“L’ultimo lo fai te!!”
Me lo aveva detto, con quella ghigna che non sopportavo più, e alla fine l’ultimo era arrivato.
“Forza, ora lo prendi, vai di là, e lo sistemi!”
Porca puttana…
Presi un attimo di tempo per pensare, a chissà cosa poi, e sentendo gli occhi puntati, decisi di muovermi.
Mi alzai con fatica: dopo 11 ore di tensione, 132 chili sulle gambe si facevano sentire.
Mantenendo sempre una certa distanza di sicurezza, feci un gesto con la testa, ad indicare la direzione da prendere, e “l’ultimo” capì.
Mi sembrava incredibile: da quel momento la mia vita sarebbe cambiata per sempre.
Solo che non doveva andare così, e non so neanche come mai non sia riuscito a tirarmi indietro quando ancora potevo farlo.
Come avevo fatto ad essere così ingenuo?
Conoscevo da tempo lo Zuga, sapevo quanto fosse inaffidabile, matto come un cavallo e perennemente fatto di coca. Perché mi ero fidato di uno così?
Forse perché anche io, in fondo, tanto normale non ero.
E come potevo esserlo!
In casa ero dovuto crescere in fretta; c’era poco da divertirsi di fronte alle mani anellate di mio zio. Per me dico, perché lui, invece, pareva trovare la cosa abbastanza divertente.
Da allora era cominciato il declino, lento, immutabile, della mia vita.
Sono cose che possono accadere, ad un certo punto la vita comincia a piegare verso il basso, non si sa perché e non si riesce a fermare la caduta.
Ok.
Troppo presto però. Non può essere così per un ragazzino che cerca di tirare avanti quel mozzicone di famiglia come può.
Così, era cominciata male ed era andata avanti anche peggio.
All’inizio solo furti, per rimediare qualche soldo; piccole cose, saltuarie, qualche mano tesa da amici che poi si è rivelata più viscida di quella dei nemici…
Il salto vero lo avevo fatto con una rapina ad un distributore di benzina: quella era stata la prima volta che avevo lavorato con lo Zuga. Era facile: uno aspettava in macchina, con il motore acceso, l’altro entrava, ripuliva e via.
Ne avevamo fatti tre o quattro, poi lo Zuga aveva cominciato a farsi prendere la mano e dalle armi finte era passato quelle vere. Non mi piaceva; mi ero allontanato un po’ perché prima o poi sarebbe andato storto qualcosa ed io non volevo aggiungere casino alla mia vita già abbastanza compromessa.
Il fatto è che non puoi tirare avanti così per sempre. Non puoi continuare a rischiare di essere beccato ogni volta che metti il naso fuori di casa, a vivere nell’ombra, solo, senza amici fidati e senza una donna accanto, perché non te la puoi permettere.
“In qualche modo devo uscirne” pensavo,
“In qualche modo devo chiudere e ricominciare”.
Queste erano le parole che mi giravano in testa, giorno dopo giorno, quando lo Zuga mi beccò di nuovo.
Aveva conosciuto due tizi che, a quanto diceva, si muovevano sul sicuro.
Uno era italiano, si era presentato come “il Moro” ed in effetti aveva i capelli corvini; l’altro era un armadio di quasi due metri, dal nome impronunciabile, così tutti lo chiamavano “il Russo”.
Lo Zuga aveva una cosa da offrirmi: la possibilità di risolvere una volta per tutte, le miserie della mia vita.
Ecco, mentre camminavo, avessi potuto urlare sotto quel passamontagna, gli avrei chiesto volentieri se era così che pensava di risolvere le mie miserie!
Tutto era andato storto. E lo avevamo capito sin dall’inizio, da quando avevamo visto che all’interno della banca invece di tre, c’erano cinque persone: tre impiegati e due clienti. Avevo fermato lo Zuga e gli avevo detto che era meglio mollare. La riposta fu veloce:
“Bove, stai zitto. Ora siamo qui e lo facciamo!”
Il Russo era rimasto in silenzio e per il Moro non c’erano problemi.
Dentro la banca invece, di problemi ce ne furono. Quel rincoglionito del Moro, non solo non aveva contato le persone che erano entrate, ma non si era neanche preoccupato del direttore, chiuso nel suo ufficio ancor prima dell’apertura degli sportelli; così, mentre noi ci preoccupavamo di bloccare gli impiegati, quello aveva dato l’allarme!
“Professionisti, gente che va sul sicuro…. come no!”
In un attimo la rapina era diventata anche sequestro di persone, avevamo degli ostaggi, ed a me non sembrava davvero possibile di essermi ficcato in un casino simile.
Il peggio però doveva ancora arrivare.
Lo Zuga, fatto come non mai, aveva subito perso la testa ed aveva sparato alla ragazza che si trovava vicino a lui; ora lei era a terra, a faccia in giù, in mezzo al sangue e non sapevamo neanche se fosse viva o morta.
Poi si era girato verso di noi e con una smorfia ci aveva detto che non lo avremmo lasciato solo in quel puttanaio, che avremmo dovuto fare la nostra parte. Ed a me disse che sarebbe toccato l’ultimo ostaggio.
In quel giorno di delirio era successo di tutto, con la polizia che aveva isolato lo stabile ed i TG che mandavano in onda la diretta…
Ora stavamo camminando lungo il corridoio, lui due metri davanti a me. Non facevamo una bella coppia: io con quel cazzo di cappuccio in testa, la pistola puntata, la pancia sporgente in avanti ed i piedi a papera; lui, piccolo, magro, con la zucca pelata tranne che per la ciambella attorno alla nuca, tremava ad ogni passo.
Tremava perché sapeva come sarebbe andata a finire; ma con la sua, sarebbe finita anche la mia vita.
Avevo la mente vuota, ripulita di ogni pensiero, anzi, probabilmente non riuscivo a pensare a niente. Mi muovevo un po’ imbambolato, intorpidito, quasi anestetizzato.
Alla fine del corridoio, sulla sinistra si trovava l’ufficio del direttore e pensai di portarlo lì dentro.
Appena lui scomparve dietro l’angolo, fu il buio.
Sul momento non capii e d’istinto mi voltai indietro; chiamai lo Zuga, ma non ebbi risposta; poi pensai che non avevo più la situazione sotto controllo; il tizio, nel buio, sarebbe potuto scappare, nascondersi, oppure armarsi con qualche cosa e colpirmi.
Non trattenni la paura, mi affacciai all’angolo del corridoio e sparai due colpi un po’ a casaccio, altezza uomo, nella direzione in cui credevo si trovasse.
Nessun grido di dolore.
Rimasi in ascolto, in attesa che il fischio scomparisse dalle orecchie: man mano che il sibilo svaniva, affiorava in sottofondo, dal basso, qualcosa che conoscevo bene: il lamento del mio ostaggio, vicinissimo a me.
Era passato solo qualche secondo, e la luce tornò. Lo guardai.
Non aveva neanche provato a scappare; si era solo accasciato a terra, annichilito dalla paura di morire; e questo lo aveva salvato, evitando i colpi che avevo esploso.
Che cosa c’entrava lui con quella storia? Perché doveva pagare con la vita le pazzie di quattro disperati?
Gli chiesi di alzarsi, ma non ci riuscì. Era come ipnotizzato dalla mia mano armata, ma cercava anche i miei occhi.
Così lo accontentai: mi sfilai il passamontagna, sapendo che da quel gesto non si torna indietro, e cercai di sostenere il suo sguardo implorante.
Vinse lui.
Per me era finita; mi abbassai e posai la pistola a terra.
Il diversivo aveva funzionato: la polizia stava già entrando.
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