L’autrice qui intervistata è Sara Galeotti, prima classificata al Premio letterario nazionale “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione B (Racconto breve) con “Il senso di una fine”.
Ciao Sara, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?
Nata sotto il Cupolone quando là intorno era tutta campagna (ma non c’erano ancora i cinghiali), mi sono annoiata finché non ho scoperto l’alfabeto. Ricercatrice universitaria di professione e topo di biblioteca per vocazione, studio gente morta, scrivo di gente morta, leggo per sentirmi viva. Adoro passeggiare tra le lapidi, ma non sono un vampiro.
In breve, per citare qualcuno davvero pieno di talento, non sono niente. A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo [F. Pessoa].
Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?
Ho partecipato al Premio ‘Il Giardino di Babuk’ per la sua fama di concorso serio, severo e molto competitivo. Poiché sono incapace di resistere a una sfida e avevo da parte un raccontino che mi pareva accettabile, ho deciso di cimentarmi.
Non credo sia possibile esprimere un giudizio assoluto sui premi letterari, tanto diversi possono essere i giurati, come gli intenti degli organizzatori: si va dallo scouting più o meno attrezzato alla sagra di paese; dalla fiera delle vanità al Barnum poetico. Per quel che mi riguarda, i premi letterari sono una buona scusa per evadere dalle angustie della letteratura scientifica; il mio spazio di libertà espressiva e, se vogliamo, di puerile vanità autorale. Non credo invece – e mi spiace – concorrano a innovare o ad arricchire il tessuto culturale italiano, giacché raramente si propongono come qualcosa di diverso da meri amplificatori autoreferenziali dell’ego di chi partecipa (me per prima).
Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?
Da bambina, volevo essere la nuova Simone de Beauvoir, poi ho scoperto Bulgakov, Solženitsyn e Tolstoj. Devastata dalla morte del principe Andrej, sono sprofondata in Mann, Musil, Hesse e Kafka. A vent’anni, ho dedicato un’intera estate alla Recherche (sì, sono tra quelli che hanno letto davvero Proust) e assorbito una quantità di francesismi dai quali ancora non sono riuscita del tutto a emendarmi. Oggi attendo con ansia ogni nuova pagina di Joyce Carol Oates, Ian McEwan, Donna Tartt, Paul Auster, Haruki Murakami, Julian Barnes e Jeffrey Eugenides. Degli autori italiani, amo in particolare Pier Vittorio Tondelli, Paolo Cognetti, Niccolò Ammaniti, Grazia Verasani, Benedetta Cibrario e Giulia Alberico.
Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?
Difendo il diritto dello scrittore d’essere in-utile: autolegittimare la propria esistenza alla luce di un supposto ruolo sociale-politico-educativo, ai miei occhi, è una resa. Per altro, chi pretende di avere una parte importante nel presente del proprio Paese scivola con facilità in un noioso ‘trombonismo’.
Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.
Ho cominciato a scrivere racconti nell’estate dei miei ventidue anni, mentre lavoravo alla tesi di laurea. Allora era soprattutto un modo per distrarmi e per sfuggire al rigore della giurisprudenza, poi è diventata una dipendenza, al punto che non ho più smesso. Non avendo ambizioni letterarie di sorta, non mi reputo una scrittrice, al più una ‘raccontatrice’ dilettante. Sono stata pubblicata dal Corriere della Sera, dopo aver vinto nel 2018 il premio La Quara, e ho una ventina di racconti antologizzati, ma le uniche pubblicazioni cui tengo davvero sono le mie – noiosissime – monografie di Diritto Romano.
Come avviene per te il processo creativo?
Spesso è la rielaborazione di un ricordo, di una conversazione captata, di una confidenza ricevuta. In potenza, chiunque abbia a che fare con me potrebbe finire in un racconto.
Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?
Nessun obiettivo: scrivo solo se ho una storia da raccontare.
Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?
Poiché detesto quello che scrivo un minuto dopo averlo completato, preferisco riferire il parere di altri: pare che la mia sia una scrittura ‘asessuata’. Leggendomi, dicono, non s’indovina facilmente che a scrivere sia una donna. Per me è un magnifico complimento.
Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?
Tutti i miei racconti – ma proprio tutti, tutti, tutti – sono una variazione sul tema dell’identità: scrivo quasi solo di gente che l’ha perduta, che l’ha negata, che l’ha ricostruita o che ancora la cerca. Altri motivi costanti nelle mie pagine sono il rapporto con il padre, il viaggio e la ferocia degli anni giovani.
La mia scrittura è mutata molto negli anni, perché ho imparato a togliere tutte le parole di troppo. Direi che si è asciugata – e mi pare un bene.
Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?
Mai scritto un verso in vita mia e non credo che accadrà in futuro, poiché manco del tutto della sensibilità e della tecnica necessarie.
Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?
Quasi niente. Amo Roma, ma viaggio molto per lavoro e sento di appartenere a ogni luogo in cui sono stata.
Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?
Ho pochissima immaginazione: la mia scrittura è quasi solo rielaborazione di esperienze mie o di conoscenti. Anche da lettrice, preferisco opere saldamente ancorate al reale.
Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?
Scrivo come se i lettori fossero tutti morti. In linea generale, cioè, racconto quel che vorrei leggere per prima. Se quanto ho prodotto mi sembra accettabile, lo sottopongo alla mia migliore amica. Al suo giudizio, quale esso sia, seguono spesso una terza e una quarta limatura, al termine delle quali decido comunque d’aver prodotto una porcheria.
“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?
Convengo solo a metà con quest’arguta riflessione. Credo, infatti, che la scelta di un’opera sia spesso condizionata, al contrario, proprio dalla sicurezza di trovarvi temi e motivi che il lettore già sente come propri. È il repetita iuvant dei latini.
Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?
Un buon testo, secondo me – e mi riferisco alla sola prosa, poiché, come ho detto, non ho le competenze per valutare un’opera poetica – deve prima di tutto raccontare qualcosa. Detesto le narrazioni ombelicali: pretendo una storia. La buona scrittura, a mio avviso, è quella che tratta la lingua come marmo e la scalpella a dovere. Odio le prose barocche, il profluvio di aggettivazioni e di metafore, gli avverbi alluvionali: meno sono le parole, per me, più efficace è il messaggio.
Recensioni e interventi critici li lascio ad altri: soffro già quando devo valutare i miei studenti.
In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?
“Quando ti ho letto, ho pensato a Marguerite Duras”, a pari merito con “Ma io credevo che fossi un uomo!”
C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?
Oltre alle lavate di capo della mia Maestra, mentre scrivevo la tesi di dottorato, quanto più ha inciso nella mia volontà di migliorare è stata la lettura del bellissimo ‘Gli occhi di Malrico’ di Mattia Conti: un racconto tanto perfetto nella lingua e negli ingranaggi narrativi da farmi piangere per la frustrazione di non esserne l’autrice. Da allora non ho mai smesso di sperare di potermi avvicinare un poco a quel livello.
A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?
Sto lavorando alla mia terza monografia di Diritto Romano e a due articoli: nulla che qualcuno possa aver davvero voglia di leggere!
Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?
Sono una Tombstone Tourist, effetto collaterale, suppongo, del mio maneggiare l’epigrafia nel quotidiano. La mia ambizione è quella di visitare, un giorno, tutti i cimiteri monumentali d’Europa.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?
Agli autori del sito faccio i miei complimenti per il coraggio di mettersi quotidianamente in gioco, in alcuni casi con pagine tutt’altro che dilettantesche. La libera scrittura in rete, come l’editoria digitale, sono, a mio avviso, eccellenti risorse, se non si rinuncia a priori a un filtro qualitativo, perché quella dell’uno vale uno è la dittatura della mediocrità. Se un editore è serio, non ho problemi ad acquistare un ebook. L’editoria minore mi ha spesso regalato, anzi, piccoli gioielli inaspettati.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?
Direi che vi ho tediato anche troppo!
Grazie.
Grazie a voi!