Tangibilità, clamore e distanza-mistero
di Anna Laura Longo
Calarsi fattivamente nella significatività o, ancor meglio, nel clamore più o meno accentuato determinato da una distanza può voler dire porsi su un piano di costante e perseverante attualizzazione dei suoi margini, dei suoi confini.
Per poter essere vissuta, conosciuta, percepita, la distanza richiede dunque di essere in qualche modo seguita e lasciata maturare nelle sue scansioni, nei suoi frammenti consequenziali. Questo fatto comporterà che si possa assistere, strada facendo, ad una vera e propria materializzazione, quasi ad un suo “farsi corpo”. La distanza del resto può riguardare primariamente i corpi, i volumi, gli oggetti, ma può trasformarsi essa stessa in entità corporea, in forma tangibile.
Potremmo in tal senso – e da subito - ipotizzare l’esistenza di una presumibile distanza minima, tenue nel modo di presentarsi o incunearsi nella psiche e negli spazi della fisicità, (una sorta di distanza-filamento di natura evanescente) ma, di contro, considerare ed aver presente una distanza oltremodo proteiforme, massiccia, decisamente imperativa nel suo imporsi ed esplicitarsi, avente – soprattutto quest’ultima - un carico di ripercussioni evidentemente differenziate.
L’aspetto dicotomico tenderà a sorgere abbastanza spontaneamente, al punto che si potrebbe parlare della distanza come di un vero e proprio terreno di dicotomie, in parte insolubili. Di qui la possibilità di osservare come essa possa essere in taluni casi duramente imposta e in altri prescelta, possedere le fattezze di un’esperienza rigenerante o di contro dolorosa, essere in qualche modo evitata o invece perseguita e attesa.
La distanza, apertamente o nascostamente, avrà quindi un suo “schieramento”, un suo meccanismo tipico di affermazione e di svolgimento, quasi una peculiare linea di assertività interna, che emergerà in maniera per lo più netta o quanto meno distinguibile.
In riferimento alla comparsa di un grado minimo di distanza avrà qualcosa da dirci l’arte, che ha fatto spesso leva su tale elemento per porre in evidenza quei potenziali di tensione interna, degni di essere esplicitati in vista di una costruzione di espressività. Le arti visive tendono proprio a basarsi su un accentuarsi alterno di tensioni- distanze instaurabili tra forme e presenze: figure umane, oggetti, edifici e paesaggi, nei dipinti, così come negli impianti scultorei e nelle installazioni, vengono il più delle volte presentati come dirimpettai, disposti efficacemente facendo ricorso a criteri di avvicinamento o di distanziamento apposito o ancora offerti attraverso naturali o artificiose formule di sovrapponibilità.
Il celeberrimo Bevitrice d’assenzio, olio su tela realizzato da Pablo Picasso nel 1901 si basa proprio su una gestione alquanto sottile delle distanze e delle tensioni interne riguardanti le varie presenze chiamate in causa (donna, tavolino, spazio, bottiglia ecc.) La drammaticità pittorica è conseguita in virtù di un’abile intersezione di forme e mediante uno stabilirsi preciso o apparentemente precario di relazioni emotive e al contempo spaziali. Potremmo arrivare a dire che la distanza minima sia, nell’ arte, il più delle volte un fatto di per sé vibrante, visivamente impattante.
Anche Alberto Giacometti nella sua opera L’oggetto invisibile affida alla distanza instauratasi tra le mani una pregnanza ineguagliabile. Trattasi infatti di una distanza necessaria a decretare un vuoto e tale da catturare lo sguardo dell’osservatore in modo a dir poco memorabile. Un discorso analogo potrebbe valere per Sfera sospesa, dello stesso Giacometti, in cui l’oggetto sferico è messo in relazione con una mezzaluna. I due corpi scultorei sembrano di fatto accarezzarsi, ma nella realtà producono un’impercettibile distanza, che definirei distanza-mistero, fortemente dotata di significatività.
Rosalind Krauss si è più volte soffermata su un ulteriore aspetto inerente la distanza, quello relativo alla fruizione delle opere da parte del pubblico, mettendo in evidenza i punti di svolta e i cambiamenti radicali verificatisi strada facendo.
Esemplificativa, a tale riguardo, l’installazione Sixteen Miles of Strings del 1942 realizzata da Marcel Duchamp in collaborazione con André Breton, Sidney Ianis e R. A. Parker per la mostra First Papers of Surrealism, nella quale un intrico di fili tesi a mo’ di ragnatela va a rendere impossibilitante l’avvicinamento alle opere.
Scrive Brian O’ Doherty a proposito di quella particolarissima esperienza:
- Quello spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere diventò l’unica cosa che avrebbero ricordato. Anziché rappresentare un intervento, qualcosa che si frappone tra il pubblico e l’arte, a poco a poco lo spago si trasformò in un nuovo tipo di arte-.
Sono proliferate di fatto situazioni e costruzioni di allestimenti tesi a rigenerare o ingenerare nuove possibilità di senso, nuovi costrutti.
Ma, tornando con prontezza nei territori impervi della quotidianità e dell’esistenza, diremo che la distanza presenta, in fondo, le caratteristiche, la variabilità e l’intensità proprie di un accadimento composito: sia che ci avvolga, sia che punti duramente a fagocitarci, essa sarà dotata anche di un potenziale andamento, di una consistenza specifica.
