contorte della morte, non potervi più come rotoli di pane disporre in sacrificio al prossimo per risorgere l’eloquenza del mattino… Io non lo so se è vero ma questo è sangue che si può bere carne che si può mangiare… Restate anche nel letargo che vi fa mute, come il cielo livido della via triste che esilia i poveri perché risorgerete ognuna viva come un sonaglio, come sangue e carne e il bianco del lenzuolo che avvolgeva il figlio.
Id: 13902 Data: 03/04/2012 10:19:53
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La malinconia degli agrumi
La malinconia degli agrumi sepolta nel cupo giardino d'inverno spande la pena del suo acre lamento, soffre sospesa un esoterico decreto. Stilla il loro succo e umettano lento il suo segreto le labbra secche della morte. Sedulo un merlo fanatico le fa corte che a zampe pari fiero s’approssima al cospetto delle tre carte della sorte. Non sarà un caso che un sentore di carnevale preceda il tripudio del Natale. E’ il giorno più breve dell’anno e non varrà in tale deserto la pompa boriosa degli sbandieratori a inorgoglire la larva del mondo che solo può il vanto del serto acrimonioso di queste ore d’accidia. Dio aspetta il fasto d’un nuovo nome vittorioso ma il poeta non è un teologo, e il suo è un impero realistico e vanitoso. E’ lo zodiaco più ermetico del cerchio, ghiaccio che prese fatidico forma nel rapprendersi in un teschio che ride agli anni che verranno, al trionfo penoso degli imperterriti scavatori di polvere provvisoria presa per ori ed è qui tutta la gloria di questo intridersi vano di giorni che fasciano anime di vento, disfarsi stento di fiati anonimi alle pretese della memoria. Braccia che levano al cielo neonati i frutti marci che compongono la storia.
(riproposta)
Id: 13886 Data: 02/04/2012 17:19:48
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Paradigma del tempo
Scelse quattro cardinali l'aracnide silenzioso. Invisibile, veloce, lento, in arte e volontà brillò operoso, l'adunco paradigma del Tempo. Così tra i tomi di Aristotele e quelli di Platone, il pipal di Gotama e la croce del Salvatore, lieve tessé la sua ferrea trama il ragno. Sapremo mai se fu bisogno, saggezza o solo sete di guadagno?
Id: 13715 Data: 23/03/2012 18:21:58
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La casa
AUmberto Saba La casa Ti diventa familiare una casa che ti è due volte estranea perché casa tua non è. Un altro crede possederla che mensilmente riceve la testa del tuo stipendio e alla fine quel risentimento che prova il conduttore finisci per non considerarlo più solo come un dispendio. Accampati, un po’ nomadi senti te, i rassegnati famigliari e l’affetto che non guarda clausole e contratti cresciuto è negli anni a dismisura. Riconosci il dentro e il fuori vecchi amici, crepe nei muri, tra gli embrici umili steli di natura. Anche la paura dopo un po’ è svanita dello sfratto e da quella ti accorgi ormai d’esserti lontanato, distratto. O dimora imprevista che trovai in un giorno di sole glorioso, all’ultimo piano del nostro destino come scrissi alla gente altrove in essa ho sentito e sento anch’esso estraneo per dolore ma come egli stesso indigente t’ama fratello trepido l’amore.
(riproposta)
Id: 13691 Data: 22/03/2012 17:39:33
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Quello che mi sarebbe piaciuto
Quello che mi sarebbe piaciuto. Non: lei ha una faccia conosciuta, dove l’ho già vista? Oppure: c’è qualcosa in lei che non mi è nuovo, di cosa si occupa? Ci hanno presentati in occasione di un incontro di lavoro? O forse a una festa? Essere sopravvissuti alla giovinezza non è poco. Ma la mia faccia a mia insaputa è diventata familiare ad altri sopravvissuti che mi assillano con domande di questo tipo. E’ questo lo strano destino di un solitario, una bassa vendetta della solitudine stessa da me coltivata con residui di lei – sapete, come quelli che nel deserto estinguono la sete col proprio sudore, oppure… Mi sarebbe piaciuto che mi dicessero: la sua faccia mi mette terribilmente a disagio, sembra quella di uno che viene da un posto dove non abita nessuno. E gli occhi, gli occhi poi un fuoco contengono che dopo aver tutto incenerito pare abbia realizzato che non essendo acqua la sua opera resterà incompiuta. E invece come è strana la gente, di te sa quello che le racconta la segretaria loquace, insonne, che la tua ombra nasconde, [il dèmone incustode. Questo è un altro aspetto del tempo multistrato; non essere uno, nessuno o centomila ma l’esperimento segretato di una camarilla di pazzi, inopinatamente svelato dal tradimento di una. E poi. E poi di nuovo, sempre con nuovo interesse: lei ha una faccia conosciuta, dove l’ho già vista? No. Non era precisamente questo che mi sarebbe piaciuto che la gente mi chiedesse.
Id: 13639 Data: 20/03/2012 08:12:49
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La costellazione del piccione
Il piccione che ieri apriva le ali riuscendo soltanto a strusciarle sul cotto con uno sfregamento, un attrito di carta sul secco da aquilone schiacciato da folate maligne, rumore di stecco che dita segaligne usano per incidere il vuoto in terra, il piccione che picchiava sulle mattonelle col becco… Mentre penso che se fondata è la reincarnazione siamo condannati all’inattualità, salita la sudicia rampa che porta alla sconfinata terrazza di uno dei palazzi più grandi della città lo vedo che sente ancora più prossima la fine. Gonfio, il piumaggio variegato dalla libertà sulle altane e nel basso cielo sopra l’interdizione urbana, col passo del gambero si ritira in un angolo dietro l’ultima porta socchiusa della gabbia delle scale quasi marcia. Sente la morte come un mal di pancia e strizza le palpebre, arretrando. La vita lo sta lasciando come un maturo escremento e la mia presenza lo disturba mentre viene officiato il rito mesto di un commiato senza fama. Domani alla stessa ora lo troverò stecchito come un ghiacciato guanto imbottito che il ferro finale non è riuscito a stirare. E’ una mattina qualunque, di un ottobre qualunque che non potrebbe essere celebrato che nella cabala vana di un soffiatore disperato. Un piccione sta morendo perché il tempo ha gridato più forte nel suo cuore, lo ha allargato per fare posto al signore del ghiaccio e io ne descrivo la morte con parole senza futuro, con una pietà dubbiosa mentre una vespa, una vespa scatta a destra e a sinistra di fronte al muro sbiadito precisa come il carrello di una macchina da scrivere, cercando chissà che e ogni tanto si blocca per un secondo come se sul muro leggesse qualcosa di interessante, se non parole finite una sapida sillaba che merita una sosta o forse la vespa con la punta sottile, invisibile di un trapano disegna sul muro un alfabeto stellare, una costellazione astrale mentre io so che se le unissi con linee immaginarie le stelle altere null’altro avrebbero da raccontare in un angolo celeste che una fine insignificante, la tacita ma universale decomposizione, del povero principe di una solitaria terrazza.
Id: 13615 Data: 19/03/2012 08:43:18
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Ficco sempre un errore
Ficco sempre un errore in ogni cosa che faccio. Il primo che ricordo fu in una versione di latino in prima media, per il resto perfetta. Attesi che il professore terminasse di elogiarmi davanti a tutta la classe invidiosa – i duri si voltavano a guardarmi lanciandomi occhiate minacciose – e poi mi alzai con la mia copia del compito in mano, mi diressi alla cattedra e perfezionai la mia versione da vero pervertito facendo notare al professore l’errore che gli era sfuggito durante la correzione. In seguito non mi è più capitato che qualcuno non si accorgesse delle mie preterizioni. Dopo non molto gli interessati mi agitavano in faccia il mio fallo per meritate punizioni. Senza accorgermene ficco sempre un errore in ogni cosa che faccio. Forse sono un alieno esiliato qui per qualche motivo e vengo da un mondo dove non si fanno errori e non voglio che qualcuno cominci a sospettare. O forse voglio solo provare gli altri regalandogli il biglietto vincente che li conduca a me facendoli sentire superiori, giudici, inquisitori. Gli do quello che vogliono, gli regalo una distrazione dalla loro trave. Per un motivo che non so ho questa specie di bontà soave, questa voglia sadica di regali, dono agli altri mie pagliuzze d’oro perché le agitino davanti a me, credendolo il mio fallo, trasformandolo quasi sempre nel loro.
Id: 13590 Data: 18/03/2012 09:40:00
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La mia quasi innocua follia
La mia quasi innocua follia non so somigliarla che a una casa - quella che non è mia e comunque mai lo sarà – con tante stanze ma separate e ognuna in uno straniero paese. Io ne abito, come è normale, una alla volta, come un curioso e inquieto viaggiatore. E’ tra quei muri che si consuma il tempo del mio segreto dolore. Voi che mi amate in quelle stanze mi cercate, senza trovarmi, vi sembro sempre assente. Ma nella casa della mia follia che è la casa della mia mente soffia instancabile un vento portentoso, un padrone senza pietà, che mi spinge e travolge lontano dalla prossimità. Dovrei lasciare una traccia, dei bigliettini perché possiate agevolmente trovarmi. Ma forse solo a questo serve ad ogni nuova partenza ogni povera poesia che lascio in ogni stanza della mia quasi innocente, nomade follia.
