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Il famoso Lanzeta

di Arturo Lattuneddu
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Pubblicato il 26/01/2015 16:12:40

IL FAMOSO LANZETA

(3° classificato del Premio Letterario Internazionale Città di Arona "Gian Vincenzo Omodei Zorini" XV edizione - anno 2013; sezione medici scrittori nel mondo).

 

Credo che mio zio sia stato l’uomo più buono del mondo e questo non ha niente a che vedere con i suoi trascorsi giovanili in seminario, dettati più dalle esigenze familiari di avere una bocca in meno da sfamare che da una vocazione genuina.

Non era caritatevole, né particolarmente pio, ma possedeva una naturale propensione verso il prossimo, fatta di gestualità e silenzi partecipi. L’intesa non era mai ricercata, era più un’affinità confermata da poche parole e rare frasi e l’amicizia che ne nasceva valeva per sempre.

Il primo vivido ricordo che ho di lui sono le sue grandi mani, dalle dita lunghe e forti, protese a sollevarmi da terra per mostrarmi l’orizzonte.

“Guarda sempre lontano per capire…”.

E io lo facevo per fargli piacere e per me.

Viveva nella nostra stessa casa, in poche stanze indipendenti che odoravano di tabacco da pipa, di libri e di ricordi.

Quando andavo a trovarlo mi sedevo di solito a un vecchio banco di scuola elementare, completo di penne e calamaio, usato come scrittoio e sistemato in un angolo della stanza da letto, mancava solo il suono della campanella.

Di lato una mensola con sopra i pochi libri “che vale la pena di leggere” mi diceva con uno scappellotto, fra i quali i miei preferiti, da sfogliare anche solo per le figure, colorate e protette da carta velina: “I tre moschettieri”, “Il richiamo della foresta”, “Dalla terra alla luna” e “Capitani Coraggiosi”.

Era il rifugio dove mi appartavo per stare un po’ per conto mio, a fantasticare. Da lì, girando appena la testa, riuscivo a sbirciare attraverso la porta-finestra che dava sul cortile interno, molto piccolo in verità, con al centro, inutile, un vecchio ciliegio solo tronco e gomme traslucide che lo zio si ostinava a non voler abbattere perché piantato da suo padre, mio nonno.

Il soggiorno era per le visite importanti e mi piaceva per le fotografie appese, in bianco e nero, tante, di paesaggi e persone d’Africa dove aveva combattuto e trascorso qualche anno di prigionia. Ogni tanto mi soffermavo a guardare quelle immagini, alcune più a lungo e intensamente, figurandomi come doveva essere stata la vita laggiù, prima e dopo l’attimo fissato dal fotografo.

Ne parlava senza acrimonia, legando quel periodo della sua esistenza a scelte forse discutibili, ma vere. Era un fatalista disilluso che aveva fortemente creduto in un sogno più grande di lui e del suo Duce e non per questo l’aveva rinnegato alle prime avversità.

Io chiedevo di safari, leoni e giungla - erano gli anni delle letture “salgariane” e della sete di avventura - lui mi narrava di reticolati, fame, sete e tifo petecchiale.  Il Sudafrica non era ancora “il mondo in un paese” dei depliant di carta patinata.

Ne tornò provato nel fisico per una serie di malanni dai nomi impronunciabili, così come nello spirito per riflessioni solitarie e ponderate sull’idealismo fascista. Ma era giovane e vivo, solo più attento e disincantato.

Ci mise un po’ a recuperare i ritmi della normalità e dovette ricredersi su alcune questioni di fondo, nonostante fosse di mente aperta e sapesse che il vento politico è mutevole e capriccioso.

Parlava un discreto inglese e, soprattutto, sapeva pescare a mosca. Dell’inglese se ne fece poco perché nel primo dopoguerra il dialetto era ancora la lingua madre e la Romagna, la sua Riviera e persino l’italiano erano sconosciuti ai più, mentre l’insolito, per molti eccentrico, modo di acchiappare pesci lo rese subito famoso e gli fruttò il soprannome di “Lanzeta”. Lanzeta sapeva come muoversi nel fiume e nell’acqua in generale, e soprattutto pescava per divertimento, non per mangiare, chiamando sport questo strano esercizio.

La gente lo guardava come si potrebbe osservare un marziano, con un interesse misto a soggezione e scuoteva la testa rapita, ma poco convinta. Era fuori dalla realtà e dal senso comune stare per ore coi piedi a bagno e frustare la corrente inseguendo la perfezione del gesto.

Il suo punto di vista era radicale e anche questa volta si trovava a percorrere una strada in salita, molto poco affollata. Non se ne curava, concentrato com’era sul non trascurabile fastidio di guadagnarsi il pane per poi potersi svagare liberamente.

Il lavoro scarseggiava, ma lui era abile in tutto e ricercato perché puntuale, preciso e disponibile al baratto. Aveva infatti uno strano concetto del denaro , inteso come un mezzo e non un fine. “Guarda che i soldi non me li porto nella tomba” amava ripetere.

