La mia voragine.
Stavo per essere risucchiata in questo vuoto, l’elemento onnipresente, che ha plasmato il mio modo di essere, nel tentativo di riprendermi ciò che mi spettava, cancellando un’ombra invisibile, deleteria.
Una voragine, un buco nero, una sorta di pozzo di cui non conosci la profondità e non riesci a riempire. I suoi significati sono infiniti.
Oggi all’improvviso ho definito in modo chiaro e lampante, il mio vuoto esistenziale.
Un’immensità satura delle mie emozioni, dei miei patimenti, colma delle domande precipitate in quel baratro, da che sono nata, alla ricerca delle mie radici.
Arduo è giustificare il senso di ciò che mi è stato ingiustamente tolto.
Radici a metà, un’identità ibrida, per cui da sempre ho pensato di dovermi guadagnare l’attenzione del prossimo, accondiscendendo, facendo crescere la mia generosità a dismisura.
Oggi ho inteso ancora quel malessere infinito che mi ha inseguita: una sensazione dolorosa. Un’angoscia che ti proietta al di là di un muro, dall’altra parte della sponda di questo vuoto oscuro, dove tu resti sola in attesa che il prossimo, almeno per un attimo, si ricordi chi sei e ricambi i tuoi sentimenti, le tue attenzioni, aiutandoti a oltrepassare quell’abisso.
Nel giorno in cui ricorre l’anniversario della morte di mio padre, colui che ha preferito crescere sulle sue ginocchia, la bambina nata dal secondo matrimonio, aprendo Facebook sono incappata nel pensiero di quella che ormai è donna matura, nella fotografie di loro due insieme, molti anni fa. Oh sì, lei ha pieno diritto di dedicargli così sentite parole, di ricordare i loro momenti speciali, incurante senza colpe, del dolore che, alle soglie dell’età che conduce al declino, non ho ancora cancellato, del vuoto che mi ha tolto un pezzo di dignità.
Cosa potevo dire? Nulla, oltre a un silenzioso “mi piace”.
In vita l’ho incontrato in rare occasioni e solo per qualche istante. Intimidita, non osavo neppure guardarlo, trovando unicamente il dono di questo senso di nullità.
L’ultima volta, la più drammatica, perché nonostante tutto l’ho amato attraverso i racconti di mia madre, nella camera ardente.
Prematura scomparsa, mentre avrei ancora desiderato porgli le domande che sono sempre precipitate nel vuoto, per via della mia discrezione.
Intanto lo osservavo inerte e bello, elegante nel suo gessato blu, perfetto. Nella mente ancora gli domandavo perché non ho meritato quel diritto. Non ho provato mai il piacere di toccarlo, abbracciarlo, di sentire il calore di una sua carezza. Avrei voluto baciargli la fronte, accarezzarlo per sincerarmi che fosse davvero esistito, che non fosse un fantasma.
Non ero sola e, come una stupida, mi sono sentita in imbarazzo di nuovo non ho osato. Ancora una volta non ho pensato a me, ma all’effetto che avrebbe avuto il mio gesto sulla sensibilità di mio marito, che mi è sempre stato accanto.
Allora ho riempito i miei occhi non solo di lacrime, ma della sua immagine, memorizzandola minuziosamente. Trattenendo il pianto, ho colmato per qualche minuto la fredda solitudine che lo circondava.
Perdonando i suoi errori, commiserandolo perché nonostante tutto era lì da solo, lasciato sprofondare in un vuoto che sapeva di abbandono, di scarso amore, lo stesso vuoto mio.
Non lo avrei trascurato io, sarei rimasta lì accanto a lui, prendendomi un po’ di quel tempo che troppe volte mi è stato negato.
Questo vuoto si completerà, quando il destino deciderà e precipiterò dentro il suo buio devastante e profondo io stessa, ritrovando tutte le sensazioni e le perplessità di una vita. Forse, sarà allora che troverò risposta ai miei perché, risalendo in alto finalmente leggera, raggiungendolo là, dove adesso è sereno.
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