Id: 13567 Data: 17/03/2012 08:58:15
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La conseguenza di sé
Quello che provo per te seduta sul picco che contraria altezze incoronate… altezze blasonate a trovare una via di scampo facendosi elette di una accattivante leggenda… Per te ho trascurato l’estate. Sono arrivato a credere il mare l’illusione di un adolescente perverso, le sue calde correnti lascive narranti la perdizione vincente dei disperati un inganno cantante il preludio di un oscuro trapasso. Per te il gelo acerbo di una fallita primavera – quello che a metà mattina percorre i corridoi di un ospedale e va a posarsi sulle ginocchia di un condannato, fardello di esplicate sentenze ieratiche – è divenuto un refolo innocuo per lo starnuto di un cucciolo dormiente. Parte dal centro delle viscere e va a coagularsi a qualche metro da me quella cosa pendolo palpitante-battito-profumo- sapore-consapevolezza-cecità corposa- morte sensuale-assenso diniego in sé - di ogni cosa a levitare corolla di una rosa nocciolo pervadente inattingibile perché se ne è pregno il mondo altro non mi è dovuto… Ma io non avevo desiderato un’altra cosa desiderando te. Mai avrei immaginato incontrando te che tu fossi solo colei su cui si sarebbe schiantata la conseguenza di sé.
Id: 13519 Data: 14/03/2012 17:28:37
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Le tue mani
Una donna non se ne accorgese uno le mangia le mani senza pietà perché il carnivoro predilige la polpa dove affondare la sua sbavante cecità, non la trasparenza della pelle dove leggere la trama segreta delle rotte del sangue, scorgere il battito lieve di ammiccamenti pulsanti e così ogni donna le mani dimentica, ignora le sue come tu adesso le tue mentre le sto masticando e ne faccio poltiglia perché non riesco a dire quello che vorrei dire sulla lunghezza delle dita un po’ ingrossate dal lavoro, un po’ arrossate dai detersivi e dalla vergogna di quello che hanno fatto a uno più fortunato; sul quel po’ di nero sotto le unghie che sono il lascito d’un peccato; dita che battono la pelle tesa del tamburo dei cuori che hanno bruciato, che hanno impastato nella placenta bollente la sostanza confusa dei figli e fatto e rifatto gli uomini che ti hanno presa come conigli. E a me invece prepari solo un caffè con grazia veloce e consumata maestria e nel mentre sono bagnate come il fradicio desiderio di ogni volta che le ho sognate perdendo la via. Le mani che hanno l’odore del giorno che le ha pregate di stringerlo in vita per allungargliela e dei luoghi segreti dove sono apparse veloci come snelli, sotterranei animali, sauri curiosi trotterellanti in cunicoli che si affacciano nelle tane occhiuti per una frazione di secondo e poi scompaiono veloci come sono venuti. Se si infilassero dove dico io quelle mani, se una solo di loro afferrasse quella parte di me da dove l’anima chiede di uscire e prima piano e poi forte con carezze e strette e pause sapienti e svogliatezze maestre mi consolasse in un attimo di una vita, diventerei lo zampillo di me che schizza fino al cielo con le tue dita che mi tengono in vita ben stretta la vita.
Id: 13474 Data: 12/03/2012 17:25:25
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La distanza da colmare tra insipienza e oggetto
La distanza da colmare tra insipienza e oggetto e adolescenza si nutre ancora del mio sonno. Si abbassano vanamente le palpebre sulle ore ruminate. Il torneo delle mai acconce parole non cessa di giostrare sulla mia testa. Risoluti avvoltoi saturano la galleria odorosa – profumata di buccheri che una stupefatta tomba rivela discinta dalla luce improvvisa e ora la morte è una polvere che il vento seduce, questo l’ingenuo che in braccio la conduce a varcare soglie che ci sono vietate per… Prima o poi sarà impossibile anche pensarti. La sostanza riempirà i cunicoli con la necessità illustrata che trapassa lenti e fronti spesse e appaga e paga e semina il lunedì la mèsse domenicale. Prima o poi sarò io a non dire più io, sarai tu a non dire più tu e santi in bilico sugli acri rebbi di concordi calendari sulla apocalisse ventura. Il sole sta tramando il giorno dietro le quinte di una notte irresoluta e prima, all’occidente, il ragazzo credette che un’ingenua fronte potesse stupire il tramonto. Lui che col sole cresceva e tramontava e di notte diventava la sua anima malinconica ai raggi deserti… Il ragazzo percorse quelle trincee baciando i cadaveri freddi di suo padre lambendo i piedi di quelli di sua madre assunta in cieli lumeggiati di biacca i cieli assorti nell’albagìa della separazione ammantati di un lutto sbiadito dalla perplessità un tempo vi covava il tempo le sue sorprese ermetiche il sapone spalmato sull’albero della cuccagna e la marmellata sulla fetta di pane
Id: 13407 Data: 10/03/2012 11:30:33
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Qualcosa
Il mal di testa che mi perseguita da una vita, e l’essermi arenato in una depressione lungo disteso davanti ai salmi della pubblicità è solo il ricordo anodino dell’eternità che non posso condividere fino a quando un paio di forbici non realizzeranno il corto circuito ai rintocchi fatali in un pomeriggio domenicale con le strade bagnate di una pioggia vergognosa. Vorrei che la lettura di questa premessa fosse la terapia per ripulire lo specchio e ricominciare daccapo davanti al maestro immobile con la bacchetta levata come nella speranza di far fuori una mosca. A volte uso i ricordi come arcani ma il responso è vago come ogni verità non macchiata di sangue. Qualcosa che fu sepolto dalla sua stessa ombra qualcosa che i bambini non videro giocando a nascondino una larva che ha cambiato come era giusto ogni volta che era necessario la sua biancheria intima sta grattando contro la porta fatiscente di questa poesia e vuole dire la sua mentre la stagione rimpiange la sua adolescenza e la prossima è già in ceppi tra le butterate stelle, le squadernate e idiotiche geometrie. In quanto a te, ti ha fatta Dio, per me. Tu giri intorno al mio incidente e mi proteggi dall’alito pestilenziale della vita in fieri, dai ruggiti famelici dei topi.
Id: 13322 Data: 06/03/2012 13:20:27
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Canzonetta
Il desiderio genera metamorfosi trasforma spietato uomini e cose. Adesso sono un cane smagrito che annusa avido l’aria come un poeta smarrito il refolo suo d’infinito. Che ci faccio in mezzo a queste rose che la mia zampa non può cogliere per comporne una assortita collana alla tua assenza, divertita sovrana? Quando troveranno la mia carcassa chi crederà che un tempo vi batteva un cuore che suonava la grancassa di un impossibile amore? Il tempo come sempre aggiusterà tutte le cose. Farà crescere cespugli di fresche e aulenti rose, plasmerà alla vanità un nuovo percussivo cuore, per l’oscuro naufragio di un altro dannato, irrevocabile amore.
Id: 13248 Data: 03/03/2012 10:36:41
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Il libro non trovato
La scheda di consultazione in bella vista compilata secondo normativa e soprattutto la collocazione, come da catalogo, dritta, non corsiva con chiara grafia, in stampatello ( sarà respinta quella non conforme alle indicazioni di cui sopra ). Accurata la ricerca nella penombra delle sale austere ed ordinate. I commessi lucidi e solerti, esperti con indici allenati a separare opuscoli da volumi rilegati; diligenza ed esperienza e memoria visiva adoperate, scalando scale a trocciola, verso quote di alti plutei ( i più temuti il 30 e il 6 ). E tutto corrisponde: armadio, palchetto, numero a catena, ma il libro è fuori scena. Acerrimi riprovano a tentare ( sia caduto? ) dietro gli altri allineati che rispondono etichettati sull'attenti, in fila, a una lettura nuova: ma il richiesto consultando non si trova. E allargano, perplessi, lunghe braccia; adducono, confusi, bellici eventi, bombardamenti, il sisma che trascinò di sotto le accessioni negli scantinati, i libri nelle carriole che li ricondussero rinfusi nei mobili segati. Il volume che pure ha un titolo, un rinomato autore, i dati bibliografici, il notissimo editore, la scheda che tutto questo prova... Eppure il ricercato non si trova! E per soprammercato nessun registro documenta un prestito, uno spostamento ( e poi dove dislocato? ), un pasto di faune bieche di antiche biblioteche, per troppa sete l'esecrando furto ( incomprensibile ) del recipiente in forma di una branca dello scibile. Che fine avrà mai fatto la compagine di quelle inumidite pagine legate al dorso forte del raro marocchino? Nessuno lo sa dire. Ma forse ciò che è stato scritto è tutto da ridire. Così si stenta a credere che un libro troppo noto sparendo abbia lasciato un largo non colmabile, un guado, un varco, un assoluto vuoto.