Era un antico Homo abilis con tratti del cacciatore anzi del pescatore raccoglitore del Paleolitico: alto, asciutto, le braccia lunghe a bilanciare un’andatura dinoccolata, a larghe falcate, sostenuta da gambe sottili e nervose. Da fermo, i piedi ben piantati, sembrava pendere appena in avanti ed emanava energia positiva che si trasmetteva alle persone intorno. Prendeva dalla natura quello che gli serviva evitando di accumulare il superfluo.

L’attrezzatura da pesca però era di prima scelta, costata una fortuna e fatta venire appositamente dall’Inghilterra. Gliel’avevano pagata un pò tutti, senza accorgersene, perdendo regolarmente qualche lira al gioco delle piastre del quale era un interprete abilissimo. Curava personalmente la scelta dei sassi girando per il greto del fiume alla ricerca dei ciottoli più piatti, simmetrici e bilanciati. Li scheggiava ai bordi rendendoli affilati quel tanto da poterli insinuare sotto quelli dell’avversario senza rischiare di arenarli nel terreno di gioco.

Poi servivano occhio, braccio e fortuna, proprio come a pesca.

Ci aveva messo un bel po’ di domeniche e di sfide nelle aie di terra battuta di mezza Romagna, ma alla fine le vincite avevano raggiunto una cifra ragguardevole che, aggiunta a qualche risparmio, aveva consentito l’acquisto personale più costoso dai tempi dell’armistizio.

Gli amici intimi, quelli che potevano permettersi di prenderlo in giro, gli dicevano che con quei soldi avrebbe potuto comprare il piede destro, quello sbagliato, del calciatore della Juventus Omar Sivori e l’investimento sarebbe stato sicuramente più proficuo.

Del vestire invece non se ne curava più di tanto indossando panni militari sformati ma pratici, che gli conferivano una certa autorevolezza oltre a dotarlo di una miriade di tasche che tendeva a riempire di tutto. Da qui l’altro appellativo di “Eta beta”, come il bizzarro amico di Topolino.

Non smetteva la divisa neanche la sera quando incontrava gli amici all’Osteria della Rosina, dove si tirava tardi a giocare a “marafone” e a bere il sangiovese della casa, prima di essere gentilmente sospinti fuori nel cortile, sotto il pergolato di vite. Lì al buio si continuava a parlare di questo e di quello, di partiti  “rossi” e di donne “more”, di soldi e di mangiare - celebre l’elegia del pollo alla cacciatora scritta su un tovagliolo dal “Pino” all’anagrafe Giuseppe, il letterato della compagnia -.

Spesso mi intrufolavo fra loro e poi, dopo aver rubato un po’ di marsala all’uovo da dietro il bancone della mescita, mi accoccolavo per terra fra i gatti ad ascoltare e nutrirmi di storie. Ero tollerato per un po’, ma quando si facevano discorsi “da grandi” venivo spedito a dormire. Immancabilmente lo zio si alzava per accompagnarmi, lo intravedevo solo dal movimento della brace della sigaretta e mi prometteva di portarmi con sé a pescare, una volta o l’altra, diceva.

Dovevo crescere, almeno fino a un tratto prestabilito segnato a  matita sul muro e imparare a nuotare.

Vivevo di sogni e lui ne era l’artefice e l’artista.

Era diretto, rigoroso verso se stesso e gli altri, con un codice morale intransigente, permeato di un certo misticismo religioso, ma poco propenso al perdono senza punizione e a porgere l’altra guancia. Soprattutto odiava perdere tempo dietro la futilità delle cose e la stupidità delle persone, spesso due facce della stessa medaglia.

Per qualche oscuro motivo, fra tanti nipoti, aveva scelto me come depositario dei suoi trucchi, dei suoi segreti, delle sue aspettative per il futuro che sempre, ostinatamente, rifiutava di considerare “a termine”.

A proposito di questo e dei temi pregnanti della vita e quindi della morte parlava di stagioni, di percorsi imperscrutabili e di selezione naturale; mai menzionati medico e medicine, mai accennato a malattie e alla morte come decadimento. Piuttosto paragonava il tutto a una giostra dalla quale alla fine si scendeva cercando di non ruzzolare giù.

Di volta in volta allievo, scolaro, discepolo, feci di tutto per imparare, ma soprattutto per meritare la sua considerazione e acquisire la sua leggerezza d’animo. Ci riuscii, e gradualmente “venni al vento”, in grado di scivolare nella vita e sul fiume, come lo zio.

Alla fine, quando l’Alzheimer lo allontanò per sempre da noi, feci quello che lui aveva fatto per me tante volte quando ero bambino: stare insieme, solo e semplicemente stare insieme. Facevamo lunghi giri a braccetto senza meta e senza parole, con lui a tirare come un cavallo bolso e io con la testarda speranza di un risveglio.

Talvolta i suoi passetti rapidi si arrestavano per un attimo, una ruga di concentrazione compariva sulla fronte, gli occhi si accendevano su una visione che squarciava il velo della mente e il braccio destro aveva un movimento convulso al modo di lanciare qualcosa. Sembrava il gesto rituale del pescatore a mosca. Era come si aprisse una finestra temporale che fugacemente lo avvicinava alla realtà di un mondo parallelo ormai irraggiungibile e lo liberava dalla prigione dove la malattia l’aveva rinchiuso irrimediabilmente.

Questo era mio zio e le sue storie hanno chiamato le mie.


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