La distanza tuttavia si insedia oltreché tra i corpi e nei gesti, nelle traiettorie variabili degli sguardi, nelle dinamiche relazionali e inoltre tra i suoni, nel campo aperto dei materiali udibili.
C’è stato un momento saliente nella storia della musica in occidente in cui di pari passo con un’emancipazione della dissonanza si è andato affermando un interessante allargamento della distanza intervallare. Fatto questo che ha condotto ad un acuirsi delle problematicità inerenti l’ascolto. Si è generato in sintesi un rafforzamento della drammaticità nel dettato melodico, che ha fatto guadagnare di certo fascino e tensione interna alla pagina musicale, generando al contempo una perdita di cantabilità. Dal Novecento in poi il sentiero si è reso oltremodo accidentato. A titolo emblematico potrei citare di Anton Webern il Klavierstück op. postuma, nel quale i cosiddetti intervalli congiunti sono radicalmente banditi: tutto avviene nel segno della disgiunzione e - appunto- dell’instaurarsi di distanza tra le altezze, tra i suoni.
Ci si potrebbe chiedere quanto – al di fuori della realtà musicale e sostando invece nei margini delle variabilissime realtà esistenziali- si possa parlare di una perdita di cantabilità proprio in presenza di uno stabilirsi di distanze più o meno accentuate. E quanto esse stesse possano (o sappiano) “risuonare”, producendo dissonanze o consonanze in relazione alla magmaticità degli eventi e dei vissuti personali.
Pierre Boulez nel suo Dialogue de l’ombre double non manca di dare un contributo ulteriore alla definizione di distanza, quando decide di far leva su una vera e propria dualità, riguardante lo stesso strumento: il brano è pensato per clarinetto solista e nastro magnetico. Il dialogo, dal punto di vista compositivo, trova svolgimento a tratti nella congiunzione, ma soprattutto nella disgiunzione e nella distanza tra le parti. Succede spesso infatti che il clarinetto solista dal vivo e il clarinetto registrato muovano e articolino le loro frasi su registri molto distanti.
Anche la danza tende a “impadronirsi” variabilmente della nozione di distanza. Trattasi di una distanza modellata sulla base di esigenze costruttive, che vanno a profilarsi di pari passo con la configurazione spaziale e con un agire sulla durata. Da questo punto di vista la distanza potrebbe essere considerata una forza motrice. Il fatto che il risultato del lavoro debba raggiungere lo spettro emozionale conferirà margini di libertà sondabili, che sono in gran parte sconosciuti all’esperienza della quotidianità. Per contrasto, sarebbe qui utile ricordare la teorizzazione di una totale assenza di distanza sancita ad esempio dalla contact improvisation, nella quale i punti di contatto fisico tra almeno due danzatori divengono l’elemento ineludibile da cui partire per sviluppare esplorazioni fisiche e tessiture atipiche di movimenti.
La distanza andrà vista ad ogni modo anche come una procedura interna, non sempre misurabile o agevolmente scandibile e accertabile. Il suo estendersi, il suo protrarsi, potrebbe generare una naturalizzazione, un adattamento o ambientamento, come accade in alcuni semplici o complessi processi biologici. Non vi sono dubbi comunque sul fatto che essa possa essere non solo esperita, ma variamente introiettata.
Si potrebbe inoltre guardare alle distanze come a degli itinerari attraversabili. Molte sono le domande che potrebbero sorgere a tale riguardo. Anzitutto quanto tali itinerari-distanze possano essere compatti o friabili, spianati o disarticolati nel loro delinearsi, in quale misura possano produrre metamorfosi o stagnazione, come potranno essere “trascritti” o inglobati nella memoria di chi ne è - o ne è stato -protagonista e a vario modo partecipe. Volendo cercare un ulteriore appoggio in un’immagine potremo poi proporre l’ipotesi di una distanza – fondale. La dilatazione della prospettiva di sguardo aiuterebbe a far rientrare all’interno del nostro discorso una possibile coesistenza: quella tra avventura e crisi. Ritrovarsi ad essere perlustratori di distanze in definitiva potrebbe indurre ad incorporare diversamente il mondo, ad avere un ancoraggio inusitato con le cose e con le realtà esistenti, e produrre, di conseguenza, uno stanziamento di energie calibrato o adeguato per poter lavorare in vista di una stabilizzazione (o perlomeno di una titubanza momentanea), che si riveli, in qualche misura, produttiva. Il fatto che quello della distanza si configuri il più delle volte come un tempo di allarme, o corrisponda, di per sé, a un tempo di allarme, potrebbe condurre altresì a domandarsi quali siano o possano essere i criteri di percorribilità e vivibilità ipotizzabili. Non esistono di fatto risposte appropriate o dotate di validità intrinseca.
Esistono al contrario tracce di ambiguità rintracciabili, anzi vere e proprie forme di ombrosità che aleggiano e accompagnano il tutto. Il tempo precedente l’allentamento di una distanza probabilmente sarà pur sempre un tempo più o meno labile di incubazione.
Incubazione di un divenire diversamente avvincente e conoscibile.
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