(riproposta)
Id: 13104 Data: 28/02/2012 10:00:48
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Ventaglio
Meriggi delle sognanti riviere dove antiche maestre di pastiere nel salone sedute in circolo della villa marina salsa di mare con te smuovono l’aria secolare del loro mistico, esoterico dire che lento si leva fino all’orgia scomposta dell’umido scomparire. Strumento dell’arte innata della donna che rapida sadicamente dietro di te si cela; arduo tentare il marmo della colonna che porta scolpita la voglia che appagò la mela. Soffia allora come sapiente solletico verso colei che pura dorme ignara fa’ che assai le pruda e frenetico il suo indice percorra la parte cara; dischiudi quindi cauto le valve della sua recondita conchiglia fammi adornare della perla preziosa che dentro vi sfavilla. Ventaglio odore ferino di serraglio afrore dell’ attesa di ansiose bestie che accovacciate frenano l’estro e battito binario, oscenità del due: una donna pregna languida rinfresca nella voglia la perversa sua duegna. Ventaglio ancora nel silenzio la tua essenza degna dell’assenzio; il braccio che ti tiene teso benedice il vuoto sottinteso. Ala portatile dell’estate ciglia vibratile di chi sogna le cose che sono state foglia d’autunno sconfitto nei decori del tuo tessuto che raccontano il sogno di un bambino nato un giorno e mai più vissuto. Ventaglio sublime nella mano ignota mandi l’aria a un volto, ad una gota arrossita di vergogna, agli occhi chiusi di chi sogna. Ventaglio delle signore aperto e subito richiuso, sesso dei preliminari; ventagli sensuali, aperti nell’abbandono degli appagati estuari. Scettro della stagione amica sogno di un comando semplice e mite ventaglio coi tuoi grani, spiga, soffio silente e complice delle nostre vite.
(riproposta)
Id: 13045 Data: 25/02/2012 15:08:52
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Rende immortali
Rende immortali. Assicura la carriera, i contatti umani. Preserva dalle malattie. Procura donne, piaceri e musica e premi di giurie. Insomma, è una cosa ambita. E’ da consigliare ai giovani un profondo disprezzo per la vita.
Id: 12967 Data: 22/02/2012 11:38:18
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Stupidamente
Non ho mai tenuto un diario e forse un altro da allora lo sta tenendo per me. Ma che importa. Altro non è un diario che versare cotidie un po’ di nero sull'innocenza di quel bianco e ritenerlo un veramente vero; infilare ombre di noi tra le pagine e credere di riconoscerci, negri, nell'affollata tenebra della voragine. Non ho voluto mai raccogliere figurine di me nudo existente nel campionato ab aeterno vinto dai Tre che corrono tutti-per-Uno. Ho preferito sognare un povero nessuno, un uomo senza nemmeno un sogno, stupida- mente, perché era lui stesso un sogno.
Id: 12934 Data: 20/02/2012 20:17:20
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La venuta
Was this the face that launch’d thousand ships? Christopher Marlowe, Tragical History of Doctor Faustus Il giorno che per avventura sarà dato all'incessante turba delle ombre incappare in questa memoria, quella potrebbe con stupore grande sentir pronunciare: Eccolo di nuovo, il padrone della bellezza. Armeggia con invisibili fili, spinge sottili asticelle d'acciaio s i c u r a m e n t e dietro gli zigomi della Venuta e dietro le sue labbra – lì dà il meglio l'arte sottile del padrone – che fa pulsare non come un cuore ma come se un cuore dovesse da quelle apprendere l'arte della vita ritmica che fa dell'universo un inavvertito, perenne battito... Tu sei la Venuta, da un luogo che la tua assenza rende ora più sacro, più diletto al sapiente trampoliere che tra sé e la terra pose la longilinea aristocrazia della snellezza. Ed ecco che il tuo viso mi appare ora come una appagata colomba; ma è un attimo, perché le conserte ali riapre e se potesse la luce rientrare in se stessa e rinnovata riuscire potrei dire: è a questo che sto assistendo. In quest'angolo di stazione ferroviaria da dietro un vetro io mi godo, come milioni di commilitoni in altri schedari del mondo, ciò che non mi spetta e aspetto che il barbiere mi chiami, mentre chiedi a uno della Polfer - dall'anima fino a prima di parlarti brizzolata e che si alza continuamente sulle punte dei piedi solo per avere gli occhi spenti all'altezza delle tue mandorle d'oriente - chissà quale destinazione in questa terra che non ne ha più una da un pezzo, da quando nessuno di quelli che contavano avrebbe scommesso sul privilegio che certifica la sua, la nostra fine. .. Cos'altro posso fare se non trasecolare allo svariare senza requie di pause e scrosci di luce che forse mai su una tavolozza combinò il caso o la severa necessità cui a volte è demandato di tenerlo per mano, mentre per un attimo mi ferisci avvedendoti della mia sagoma dietro i vetri appannati o più lontano guardi, dove vanamente le nostre colline senza storia esibiscono i loro leziosi contorni, come disegnate da uno scolaro desideroso del voto più alto... Il paesaggio intona la contrizione calvinista della mattina domenicale, delle ore che precedono lo sciamare disordinato delle malriuscite famiglie dalle chiese sature di incenso, noia e rassegnazione per le strade dove fumano cumuli di sterco deposti dagli stalloni impettiti della polizia urbana a cavallo e i più indifesi degli adolescenti e degli anziani stanno chiedendosi se Dio nel suo settimo giorno non abbia riposato, ma piuttosto, abbassando le palpebre, lasciato che le sue mani modellassero te - non come il figulaio l'argilla ma l'amante l'amata; se Dio non abbia piuttosto soffiato sulle ceneri della fenice perché l'incalcolabile volo nei tuoi cieli, la tua inattingibile presenza ci smarrisse per sempre, oltre il tormento della tenerezza, oltre gli anni assegnati, di là dall'ermetico miele della tua bellezza.
Id: 12891 Data: 19/02/2012 12:30:56
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Polvere
Sapete? Non c’è commozione nell’eternità della polvere. E il suo sarcasmo smisurato, contegnoso come ogni vendetta motivata solo da se stessa si manifesta nel travaglio senza riposo con cui va posando su tutte le cose il suo lutto invincibile che è il martirio del nostro. Abbi pietà! – direte – la sua è la pena di ogni perìbasi, di ogni ciclo penoso che nell’asfissìa del ricongiungimento va componendosi senza requie. Non la apparenta forse ai migratori quest’umile andare intorno in ogni dove? ai nomadi che inseguono la sedentaria eternità essendone inseguiti? Non si può essere così severi con chi da sempre abnegante rinunciò a farsi di sé un’immagine. Se lo fece fu perché su ogni immagine potesse posarsi e pesare l’attesa inutile, la polverosa ansia noiosa. Guardate, ora una festa esplode nella, sulla sorpresa notte nuda, vergine matrigna alla prostituta e l’invitata, la festeggiata, anzi, è la polvere… Non quella che eravamo, ancora essendo e in cui ritorneremo ma colei che respiriamo, deserto in diaspora di sontuose tracotanze che sazia padrona si aggira tra le sue stanze galattiche e, vedendoci, polvere ci chiama, sontuosa giammai ma supponente, noi proci all’eternità, noi fingendo persino commozione con sul volto lei che la nostra vince perché è lei la polvere unigenita. Per lei si aprì il teatro tra un firmamento e un’aspersa folla muta.
Id: 12841 Data: 17/02/2012 12:06:28
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Un poeta non è sempre poeta
Un poeta non è sempre poeta come un pasticciere non è sempre uno prigioniero delle lecconerie. Cosa sono allora i poeti quando non scrivono sotto il giogo dell’ispirazione? Si schiarisce la voce la vecchia; va a confessarsi; si inginocchia sul legno e comincia a parlare. Il prete non può credere alla pornografia che quella gli passa attraverso i fori del confessionale. <<Ha provato piacere?>> <<Sì, piacere e anche male che, come lei sa, è l’ingrediente indispensabile per godere e prima l’ho eccitato con la bocca non senza essermi tolta prima la dentiera…>> Una lunga pausa segue la confessione dove mondi cozzano con mondi nel fresco un po’ umido della chiesa in ombra; il prete stravolto nell’abitacolo levati gli occhi a un presumibile cielo; la vecchia che ha fretta e tanta voglia … Ma la guerra dei mondi non lascia tracce: nessuno ha vinto, non c’è un quid che affiori da chiudere in un recinto e il silenzio ingoia tutto prima che la coscienza animi un fatto. La vecchia quindi si alza per espiare con le preghiere di rito, ma sente male solo alle ginocchia e mentre prega pensa al ragazzo che ha sedotto, a quando lo rivedrà – lei col trucco un po’ pesante e un negligé che miracolosamente non si è ancora strappato. Il ragazzo abita di fronte alla vecchia e quando la va a trovare - portandole qualcosa da parte del vicinato - fanno ripetutamente tutte quelle porcherie. Un poeta non è sempre poeta come un pasticciere non è sempre uno prigioniero delle pasticcerie. Il ragazzo quando non fotte la vecchia scrive magnifiche e struggenti poesie.
Id: 12765 Data: 14/02/2012 10:06:55
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Negli anni può accadere
Negli anni può accadere (ma è così raro) che sei a un davanzale e senti che un sogno sta lì lì per colorirsi ai tuoi occhi di uomo rimasto bambino; un sogno così bello, sognato una notte ormai sepolta coi corpi inariditi dei tuoi vecchi, dei compagni che perdesti la penultima volta. E senti che quel sogno sta lì lì per farsi ricordare tutto come un misurato scroscio dell'acqua di una pioggia buona; come un passero pare voglia posarsi piano sul ramo meno torto di un albero fiorito ma all'ultimo momento, impreveduto, devìa e non comprendi tu perché un così povero miracolo non ci sia, una così povera speranza non abbia preso il suo colore e, vinta, sia svanita; perché mai ami così tanto quella sua scialba, monotona tinta nostra vita.
