Per qualche metro non toccai neanche terra.
Provai ad aprire l’occhio, ma tutto ciò che riuscii a vedere, furono quattro ciabatte bianche, sfondate sui fianchi, che si alternavano a mezzo metro dal mio naso.
Così girai la testa, per capire. Inutile.
Poi, di colpo, tutto si fermò, quando i miei capelli sfiorarono una parete di metallo, lucida, fredda; e persino questa puzzava di quell’odore acre che non riuscivo più a togliermi dal naso.
Solo qualche secondo e quella si mosse. Si mosse perché non era una parete.
Finalmente lasciarono la presa e sentii la porta chiudersi alle mie spalle.
Riuscivo a tenere solo un occhio aperto; l’altro lo sentivo gonfio, con le palpebre appiccicate forse dal sangue, forse dal sudore, forse da entrambi.
Detti subito uno strattone con la spalla destra. Niente.
Allora provai con la sinistra. Niente.
Di nuovo con la destra, più forte. Ancora niente.
L’unico effetto era di ruotare su me stesso, facendo perno sui piedi.
Stanco e fradicio di sudore tentai un’ultima spinta: fu debole, ma bastò per farmi cadere, e lo feci senza neanche mettere le mani davanti a me; l’impatto con il pavimento però non fu così duro, ma piuttosto attutito, ammorbidito.
Il viso a terra premeva proprio sul bulbo tumefatto e sentii la testa scoppiarmi dal dolore.
Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione, fermo, immobile.
Da lì, con la vista rasente terra, ebbi una vertigine. Non distinguevo più il pavimento, dalle pareti e dal soffitto; tutto sembrava omogeneo, monotono, senza soluzione di continuità sia per le forme che per i colori; ogni angolo di quel buco era fatto della stessa materia e modellato con la stessa trama.
Era certamente la vista con un solo occhio che mi faceva perdere una dimensione, e che rendeva tutto così piatto.
Silenzio.
Silenzio spinto direi, di quelli che ti infilano nel cranio un sibilo acuto, continuo, come un filo trascinato da un ago che entra da una parte, attraversa il cervello, ed esce dall’altra. Neanche il ronzio delle lampade difettose mi fu concesso: quella incassata nel soffitto funzionava benissimo.
Solo una cosa sentivo forte: il rantolo del mio respiro; inspiravo l’aria schifosa di quel posto, carica del suo aroma metallico, la spingevo con forza nei polmoni e quella, prima di uscire, mi lasciava in bocca il suo timbro acido, come l’aria che si respira nelle autofficine.
Sputai la saliva accumulata, e sul bianco di quel pavimento morbido, gli schizzi rossi, brillanti, non furono assorbiti dal tessuto ma rimasero integri, come piccole sfere sparse attorno alla bocca.
Sfinito mi girai a faccia in su e senza la pressione, sentii subito allentarsi il dolore alla testa; rimasi così per un po’, a godere del sollievo come fosse il premio per la conquista di quella posizione.
Poi sollevai la palpebra, e la speranza di scoprire che era stata solo un’illusione svanì immediatamente: non era cambiato niente.
Un’unica lampada al neon illuminava quel posto; mi parve glaciale, penetrante, quasi a voler scandagliare anche ciò che si trovava dentro di me.
Fu in quel preciso momento che cominciai a sentir cambiare l’aria; un soffio leggero muoversi attorno al mio corpo, come se qualcuno mi avesse sfiorato con un gesto.
Solo che non c’era nessuno accanto a me, né finestre in quella stanza.
Occhi puntati, orecchie tese, antenne direzionate a cogliere qualunque mio movimento, respiro o pensiero che fosse. Ogni singola sensazione, ogni singolo impulso di dolore veniva captato, analizzato e archiviato.
Non avevo il coraggio di emettere nessun suono, nessuna richiesta d’aiuto, paralizzato dalla paura di essere intercettato.
Dopo tanta attesa, le congetture si erano fatte certezze, le teorie erano state dimostrate ed io ne ero la prova tangibile. Tutto quadrava, tutto andava come doveva andare.
Mancava solo l’ultimo anello: il mezzo. In qualche modo dovevano entrare, doveva pur esserci un passaggio!
Poi, come fosse stato suggerito al cuore ed al cervello, in un attimo capii: era la luce.
L’unica cosa alla quale nessuno di noi può sfuggire, che costantemente ci avvolge, ci nutre, l’unica cosa di cui hanno bisogno tutti gli esseri viventi!
Mi sentii perso: chiuso in una stanza quadrata, vuota, senza neanche un posto in cui nascondermi e ripararmi da quel fascio bianco come la luce delle stelle, capii che ormai ero diventato preda, fu chiaro che ciò che volevano era il contenuto, per poi disfarsi del contenitore.
Adesso la paura si era infilata violenta dentro la braccia, le gambe, il corpo; mi ero pisciato addosso ed il tanfo forte di ammoniaca, benché nauseabondo, era la cosa più umana che sentivo.
Prima che la paura mutasse in terrore, la disperazione mi spinse a rialzarmi per provare a scappare, a sottrarmi al mio destino, e solo quando provai a farlo mi resi conto in che razza di situazione mi trovassi.
Mi stavo abbracciando da solo, avvolto in me stesso, imprigionato in una sorta di tuta bianca accessoriata di fibbie e lacci.
Tutto vano; ogni movimento mi si ritorceva contro; allo stesso tempo carceriere di me stesso e vittima di una forza troppo più grande di me.
Non opposi più resistenza.
Ricordo lo sgomento, opprimente, sfociare in un pianto non più di rabbia, ma di resa, di abbandono della vita.
Fu allora che la porta si aprì di nuovo: le lacrime sfuocavano la vista del mio unico occhio ciclopico; sentii solo la voce:
“Oscar, è arrivato il dott. Petri, per la terapia del pomeriggio”.
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