(anni '70)
Id: 12677 Data: 11/02/2012 09:52:43
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Tra le doghe veneziane la luna
(…alba d'un solo tenue velo paga alba che non troverà mai suo giorno nelle stazioni sue dolce indurita insegna alle anime nostre la croce e le delizie della nostra inutile vita…) Tra le doghe veneziane la luna, anima delle anime sospesa sul germoglio della compiuta dolcezza della sera… Ad un alito freme e pare che se un cane abbai all'aria la slontani, navicella alla balìa tormentosa di una varia corrente serpentina. Quello che sai fu già polvere che seppellì i geroglifici del Libro e Lei è una danza, così vicina… Se tutto tace pare che il suo fruscio con quello d'ogni fronda in un solo innominato vento confonda i superstiti sogni della guerra. Ognuno ha il suo posto sotto la luna che vuol dire ognuno non è di questa terra… Così è la notte una sera delusa, il giorno una disperata notte. Ma tu, anima delle anime sospesa, danza tra i raggi dei nostri occhi, che nessuno dei mostri ti tocchi, offesa potresti raccogliere il manto e svanire con gli astri tuoi fedeli, smarrirci più che il tuo nettare… Tu, anima delle anime sospese, amaci e poi odiaci come tuoi figli, come soltanto sa fare un immortale. Io nulla conosco che un po’ ti somigli. Và, poi torna, come ci ha abituati il mare. (anni '70)
Id: 12665 Data: 10/02/2012 16:19:20
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I poeti
Dopo che ebbe creato il mondo, il Signore si concesse un giorno di riposo, e chisto è fatto risaputo, sta scritto dint’’a Bibbia, ma ci manca quacche ccosa. Infatti, in quel giorno di riposo, il nostro Creatore andò in giro per il mondo, insieme al braccio destro, ad ammira’ le cose del creato, pe’ controlla’ si quacche ccosa nun fosse nata o si nata fosse arruvinata. Così passarono in rivista piante ed animali, quelli docili e i feroci, acquatici, terrestri e con le ali; scrutarono montagne e fiumi, pianure ed acque, insomma tutto ciò che lì viveva dal giorno che vi nacque. Poi fu ‘o mumento ‘e ll’uommene che nunn’avevano aspetta’ Adamo ed Eva, principi della sfera; nossignore, ll’uommene erano già tanti e m’avita credere se ve dico che fra l’uno e l’ato erano già luntani, assaje distanti. Il Signore e il suo aiutante, visto che erano già tanti, li divisero in gruppi per poterli meglio controllare e all’uopo, nel caso, per divin decreto, scartare. Allora controllarono i mercanti, gli artigiani, i medici, i ruffiani, gli impiegati, i lestofanti, contadini, mariuoli, nullafacenti: insomma, oneste creature e malamente che già fissavano l’uocchie alla lor vita futura, col consenso del Creatore, lì presente. Così, di gruppo in gruppo, arrivarono alla fine, addó ce steva gente che subbeto se capiva che erano diversi ‘a ll’ati: pecchè erano sofferenti. Chi ‘a into e chi ‘a fora se capiva che purtava ognuno nu dulore e pure na paura: che i facesse continuà a vivere, ‘o Signore. Ce ne steveno brutti, deformi e zuoppe; curti, sgraziati e strutti; quaccuno, ca capa vascia, s’estraniava, comme fa chi sape ch’add’affunna’ pe’ forza ‘a nave. Ce steveno i malinconici e ‘nci’o lliggive ‘nfaccia; i solitari; chilli che già sapevano che duvevano paga’ pe’ puté avé n’abbraccio; chilli che senza essere delinquenti, avrebbero fatto suffrì madre e parenti, pe’ chella scintilla di dolore universale che nc’era rimasta dint’’o core, quanno nce venetta l’ansia ‘e nce creà, a nostro Signore. Vedenno chesta strana gente si rivolse l’aiutante al Creatore che mai aveva visto così esitante, cu ‘na luce nova dint’a’ ll’uocchie, cu ‘na mano ncopp’’o core, e ne dicette: “Maestro mio, forse siete stanco e non sapete cosa fare di questi qua; ma ascoltate, permettete, forse l’avimmo truvate chilli ca nun servono al Creato, scusate, ma ‘i putessemo scarta’…”. Allora il Signore si voltò, lo guardò severo in viso, poi fece, da quando s’era fatto Creatore, il suo più bel sorriso e ne dicette: “Statte zitto, nun parlà, scordete chello ch’’a ditto! Chisti figli ccà so’ cosa mia, song’’i poeti, hann’’a fa i poesie!”.
(anni '70)
Id: 12584 Data: 07/02/2012 10:25:08
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Un trailer di me
Me ne sto qui, confitto in questo presente e fumo per lui, per tutto quello che è passato. Quando la sigaretta finalmente ho terminato a molla col pollice e col medio, abilmente, tiro la cicca che schizza e mi precede atterrando in un punto del futuro, lontano, finita, sfinita, offrendogli un trailer di me, di quanto plausibile, potrà ancora dirsi, proponibile 'sta vita.
Id: 12569 Data: 06/02/2012 19:25:59
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O mandarino e Natale
Io t’offre nu mandarino ‘e Natale e tu me chiede : E’ doce o è acrigno? Pecché si nunn’è doce, pe’ me nun vale: Natale nun po’ essere maligno! Forse hai ragione; ma io manc’o saccio che d’è sta festa; nunn’è facile ‘a pesà chell’ ca vene, chello ca va, chello ca resta… Però te voglio dicere: stu frutto giallo tu mangialo ugualmente, pure si è nu poco acievero; stu frutto nato dint’o verde cupo ‘e nu ciardino ‘e vierno. Pecché si Natale, comme tu dice, fosse tutto doce, nun fernesse ‘nt’a tristezza ‘e na Quaresima, nun muresse ‘ncopp’e lacreme ‘e na Croce. (2005)
Id: 12496 Data: 03/02/2012 11:10:18
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LAltro
L'Altro ordina e confonde lasxia intatto il disordine la rinfusa quietanza quotidiana imperterrito agisce l’immobile [motore. Forse ironizza le quisquilie che questo nuovo sole [bagna della scontata luce stagionale. L’Altro che altro ha da fare dal fare che garbugli semina distanze nelle stanze nei cunicoli dell’insipienza ha un’insolenza che calcina [la tua ansia. O troppo noto ignoto che seduci un’ombra a scorporarsi [intatta tue son la noia et l’afflitione et la ventura et onne altra maleditione. (anni ’90)
Id: 12472 Data: 02/02/2012 10:58:17
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La Bestia
La scrittura concorde e consona della domenica – potrebbe essere una bisestile dell’acido febbraio – descrive uno dei modi della Bestia. Poni sia il riposo e la testa sua che lenta gira a servire l’occhio cui segue il danno. Tiene le cose già atterrate, atterrite in dominio, in un cortile in ombra si fa vento, vortica la carta straccia, tallona e sgherro spintona qualche incartapecorita foglia di gerani sotto un muro, con quella larga coda, agile e pesante stecca sulla tesa pelle dell’orbe tamburo, lei molto eccelle. Fuori, nella gloria del sole, la stessa fa danzare chiome sonore, rulla alberi alle radici, genuflette, fa serva una rosa. Noi la rinominiamo mistici diversa cosa.
(anni '80)
Id: 12416 Data: 30/01/2012 18:21:50
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Non più tacere
Lo stesso canto degli uccelli a marzo prima dell'alba è pena, si fa nella matura luce sfarzo. Ogni volta ci lascia, ogni volta ci lasciamo, e di lui il vuoto si riempie. Ne segue l'anima la scia, la pena del respiro che sappiamo. Ci sarà un tempo che le giuste parole renda, la parca eloquenza consona al momento che quel silenzio indurito alla fine arrenda, alla corolla di un abbraccio, a un bacio sbigottito di fiorire in due bocche da così tanto amare che mai pensarono di poterlo fare? Ci sarà un tempo che il silenzio giusto sappia cogliere, la dignitosa assenza della voce intrusa, che le parole estingua al tacito avvinghiarsi, alla cieca stretta e pura che fa luce del piacere e della luce lampo che t'incendia [e dura? Io dico che tempo è di questo il tempo: che se silenzio pensi, parole mediti che vanno, quello ti oltrepassa, e solo per questo si fa danno. Ma lui con te vuole restare, se risponde alto alla sua legge amore. Oltre sé va, con sé ti porta verso un complice, inaudito mare, a una calda sabbia tenera, dove non più tacere, non più dire, [più non morire.
Id: 12371 Data: 28/01/2012 10:04:19
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Sanno
Sanno dove la volpe e la lepre vanno a dormire per stanarle senza stancarsi nel doverle inseguire. Sanno come sgozzare gli inermi agnelli nettandosi il sangue dalle mani sui velli dei capri esiliati nell'infausta orbita del vuoto intorno a Babele, [alle sue buie mura. Non è altro che questa la loro profonda natura. Sanno il mitico tallone pure di ogni povero innocente dove ognuno padrone la sua freccia avvelenata scocca, [maledetta. Fanno questo per sei giorni e il settimo si rifanno la bocca con un'ostia benedetta.
Id: 12326 Data: 26/01/2012 11:53:25
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Vernice
Per un punto passano infinite rette, ma in tutte le direzioni, non soltanto sul piano di concentramento illuminato dalla lampada azzurrata. Allora attenti agli occhi, preservateli dagli aculei! Potete sentirmi? Va tutto bene. Va tutto bene. Vi voglio bene. Lo stesso, quindi, vale per un ombelico. Pertanto beato chi ne ha due, meglio se gemelli e un'unica retta quindi sulla quale appollaiarsi nello show garantito dell'ara parlante. Qui invece si discorre o discute di chi ne ha uno [l'argomento era parallelamente Il Caso, della necessità non essendo quello dopo la sua morte per gas in Europa orientale. Il Caso, concluse per tutti un tale con cattedra a Tapioca, volle che un bottone restasse dove era caduto – nulla potendo intemperie, pedate, perché trovavasi il citato per caso in una commessura (quasi una trincea) che lo protesse dagli spostamenti - . (Non potevano sapere essi che accortamente lo avevo evitato per un anno , per la scienza tetraplegica degli idioti che furono pagati in vece della mia diligenza- venerazione per quell'occhio velato da una cataratta in similpelle)]. Ma tornando a noi, quello che vide Euclide fu solo un millimetro di ordinata vanità. Ho sempre stazionato (pure praticando migrazioni da monarca) tra il più e il meno (ma sempre! - repetita iuvant - in ogni direzione). Per questo al quiz scelsi (pur proponendomi solo busta 1, busta 2, busta 3) quella meno zero e mi dissero che forse non avevo capito il disponibile ma io contestai e il presentatore e il notaio e la trasmissione. Dissi che sostituivo uno (vedi un po’ i numeri!) che all'ultimo momento si era illu- minato. Ma non ci fu verso, o questi, se tali. Le infinite rette, gli applausi con una mano sola, la busta meno zero, il punto-ombelico all'infinito trafitto da infinite rette a for- mare il riccio indefinito multiversale… Molti saranno chiamati ma… Quello che sento da sempre è l'odore che dà la vertigine della vernice fresca con cui è continuamente frescata, rivestita, colo- rata, addobbata, camuffata ogni mollica, mollecola. Vernice fresca per le nostre casse da vivi e, come chiamarli/e?, quegli/lle uccelli/e che sbattono contro la volta nascimentale del mio cranio (essi/e vedono in trasparenza, vedono la trasparenza). Allora… Allora chiude il libro delle Salme e mi dice: "Abbi fede !". Ma se è proprio questa una fede! La certezza della vernice fresca, su tutto di nuovo nuovamente e per sempre riverniciato, il davanti e il retro della casa, l'interno e l'esterno del mio cranio e come chiamarli/e quelle specie di uccelli/e che impattano continuamente contro la c'era una volta della mia cupola/cranio e a questo sono stato chia- mato e l'odore acre, inmeagente mi brucia le mucose che continua- mente vengono riverniciate… Vernice sempre nuova sugli oggetti della mia tenerezza che invano tento di occultare nel freezer, in posti dove nemmeno il più matricolato dei topi d'isolamento mi illudo riuscirebbe a scovarli e mentre lo scrivo al computer pure il Norton si arrende e sventola un drappo bianco inutile a dirlo, immediatamente imbrattato; vernice freschissima sulle ceneri dei miei morti, sui figli che io e mia moglie non abbiamo nemmeno potuto seppellire, ver- nice sui vivi che incontro grondanti di colore, mi telefonano e dopo un po’ si impaperano per i fili colanti di essa pure tra le loro labbra dischiuse e Molti saranno chiamati ma… Come deve essere tutto questo ad ascoltarlo pure posso vederne un effetto in te che guardi di lato riverniciata alla fine di una intervista su come intendete salvare una specie se non fosse per voi in via di liberazione… L'ultimo fotogramma fermato alla platea nauseante e unanime di quelli che aspettano il sabato… Chi ha fatto questo conosce la vernice e il modo di produrne in continuazione.
Id: 12242 Data: 22/01/2012 11:32:15
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Un film già visto
Prima di essere precipitati nel tempo o, se vi piace, prima che cantasse il gallo, io e mio padre, l’uno dell’altro all’insaputa, ci infilammo di soppiatto senza fiato dentro un cinema dove era iniziato un film vietato ai minori di ogni età. Durante l’intervallo, l’uno dell’altro all’insaputa ci avvedemmo, ma fino alla fine ugualmente vi assistemmo, perché all’uscita, ignorandolo entrambi, l’uno vide l’altro allontanarsi di soppiatto dalla sala. Il resto è un silenzio noto (se si ignora la stridula adunata del gallo caporale), un classico fin troppo banale da circostanziare. Un film già visto da ambedue due non se lo possono raccontare.
Id: 12191 Data: 20/01/2012 09:25:24
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Pure talvolta prova
Pure talvolta prova o pare una pietà mostrare il dolore, concede un armistizio mentre di te fa strazio, ma mai una tregua dà amore e a perpetua prova di te fa scempio, si nutre, giammai si sazia.
Id: 12167 Data: 19/01/2012 08:38:15
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Due colombi
Due colombi, uno bianco l’altro nero, coi lombi acrobati sullo sbrecciato cornicione appaiono inquieto l’uno, l’altro altero. Come per una richiesta disattesa è l’emozione che turba a un tratto il nero inelegante e fanno estranei un tratto breve ma appaiati poi divisi la coda si danno in un istante, per affari che non saranno certo concordati. Due colombi, non due di quei falchi rapaci, due emblemi disposti in piena luce, comunque figura di tutto che gli animi fa esser capaci, nel mondo di sopra, di sotto, e quindi ovunque. E tu pensi a ciò che è concavo e al convesso e non è certo detto sia poi convesso il bianco e nero il concavo nel caro piccolo consesso. Le parti furono decise molto prima al banco e ogni colore si fa solo in universo, e manco. (1995)
Id: 11612 Data: 17/12/2011 16:21:23
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Quello che vogliamo
Quello che vogliamo dire (non quello che vogliamo) è questa purezza del silenzio e quell'attesa che in lui con noi va disfacendosi. Quello che vogliamo (non quello che vogliamo dire) proprio quella purezza traccia invisibile sul margine del foglio. Sul margine bianco delle spiagge di pomice del mare di ossidiane tacqui la felicità che stride dalle gole dei gabbiani. Come fui grato allora ( ma non c'eri tu, non potemmo abbracciarci) al dio che ride, alla divina cura che ignoto pone nel cancellarci. E fui sulla rena finissima il vento, sul talco impresso dal mio piede il vortice che negò la mia discreta esistenza. Solo chi sa, allora appresi, tacere al silenzio, la sua carne trasmuterà in Essenza. (1990)
Id: 11595 Data: 16/12/2011 09:07:41
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Gitani
Di noi è tutto vero. Letto nelle lingue di fuoco del bivacco che vedi dalla tua macchina in corsa e il giorno dopo il ricordo t'ha disturbato. E' vero il vero come è vero il falso, lo sbagliato, il re cencioso di gioielli, il bimbo nudo e scalzo; che ti priviamo dei sogni tranquilli, che abbiamo svaligiato la casa a te e a loro, ed è vero l'oro che ti abbiamo tolto solo dopo che pende dal nostro collo, stringe i nostri polsi, ci luccica agli anulari. Stiamo tra gli angeli ribelli e quelli ordinari, prudenti come tutti i delinquenti, e navighiamo senza rotta con le prue taglienti dei nostri profili nobili sulle sabbie mobili del vostro industrioso divenire. La nostra tribù non può morire, perché non abbiamo il vostro cuore: ha forse un cuore il vento, una passione, un po’ d'amore il tempo inesistente, la vita negligente? Siamo l'unica prova nel vuoto che incolmabile è il vuoto. Non ti dice nulla che noi togliamo come il tempo, la morte, Dio tolgono? Pensa di cosa siano privati i gitani, prova una volta a immaginare il mondo senza noi … Tranquillità: quale? Noi siamo nella voragine dove tu potresti inopinatamente finire (no, non ringraziare), siamo le ossa che fanno pieno il sepolcro sempre pronto ad inghiottire uno che s'è un po’ distratto. Tu, nella balìa del tempo, puoi giurare oggi quello che sarai domani? Tu ci osservi da una casa che credi sicura, noi siamo il popolo del terremoto che da sempre dura, di cui non vi accorgete. Se noi siamo di passaggio, voi allora, diteci, di cosa siete? Di noi è tutto vero. E' vero il vero come è vero il falso, il re d'oro cencioso, il bambino scalzo … (2000)
Id: 11551 Data: 14/12/2011 08:44:46
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LEPPUR ALTROVE
Resta scritto dentro un corpo di parole. Non potendo essere detto perché assolutamente Reale la tentazione particolarizza [l’Universale. Così sbiadendo chiede altro Nero, altro Nome, un nuovo Come, l’eppur Diverso, l’eppur Altrove.
Id: 11496 Data: 11/12/2011 12:17:11
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LUMILE DORMIRE
E' l'ora morta che ci ha vinto, che già dorme il simile di ognuno e sul viso porta, a farlo uno, il suo proprio zodiaco dipinto. E' così che ognuno è vivo, nuda l'anima sul volto, cresciuta ai mali suoi nodosa come i rami contorti dell'ulivo. E sognare non è più vogliosa brama di perfetti desideri. Certo solo una cosa vuole dire: stare intatti fra gli spenti pensieri, destini avvolti nell'umile dormire. (1995)
Id: 11468 Data: 09/12/2011 12:38:10
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MISS STIVALE
Tu non esisti, segni non lasci. Fosse un rametto spezzato, lieve un'impronta di piede scalzo su una spiaggia di bianca pomice, un alito che possa un po’ appannare lo specchietto d'un portacipria. La tua è l'eleganza sobria del niente paludato in noia, l'autosufficienza della deficienza invulnerabile, della bellezza che ha preferito al fascino l'animale, il dubbio pelvico tra il diaframma e la mitica, labirintica spirale; all'essere qualcuna tra le tante l'acclamata tua inapparenza su uno schermo maxigigante. Tua madre ti iscriverà al concorso di miss Italia che già hai vinto standotene sdraiata e tuo padre ne sarà geloso, ti farà una scenata. Ma il tuo ganzo invece orgoglioso, griffato cretino da un piercing e un orecchino, rilascerà interviste sui tuoi gusti molto originali e la tele e i giornali, la spazzatura calandrata delle riviste si coloreranno della patina sottile di chi sarà premiata perché non esiste.
Id: 11405 Data: 05/12/2011 18:40:02
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GUARDAMI
Guardami ancora, solo una volta. Fermati solo una volta, ancora, come la prima volta all’improvviso ti sei fermata – eppure avevi fretta – quando mi hai visto – e ancora non so cosa hai visto – e mentre tutto il resto del tuo corpo si chiedeva perché più non andassi, la tua testa era verso di me voltata e nei tuoi occhi brillava come una risposta inaspettata. Guardami ancora una volta così, non per il futuro, che non ci sarà, guardami per il passato, la magia compi di cancellarlo, fa di quel piombo oro, solo con quegli occhi che perplessi hanno riconosciuto in un lampo me, lo sconosciuto, guardami una volta, solo una volta ancora. Fammi credere così che quello che è accaduto davvero è accaduto, volgi in luce quello che doveva essere e non è stato, fallo per il passato non per il futuro, perché così – non ti sembri troppo – potrò dire d’aver vissuto, che la mia vita non è stata sprecata e questo solo perché mentre correvi (ma perché mai lo sapremo) in un lampo ti sei fermata, io più non ho respirato, e tra la folla, con quegli occhi senza tempo, tu senza capire, tu mi hai guardato. (2001)
Id: 11379 Data: 04/12/2011 09:25:50
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LA ROSA NEI ROVI
Sera di maggio che parla il tuo affabile gergo e dai giardini rivela gli orientali aliti. Tu abiti dove non si arresta il giorno, l'incedere inesausto delle ore, e rechi il messaggio, forse, che nulla toglie ai momenti che vivo non districarli - la rosa nei rovi - Porti i tuoi riccioli al rosso che il sole distende alla via da voi gremita, ma non alzi gli occhi: troppo lontano ardo. Sul basalto il tuo passo col pendolo incide un'identica trama. (1974)
Id: 11365 Data: 03/12/2011 08:37:59
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ACQUA SALATA
Il mare di noi che ancora non parlavamo era un cuore che si gonfiava impercettibilmente sotto la nostra meraviglia e la ragione anche per cui una volta sbucati dalle viscere piangere non avremmo dovuto. Dimmi se il sale non ha quel sapore che il mare avrebbe se non fosse quello che in realtà è e se in un angolo del lido che frequentammo bambini l’alchimia ineffabile non lo trasformasse – mescolandolo col sudore, l’acqua della doccia del bagno in comune e con l’odore che hanno gli uomini quando tornano ad essere tali – dimmi se non era quello che ancora oggi ci coglie in una distrazione, in una evasione non cercata mentre passiamo da una azione all’altra del nostro riempire tempo e modelli, modelli e tempo. E’ proprio questa la rivincita che la vita felice si prende con noi: non altro essere che ozio, invincibile ozio. Al quale possiamo contrapporre catene montuose di cartellini timbrati e le macabre statistiche dei caduti sul lavoro senza scalfirlo, l’imperturbabile. Anche adesso che scrivi è una sola la speranza: di non aver lavorato, non esserti distratto, fatto invece una lode all’ozio tenace che con l’acqua salata si disseta felice. (2001)
Id: 11343 Data: 02/12/2011 08:44:54
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KONZENTRATIONSLAGER
Vivere osservando la luce, come sono le cose da questa trasformandola trasformate e pregando a volte che intervenga, se non c'è, il vento. Il resto è un inventario per altre vite, altro inchiostro, differente silenzio. Così pure la morte è un'ispettrice imparziale delle risorse umane per il suo ufficio dotata di una troppo antiquata ridondante (eccedente il fine) risorsa strumentale che oppone solo un visto (tra l'altro previsto) dove una parte giura Kalìfero, un'altra Gesù Cristo. Talvolta mi è facile carbonizzare un ragno con l'accendino non ricaricabile. Mi riesce soprattutto con quelli che non hanno trovato di meglio che fare della tela un compatto bozzolo nell'angolo di una finestra che non viene aperta mai. Alla fiamma regolata al massimo in precedenza, all'ultima anfimissi, quello allunga delle otto le anteriori apostrofandomi: "Kafka! " come un vecchio docente o un prete le adunche falangi artritiche a benedire chissà chi, autorizzato da chissà quale Pentecoste. Non sono altrettanto bravo con le mosche, essendo maestra del loro sterminio a volo mia moglie, a non schiacciarle, a disseminarne l'impiantito di loro integre, appena un'ala fuori posto come un bigliettino da visita infilato di traverso nelle costole o per la punta il biscotto tra le palle del gelato accanto alla bandierina dello stato delle cose. Del purtroppo fin sopra i capelli – ricordi i tempi belli? – e dell'hig teach e delle subdole e-mail… Eppure tutto torna, ritengo. Il fanciullo alemanno che una tantum fu marchiato a Röcken dall' Eins tuth Noth lo disse für ewig un po’ confusamente ma noi sappiamo che l'eterno ritorno non è un mito, il mito (ciò su cui si tace, devesi tacere) è l'eterno ritorno e il sindacato attori tra dilettanti e professionisti fatturerà per sempre a nove zeri. Era così eccitante quando c'erano le razze. Incontravi gente in quantità e nemmeno un fratello con cui dividere un'eredità. E c'era anche la libertà di scegliere, di giudicare. L'operazione partita da Cartesio sopra di lui si è ripiegata, come si abbassa il buon selvaggio [ a livello. Bastò non innaffiare più l'ordinata che a poco a poco si afflosciò sull'ascissa e fu il trionfo del comfort uni- versale-orizzontale-adimensionale e perciò globale, fratello. Troveranno un'altra anfora a Qumran o nel tanfo di altra grotta usata per commerci carnali che ci restituirà Vangeli a oltranza? Ma la nuova novella è già in questa grotta detta DellaTolleranza da tanto di quel tempo che il greco di cui si riferisce parla e vede una sinossi a stelle e strisce, senza neanche un congiuntivo. Chi ha fatto questo conosce l'iperbole e il modo di farne un preservativo.
Id: 11324 Data: 30/11/2011 16:39:52
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HOR – EM – AKHET
Il tempo reale – quello che da se stesso è dato, ma noi diciamo: ci è dato – il tempo, quindi, irreale, pare che voli ma sta come suo emblema nel mantello delle sue ali, nera aquila alta sui recinti dei nostri illusi calendari e con un’indulgenza li benedice magnanima che non si è incarnata, per amore o per pudore, semplicemente. Giocano i cuccioli di leone con il padre paziente, con tenere unghie già aguzze si appendono alla ospitale criniera, gli mordono la coda... Ma la testa di Giza guarda da sempre altrove, verso un orizzonte più alto delle loro moine e talvolta contrae in uno scatto la polverosa pelle del dorso per scacciare un insetto, intruso della grandezza. Fissa il punto lontano, il giusto parallelo, nimbo che domina di luce e incinge il mondo, al di sopra dei cuccioli, di se stessa. Il Dio-Falco antico sfida con lo sguardo il nodo sciolto-involto dell’ombelico, vede in sé la muta leonessa, scruta la radice infinita, il tempo che fu dato-negato, la vita della sua stessa vita. (2000)
Id: 11282 Data: 28/11/2011 09:36:10
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NESSUNA SA
Nessuno sa cosa veramente vede quando il ricordo si compone e su una parte di te, dentro di te, si accampa, quella meraviglia nera fatta di tutti i colori di tutti gli odori di tutti i sapori di tutte le parole di tutti gli sguardi di tutto il non detto di tutto quello che poteva essere e non è stato del tempo sbagliato le braccia che si fermarono all’ultimo momento sospese nell’aria perplessa che quello che doveva essere non fosse… Nessuno sa cosa veramente accade quando il ricordo soffia come sulle tombe un vento serale ed è un ricordo del futuro di ciò che saremo dopo non essere mai stati per non esserci mai parlati, stretti, annusati, baciati, leccati, succhiati, penetrati… annullati perché il tempo urli di piacere dopo averci cancellati.
(2000)
Id: 11268 Data: 27/11/2011 09:48:11
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FITTASI
Ancora una volta il solito oscuro mestiere abusando della carta… Può accadere che la verità ti prenda la mano e in conclusione centri il cestino. Un’altra cosa inutile. Ma l’acqua spadaccina si difende come può coi mulinelli e diverse profondità, gorghi effimeri ma micidiali mentre il suo tempo inviolato la trascina allo stile severo del mare. L’ampio scenario rigurgita (anche qui gorghi) ed è mattina con tutto l’armamentario barocco e lo shopping che con noi fanno tre ore divine per chi sa fermarsi e chiedere l’ora del pianeta in ombra. L’occhio clicca sull’es-temporaneo che durerà nell’angolo in alto della camera da letto senza vista, allineato ma senza segnatura di posizione con le altre immortali opere della mattina giacché la notte non scrive ma è descritta alla luce del 18° Arcano in quel caso romantico despota e più notabile degli altri ventuno, frazioni federate di un più modesto giorno metafisico. Fu in una come questa che su una scialuppa blumarine da impiegati in mare aperto me e mio padre rifletté il dorso pindarico di un delfino che ci sembrò antico e me prese un desiderio di baciargli la pancia al di sopra dell’ombelico. Chi ha fatto questo conosce il sale e il modo di nascondervi un mare. “La vita ordinata delle api…” ti verrebbe voglia di iniziare per confutare un pedissequo iniquo stato della molteplicità con un livore inaudito che stigmatizzi definitivamente la perversione che ha trasformato in una idea la legge selvatica, talvolta (quando la neutralizzi con punte avvelenate di aggettivi squalificativi) perfino tollerabile. “Ma la luce pallida che torna…” come avesti a scrivere negli anni che vedesti danzare il sole intorno a Nostra Signora dei Lordi cancella tutto, usa come è a calcinare dopo aver dipinto, dopo averti spinto a prendere qualcosa che sinteticamente ti dilati ancora di più le pupille. “…la luce pallida che torna…” ha domicilio (di nuovo ma, come si è dimostrato, anche in precedenza) dove le porte erano aperte e prima con ombre credute lettere aveva scritto per te, per la fiducia in una creduta memorabile mattina: FITTASI. Chi ha fatto questo conosce la sabbia e il modo di farne un deserto. (2001)
Id: 11255 Data: 26/11/2011 09:03:45
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MEMORIA I
Non perisce il corpo, l'anima non esala, illecito è lo spirito al discorrere della storia: ciò che muore è solo la memoria. Sopravvivo per non aver dimenticato i lemnischi delle onde dipanare sulla riva il loro caldo interminato intrico e il sole del mio Tirreno tramontato sulla casa di chi credetti un dio amico. Oggi se mi chino a raccattare una scoria di me, una quisquilia indispensabile al cammino, dalla testa mi cadono i ricordi, lenti come i fuochi si consumano nel cielo livido di una vigilia. E così misero si fa il mistero, si estenua della sua gloria di insegne stinte, di memoria in memoria, in un suo ciclo interminabile di quinte. Io attendo nella noia dell'ombra mia il mese che illude l'anno in una giovinezza di puri incanti, di metafisici mattini, che si strugge il cielo alle sghembe fantasie, alle stridule epigrafi dei gabbiani albini; che il mare ricominci il canto dalle gole misteriose dei delfini.
(2002)
Id: 11199 Data: 23/11/2011 09:14:50
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TEMPO
- Chiese: “Dimmi qualcosa del tempo” - Non esiste. - Hummh, banale. - E’ la più ingannevole delle carni. - Lo conosco. E’ il verso di una tua vecchia poesia che come le altre non ti pubblicheranno mai. - Senti, non sono S. Agostino, che comunque se la cavò elegantemente ma non risolutivamente. - Allora facciamola più semplice, dimmi di quel tempo che chiamiamo “passato”. - Il passato è carne putrefatta. - Non barare, è una variazione sul verso di prima. - Allora… allora… il passato galleggia. - Galleggia? - Sì, il passato galleggia. - Va bene, mi piace, il passato galleggia. Ma su cosa galleggia? - Sul futuro. - Sul futuro? - Certo, sul futuro. - In che senso? - Nel senso che quando pensiamo al passato dobbiamo appoggiarlo su qualcosa e siccome lo pensiamo nel presente per non rimanerne schiacciati dobbiamo appoggiarlo, parlando di tempo, sul futuro. - Bene, va’ avanti. - C’è poco da andare avanti, siamo già nel futuro. - E il futuro, allora? - Il futuro non esiste e non dirmi che è banale perché anche i bambini lo sanno. - D’accordo, allora il passato galleggia sul futuro. ma finisce qui? - Potrebbe. - Ma se il futuro non esiste come fa il passato a galleggiarvi sopra? - Il futuro non esiste perché quando lo pensiamo lo costruiamo con qualcosa che già possediamo saldamente e questo ne fa immediatamente un supporto, per così dire neutro, su cui poggiare il passato. - Prima hai toccato il presente di sfuggita. - Di sfuggita è un bel modo di dire. Il presente, se non lo hai ancora capito, è una spiaggia fatta di un passato che non è il nostro, dalla quale osserviamo il mare del futuro sul quale galleggia passato che in qualche modo ci appartiene. - E la malinconia? - E’ la pelle bruna della nostalgia che è quello che provano tutti questi pezzi che vorrebbero ricongiungersi perché credono di essere separati. Se uno sta attento e non supera questo momento evita di impazzire. - E la tragedia? - E’ tutto questo senza un rimedio. - Andiamo a bere qualcosa. - Andiamo. (2007)
Id: 11172 Data: 21/11/2011 09:09:12
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TEOREMI
Spira un vento caldo da dove un giorno siamo stati (era un pomeriggio in cui naufragarono acerrime sieste di catari, di camionisti irati). Ciò nonostante il teorema è sempre valido
ad onta delle nostre care ceneri [da ligi famuli disperse nel mare davanti Scauri. Ciò nonostante reggono i teoremi mentre il vento caldo odora di provvisori barbecues a rifocillare i ponti festivi, [le corone anulari. Il vento di scirocco, il vento del cambio di guardia delle stagioni è quello di sempre ma non si farà mai teorema, un riottoso fantasma. Ciò che regge è ciò che ci finisce e galleggia [sul nostro plasma. Stelle senza luce i teoremi, i vertici delle loro figure inchiodati sul bianco supino delle carte, delle profane sindoni, degli anonimi sudari. I teoremi sono dimostrati sui margini di ogni pagina dei nostri ammucchiati diari.
Id: 11156 Data: 20/11/2011 16:11:19
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DI SETTE NOTE
Non sai più come chiamarlociò che non si fa chiamare. La più grave arte dipingere l’assenza. Pare che tua propria essenza sia questa fatica del non c’è. Ogni ora quindi ha il suo misurato gesto, l’ottimo intento al vuoto pieno di sé. Ti tiene in vita un magro resto, il tu negato che fa un po’ di te. Comunque vita se mai sia piena fedele per quel poco che lei può. Ha sempre fame il cuore e pena, di sette note sempre e solo il do. (2007)
Id: 11139 Data: 19/11/2011 08:34:25
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NOI CHE MOLTIPLICANDOCI
Colui che dividendosi si moltiplica e noi che moltiplicandoci ci dividiamo, noi non ti tocchiamo. La tua trasparenza un poco si colora ogni volta che uno tende le corde in gola per gridare che di te è perduto e gli esce solo un rauco rantolo. Pure, uno nato con la necessità di uno starnuto su te si è coricato e tu alla fine te ne sei scrollata come di un umido asciugamano, con un gesto insofferente, infingardo della mano. Il troppo grande, l’indicibile, il sublime in te si è abbassato. Tu lo gusti intero e niente è vero, vissuto, se non l’hai calpestato, col piede nudo davanti a un altro che se ne sta lì con l’onere vano di volerti amare, come scempiato, ritto sul bagnasciuga inseguendo il computo delle onde in mare. Non mutano le stagioni nella tua perenne, leggerissima insolenza. Se ripeto che ti amo è perché in qualche modo – inesplicabile – in te è calato colui che dividendosi si moltiplica, mentre noi, che moltiplicandoci ci dividiamo, pur attraversandoti, noi non ti tocchiamo.
Id: 11128 Data: 18/11/2011 08:39:11
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NELLE PAROLE IN CROCE
Nelle parole in croce può essere fine del mondo una "o" ( mais avec ou sans son ineffable, croisé, rond histoire?). Che metafora che azzarda quel banale passatempo, però, giallo che ab initio aspramente si rivela un grand noire dove il Verbo inscena negli alvei-nicchie il suo autodafé, nel crudo teatro che nudi levan gli assi a piombo di René. Ma sempre del mondo può nelle suddette eponime prime esser principio dei principi quell'umido geroglifico emme e non è certo per onorare l'atavica usucapione delle rime che qui tanto valga citare l'antonomastico Matusalemme. Ma emme ed o danno senz'errore la semplice sillaba mo, dal latino modo, che tronco è nel regionale idioma adesso. Vuole forse dire che i soggetti a nome Fine e poi Principio son fuori di quel tempo che severo il codice v'ha impresso? Che passato, presente, futuro e, onore delle masse, participio si dissolvono tutti e presto ad un tuo sguardo più indefesso? Ancor più tragica apparirà, ahinoi, quest'altra conclusione: che nascita e poi morte solo varrebbero a colmar lo spazio, vuoto schermo della noia dove per suo spasso il Cruciatore crea quelle caselle che sono suo diletto e nostro noto strazio. (anni ’90)
Id: 11107 Data: 17/11/2011 08:38:30
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MONSIEUR SILURO
Infine, del quanto non è questione e seppure in lampi attinto il quale non puoi comunque dirla soluzione, nulla di stabilmente sostanziale. Quello che prima, dopotutto, è
arcisicuro è l’infinito, perpetuo moto oscuro o luminoso, abbacinante che esso sia - tu vagante ottuso monsieur siluro. Che sia salda la tua fede o proterva
l’agnosia così è se ti pare, buona rotta e così sia.
(anni '90)
Id: 11093 Data: 16/11/2011 08:44:51
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LA BELLEZZA EBBE IN SORTE LA GUERRA
La bellezza ebbe in sorte la guerra e l'innocente spasimo d'amore e per altare un acceso tramonto sulle esauste rovine del mondo. Io ebbi in sorte la bellezza ma non su me, su te e il tempo con essa della guerra e gli spasimi alti delle veglie ininterrotte e un altare tessuto di acri silenzi ricamati che tu mandi, celebre tra questi fiori da sacre tenebre vegliati.
Id: 11085 Data: 15/11/2011 13:48:29
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SIAMO
Siamo ogni capello che abbiamo perso ogni occasione che volemmo ignorare ogni donna che abbiamo lasciato ogni donna che ci ha fatto disperare. Siamo la partita che non giocammo quella che non ci fecero giocare un pomeriggio senza nostro padre e un paese straniero senza nostra madre. Siamo il vuoto lasciato dalla donna della nostra vita ogni volta che reclama il nostro immutato stupore siamo tutto l'amore che non ci è toccato tutte le carezze che non abbiamo dato. Siamo tutti i libri che comprammo e non abbiamo letto – rassegnati ostaggi della nostra ignoranza – siamo il libro che non abbiamo scritto; siamo il silenzio della nostra stanza e l'impotenza di dire "ti amo" siamo quello che non sappiamo siamo tutto ma tutto quello che non siamo; una primavera che non riesce a fiorire perché anche l'inverno ha diritto di non voler morire. Siamo i morti che non abbiamo pianto e i vivi che non ci sono accanto la morte che non ci toccò ed anche quella che ci mancò siamo ciò che abbiamo dimenticato quello che in sogno abbiamo ricordato e tutto quello che non ci fu rivelato; siamo il vuoto in cui piombiamo quando siamo pieni e non ce ne ricordiamo che alla fine. Siamo il pieno che non riconosce le rose e le mangia con tutte le spine; siamo più di uno siamo al minimo due cose, siamo sangue che incontra il sangue di qualcuno e ne diffida siamo la corrida di quei fiumi che dicono una storia di cifre che non si combinano sempre bene; siamo rincorsi da colui che dicono divida, si metta per traverso. Siamo in un verso di questi metri sfilacciati siamo quelli che persero il pelo e presero il vizio siamo più di una cosa e ciò sarebbe buono se più di una cosa facesse almeno un uomo. (2000)
Id: 11042 Data: 13/11/2011 10:22:23
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IL TESTIMONE
"Non basta in un paio d'occhi aver riconosciuto due frutti del bosco sacro”. Il Testimone viene fatto accomodare invitato a togliersi il cappello obbligato a giurare su un prolisso tomo di autore immortale con sufficienza ascoltato dal giudice non creduto trattato come un criminale con formula dubitativa lasciato libero di emigrare. Così il Testimone salta si acquatta sul davanzale guarda davanti a sé il mare riscalda un po’ le ali e spicca un volo di vocali verso i prossimi tribunali.
Id: 11023 Data: 12/11/2011 08:26:19
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COME E NORMALE
Come è normale sempre altrove ho vissuto vincendo ogni volta il concorso per un posto unico di illustre misconosciuto.
Non ero alle funzioni logiche e alle fisiologiche nemmeno, a quelle dove sul più bello nel bel mezzo di una festa mi levai la testa invece del cappello.
Così dei funerali uno mi sarà certo condonato, l’altro, perseverando contumacia, infine perdonato.
(primi anni '90)
Id: 10997 Data: 11/11/2011 08:47:23
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IN MORTE DI A. B.
Quando l'officiante avrà estratto di prestigio dal cilindro la ricompensa finale che ti aspetta per averti assimilato alla carcassa del nero morto di mosche e di fame, a ogni anima che pia inghiotte e accetta; quando la frusta teodicea avrà saturato il tempio e di te sarà lo scempio ultimato, io ti dimenticherò, come non ti ho mai dimenticato. Solo percorrerò l'ultima volta le strade che assottigliavano la tua suola: quelle che da via Battistessa portavano alla scuola, via Tanucci, corso Giannone o, se erano belli i tempi, via Turati, via Alois, piazza Vanvitelli… C'era un filo troppo corto, un nulla, che non andava buttato, incomprensibile e fu utilizzato, per te. Scese sul tuo giaciglio come in altre case entra un raggio sensibile di sole e posa sul viso confidente del figlio illuminandone il sorriso. In te si insinuò il nylon celestiale e il tuo passo, ogni tuo passo, fu per noi lo scandalo, il rebus del presentito assurdo oblio qui est in coelis, che disegnò il taglio lupesco dei tuoi occhi, forgiò la chiave che condannò alle pene dell'inedia la tua fame del cosiddetto Bene. Per questo io ti dimenticherò, come ha fatto Dio: non cresce salvezza memoria che non possa dannare oblio. Il filo per troppo tempo teso, logorato si è diviso. Nulla della tua vicenda d'ora potrà dirci che l'arbitro fischia ancora rigori che non esistono o punizioni per svergognarlo alla moviola. Angelo compagno di banco, di un banco andato al macero con tutti noi, Angelo perduto, giocasti bene, ma l'arbitro era venduto.
Id: 10980 Data: 10/11/2011 08:20:24
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CRONACA IN SETTEMBRE
«Ciò che sostiene la vita… è una piccola corrente elettrica di luce mantenuta dal sole» Albert Szent-Györgyi de Nagyrápolt Cronaca in settembre L’alba ha sgretolato il sogno in cui ha perdonato se stesso il perdono. Si fa sghembo, scaleno il drappo logoro dell’anima. O forse è questo groppo malato, senso di mute guarigioni percorso dalla fede di spettri resi tali dalla fede nella realtà. Sazietà dello zodiaco e racconto della divisione dei giorni. Come ogni anno settembre esibisce la sua verità che è solo rivelazione della sua malattia che è anche la nostra. Pertanto, non sappiamo che farne del racimolato sfarzo in deliquio di uno che impegna le sue povere ossa per l’abito in affitto di una festa cui non è invitato. Allora sorvoliamo le mutilazioni di questa pace, guerra rivoltata in ipocrite rivendicazioni. Abbandoniamo la conta e i numeri si distendano pure nella solitudine dell’indefinito. Ora vedo un anagramma di me che attraversa nell’afa lento (di lei ebbe un tempo il talento) una piazza incandescente. Dentro l’eterna tormenta metafisica calcinato socchiude gli occhi, si accosta a leggere musorno manifesti in decomposizione da cui sembra stranamente attratto – carcami al suo collo le tre età immolate, intenti all’ennesima inutile vaghezza di un euristico palinsesto –. Alla fine, guardando indietro per l’ultima volta, scompare nel meconio di un bar. All’improvviso cessa lo scirocco e le chiome meditano sul fermento delle ondulazioni. Per farsi toccare il NULLA è diventato QUESTA E TUTTE LE ALTRE COSE, esibizionista che si maschera per secondare la sua lussuria illeso nell’orgia di un carnevale. Ecco, finalmente sappiamo quanto sia disdicevole offrire salamelecchi a un nobilume che vanta i titoli fraudolenti del mistero. Allora guardiamo oltre le incottite suture e al di là di ogni ragionevole sutra. Guardiamo all’imbarazzo dell’inizio senza tempo. – Una fiamma oscura zampillò dal fremito dell’Infinito, nel Chiuso del suo Chiuso – Guardiamo a quello che non è il nostro tempo per poterci un giorno come giorno togliere il respiro. Guardiamo all’aura del delirio, alla sua commossa premonizione. Guardiamo il granello di senape, la sua elasticità banale. Guardiamo il Bene e il Male che passeranno insieme il Natale.
Id: 10960 Data: 09/11/2011 08:36:02
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RICORDARE
Quello che adesso ricordo mentre l’ombra di qualcuno incrocia, comprende la mia è che ricordando ricordo un ricordo qualunque incolume per la grazia dell’Uno. L’ombra in cui la nostra giace, si smarrisce e muore, pure è consolata dalla pace di un eguale dolore. Cerchiamo il memorabile dove questo non ha dimore, ma il bambino l’ha già trovato nella fanfaluca che stringe in mano nel sazio vuoto pomeridiano. Guarda: immota è talvolta la tua vita nella delizia dell’inconsapevolezza e ad alcuni pure talvolta quella prodiga l’eredità improvvisa di un giardino di memorie. E lì si aduna lenta la fola di quelle in un lacrimare sospeso di storie che invocano il giusto titolo il nome fresco che a stento leggi sul muro dell’anima intenerito. Quello che reclama il tempo non è un’ingiuria di peccato ma un perdono indifeso; che si intrecci una linea all’altra e insieme si perdano a un indefinito che s’abbeveri all’offerta plausibile della sorgente. La luce d’estate si libra una col vento adesso sull’acquiescenza di esausti, sbandati pianeti sulla distesa inebriante di quel negro mare; i nostri anni va intanto seducendo il silenzio del principio che ormai non può più parlare. (1977)
Id: 10898 Data: 05/11/2011 16:44:05
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